Il giallo del rapimento-lampo di Shafiq, mostrato in queste ore all’opinione pubblica egiziana e internazionale, è probabilmente meno misterioso di ciò che appare. Magari s’imporrà per un certo periodo come diversivo nei notiziari interni, visto che dalle indagini sul recente sanguinosissimo attentato alla moschea al Rawdah non scaturisce granché, oltre agli iniziali bombardamenti a caso su convogli indicati come terroristi per coprire il vuoto informativo del Mukhabarat.
I fatti. L’odierno settantaseinne Ahmid Shafiq, da tempo riparato negli Emirati Arabi Uniti per i guai giudiziari dell’epoca Mubarak, a detta dei suoi familiari sarebbe stato sequestrato per alcune ore dopo un rientro al Cairo. La sparizione viene messa in relazione con l’annuncio di una sua disponibilità a partecipare alle elezioni presidenziali della prossima primavera. L’interessato, che ieri sera ha ufficializzato su un’emittente privata l’idea di correre per la massima carica del Paese, comunque nega la notizia del sequestro. Shafiq partecipò alle presidenziali del 2012, quando venne prescelto come rappresentante della politica laica (e del vecchio regime) contrapposto al candidato della Fratellanza Musulmana Morsi.
Perse per novecentomila preferenze, ma quella sconfitta rincuorò il fronte opposto alla Confraternita che iniziò a tramare per una riscossa. Nell’interregno Morsi, crebbero i guai giudiziari di Shafiq, accusato di corruzione e arricchimenti personali, nel suo incarico di generale dell’aeronautica fedelissimo al presidente Mubarak e suo sodale di operazioni finanziarie a danno dello Stato. Dopo il golpe di Sisi contro il governo della Fratellanza Musulmana Shafiq pensò di riparare ad Abu Dhabi, risiedendovi.
Ora l’annuncio di voler correre per la presidenza lo pone nuovamente sul proscenio nazionale. Per i suoi trascorsi la figura di Shafiq difficilmente può rappresentare una bandiera dell’Egitto democratico, attualmente non detenuto, che vuole contrastare lo strapotere autoritario (e criminale) di al-Sisi. Al contrario potrebbe fornire al generale-presidente l’alibi di una competizione libera e aperta, come accadde nel 2014 quando Sisi stravinse su Sabbahi col 97% dei consensi. Si parlò di 23 milioni di votanti, ma secondo osservatori internazionali a quelle consultazioni aderì il 30% dell’elettorato, dunque le cifre risultavano gonfiate. Un candidato di cui si presume la presenza elettorale è l’avvocato dei diritti Khaled Ali.
Partecipò anche nel 2014 con percentuali, come si dice in politichese, da prefisso telefonico. Lui porrà al centro della campagna presidenziale il tema della libertà e dei diritti calpestati da un quadriennio di repressione indiscriminata. Ma sicuramente il tema centrale sarà quello della sicurezza interna, messa in discussione non solo nel Sinai. Eppure su quest’ultimo che parrebbe il terreno privilegiato per il generale di ferro, l’attualità volta le spalle a Sisi. Il gruppo Wilayat Sinai, diventato una costola dell’Isis, sembra imprendibile nell’area in cui agisce.
Al di là del cartello jihadista di cui è diventato membro che trova propaggini nel territorio libico controllato dai miliziani islamisti, riceve sostegno da quelle tribù beduine con cui l’attuale presidente non è riuscito a stabilire alcun accordo e che reagiscono alla linea coercitiva praticata dall’esercito egiziano. Capire come si collocherà il candidato Shafiq nell’ipotetica sfida sui temi in questione è un parziale rebus. La contrazione dei diritti non è mai parsa una sua preoccupazione e pur da ex militare e uomo d’ordine non sembra attualmente avere una presa sulla lobby delle stellette. Il ruolo, com’è ipotizzabile nella vicenda del sequestro, può risultare quello di una comparsa di rango che fa il ‘gioco democratico’ del dittatore-mattatore.
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