Dietro l’accordo tra Italia e Francia per i cantieri navali di Saint Nazaire preme la formazione di un’industria militare europea “competitiva” su scala mondiale. Del resto l’impuntatura nazionalistica di Emmanuel Macron, quando i coreani hanno deciso di mollare il loro 66%, non avrebbe avuto molto senso se l’obiettivo fosse stato solo quello di continuare a costruire navi da crociera. Le quali possono rendere molto sul piano finanziario, garantire un certo numero di posti di lavoro, ma non rivestono un carattere strategico.
Subito dopo l’accordo di Lione, dunque, diversi protagonisti italici sono stati costretti ad esplicitare un po’ più chiaramente questi obiettivi, pressati dalle critiche per il dispositivo concordato con i francesi. Se i coreani avevano il 66%, infatti, l’essere stati ridotti al 50% non poteva essere presentato come una “vittoria”. Tanto più se accompagnato da altre condizioni capestro (la Francia “presta” l’1% necessario a fare l’azionista di maggioranza, ma solo per 12 anni e con stringenti verifiche quadriennali sulla condivisione delle tecnologie e il mantenimento dei posti di lavoro francesi; mantiene il diritto di veto su ogni nomina di vertice, ecc) che riducono a ben poco il potere di decisione “italiano”.
Per poter recitare la parte dei conquistatori, dunque, sia Giuseppe Bono – amministratore delegato di Fincantieri – che la ministra della Difesa Roberta Pinotti hanno dovuto portare allo scoperto alcune ambizioni che avrebbero preferito forse tenere sotto traccia.
Il primo ha scritto una lettera a tutti i dipendenti, preoccupati per la gigantesca “sinergia” che – come sempre avviene – si traduce rapidamente in taglio dei posti di lavoro. Con l’accordo, spiega Bono, «si dà il via alla creazione di un leader europeo nella cantieristica civile e militare, destinato a diventare uno dei principali operatori a livello globale nell’industria navale, il primo operatore al mondo nel comparto delle navi da crociera e uno dei player principali in altri segmenti ad alto valore aggiunto».
La seconda, invece, ha sottolineato la portata strategica di un’intesa che ora – ha ripetuto più volte – “va estesa ai tedeschi”. Il grumo industriale europeo degli armamenti è storicamente italiano e francese (soprattutto ora che la Gran Bretagna sta trattando le modalità di uscita dalla Ue), ma è ovvio che non si potrebbe costruire nulla di serio senza coinvolgere la Germania sia come acquirente finale della produzione militare (Berlino dispone di fatto di forze militari poco più che simboliche – per quantità e armamento – per decisione degli Alleati dopo la Seconda guerra mondiale), sia e forse soprattutto sul piano delle tecnologie.
“Con la Francia stiamo ragionando su un accordo su tutte le navi di superficie, ma potremmo in futuro anche guardare ai sommergibili. E allora il dialogo con la Germania, che ha il nostro stesso sistema di propulsione, sarebbe inevitabile”.
L’esercito europeo che Macron ha presentato come propria idea, qualche giorno fa, può del resto prendere forma solo se si costituisce un complesso militare-industriale all’altezza – se non di quello statunitense – almeno di Russia e Cina. E difatti si comincia già a ragionare di come mettere insieme, in qualche modo, le due società pubbliche più impegnate nel militare, l’italiana Finmeccanica e la francese Thales.
Ma è proprio nella prospettiva militaresca della “Nuova Europa” che il problema della “sovranità” esce dalla dimensione tutta ideologica del dibattito nostrano per entrare in quella concretamente empirica: chi comanda?
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