Oggi si vota in Turchia, uno dei paesi più importanti dello scacchiere ad oriente dell’Europa.
Si vota in un clima di forte condizionamento, con la stampa imbavagliata e i settori progressisti e dissidenti della società minacciati e intimiditi, centinaia di migliaia di funzionari e insegnanti arrestati, cacciati o “avvisati” nel corso del controgolpe erdoganiano seguito al maldestro tentativo di putsch militare del luglio 2016. Per non parlare dello ‘stato d’emergenza’ latente imposto nelle zone a maggioranza curda.
Furono i massicci brogli del regime che nel 2017 permisero al sultano Erdogan di incassare una vittoria risicata ma fondamentale nel referendum costituzionale che gli ha concesso poteri dittatoriali cancellando quasi del tutto le prerogative del parlamento e dello stesso governo.
Anche oggi stanno arrivando da numerose città notizie continue di brogli e aggressioni, da parte delle “milizie” governative, nei confronti dei candidati e degli elettori dei partiti di opposizione, che si sono in buona parte coalizzati per impedire all’Akp, alleato coi Lupi Grigi dell’Mhp e con gli altri ultranazionalisti di destra del Partito della Grande Unità (BBP), di ottenere la maggioranza assoluta in parlamento e la rielezione già al primo turno di Tayyip Erdogan.
Contro il regime si è creato un composito e vasto schieramento politico, capitanato dall’esponente della sinistra interna al Partito Repubblicano Popolare (Chp) che durante la campagna elettorale ha dimostrato di riuscire a galvanizzare i settori della società turca che non ne possono più di un regime sempre più sciovinista, improntato al fondamentalismo religioso, all’aggressività guerrafondaia nei confronti della dissidenza interna, della vicina Siria e della popolazione curda, e alla corruzione. A milioni hanno affollato nelle ultime settimane i comizi dell’ex insegnante di fisica Muharrem Ince, inviso alla stessa dirigenza del suo partito ma scelto come sfidante di Erdogan per le sue capacità comunicative, il suo carisma, la sua ideologia laica ma non laicista, la sua apertura nei confronti delle minoranze del paese, in particolare quella curda. Un profilo che ha permesso a Ince di aggregare attorno al kemalista Chp una “Alleanza Nazionale” formata anche dal “Buon partito” (IYI), dalla destra nazionalista e laica, dal “Partito Democratico” (DP), nazionalista e centrista e dal “Partito della felicità Saadet” (SP), di orientamento islamista moderato e conservatore.
Nessuna di queste formazioni. così come il “Vatan Partisi” (nazionalista di sinistra) può ragionevolmente aspirare a superare la draconiana soglia del 10% fissata dalla legge per ottenere una rappresentanza in parlamento e pensata soprattutto per impedire alla comunità curda di essere rappresentata dalle proprie formazioni, messe fuori legge una dopo l’altra negli ultimi anni.
Non è scontato neanche l’ingresso in parlamento del Partito Democratico dei Popoli (HDP), formazione nata dalla confluenza delle correnti nazionaliste curde di sinistra con i partiti della sinistra rivoluzionaria, radicale e libertaria turca. Il suo leader e candidato alle presidenziali, Selahattin Demirtas, rappresenta il partito dal carcere dove è rinchiuso da tempo per reati di opinione insieme a centinaia di deputati, sindaci, dirigenti e militanti dell’HDP. Il partito è stato decapitato dalla repressione, molte sue sedi sono state chiuse, alcune delle città in cui è maggioritario sono state bombardate dall’esercito durante le innumerevoli campagne militari di Ankara contro l’insorgenza del PKK e delle altre organizzazioni militanti curde e centinaia di migliaia di abitanti sono stati deportati o costretti a trasferirsi, impossibilitati spesso ad esprimere il proprio voto. E molti curdi, dicono alcuni sondaggi, potrebbero questa volta decidere di appoggiare il candidato del Chp Muharrem Ince: i nazionalisti repubblicani non sono mai stati molto teneri con i curdi ma il loro candidato è considerato in grado di dare filo da torcere al Sultano.
Brogli e “maggioranza silenziosa” permettendo. Se è vero che Erdogan ha negli ultimi anni progressivamente rafforzato il controllo sul paese affidandosi alla repressione, alle purghe, all’imbavagliamento della stampa e alla censura, è anche vero che una parte consistente della popolazione turca lo ama, si identifica con lui e lo considera un benefattore. Anche se l’economia turca, fondata sulla speculazione edilizia e le grandi opere, e su una bolla immobiliare che prima o poi scoppierà rivelando il carattere effimero del benessere erdoganiano, non tira più come un tempo.
Ma in questi anni il modello Erdogan – liberismo più fondamentalismo religioso più nazionalismo – associato ad un insistente messaggio complottista contro nemici interni ed esterni per lo più inventati, ha permesso all’Akp di coagulare attorno a sé un vasto blocco sociale formato dai settori delle élite del precedente regime laicista e subordinato agli Usa e alla Nato che si sono accomodati nel nuovo contesto, ma anche da ingenti masse di cittadini e cittadine “economicamente promossi” da Erdogan insieme alla loro identità islamista e conservatrice per decenni discriminata dal laicismo kemalista.
Non bisogna sottovalutare il vasto consenso di cui il sultano gode nella Turchia che oggi va ai seggi, conquistato negli anni grazie all’astuzia e alla spregiudicatezza e anche frutto di repentini cambiamenti ideologici e di fronte.
L’Erdogan che nei primi anni del suo governo, da Primo Ministro, si caratterizzava per una politica di avvicinamento all’Unione Europea e all’apertura democratica in un paese reduce dal regime imposto dai militari – ben 4 i colpi di stato che hanno ingessato per decenni il regime fondato dal padre della patria Ataturk – si è gradualmente trasformato in un leader autoritario, fondamentalista, ultranazionalista e guerrafondaio, a capo di una vasta rete di malaffare e di provocazioni.
C’è chi giura che dietro alcuni dei sanguinosi attentati che hanno insanguinato il paese negli anni scorsi, quando Erdogan aprì verso Damasco “l’autostrada della Jihad” per rovesciare Assad e imporre in Siria un regime sunnita tributario di Ankara, ci siano i suoi servizi segreti.
Fallita l’iniziale agenda neo-ottomana che sognava la costruzione di un’area islamista e subalterna ad Ankara che andasse dalle repubbliche turcofone ex sovietiche fino al Maghreb – sogno parzialmente infranto dal golpe militare in Egitto, dall’isolamento di Hamas a Gaza e dall’indebolimento di Ennahada in Tunisia – Erdogan ha continuato in questi anni a perseguire una road map espansionista in tutto il Medio Oriente, accordandosi militarmente con il Qatar per frenare le ambizioni dell’Arabia Saudita, riavvicinandosi a Israele nonostante il sultano si erga a parole a difensore della causa palestinese e facendo passi in avanti nella distruzione dell’entità semistatuale che i curdi siriani avevano costruito ai confini meridionali della Turchia.
In pochi mesi Erdogan è passato da una rischiosa contrapposizione con Mosca – seguita all’abbattimento di un caccia russo nei cieli della Siria – ad una spuria ma per ora duratura alleanza con Putin e l’Iran, in nome degli interessi comuni che per ora sembrano sopravanzare gli elementi di competizione. In cambio al via libera – che sia esplicito o meno fa poca differenza – di Mosca all’invasione dei territori del nord della Siria sui quali Ankara accampa storiche ambizioni espansioniste, Erdogan ha concesso la rinuncia al rovesciamento di Assad e un tracciato sicuro per il South Stream bloccato dal golpe sciovinista e filoccidentale in Ucraina.
Mentre Erdogan può sedersi al tavolo di Astana che tenta di creare un nuovo ordine, approfittando dell’estrema debolezza statunitense, nel Medio Oriente destabilizzato dal jihadismo e dai suoi sponsor sunniti e occidentali (Turchia compresa) Erdogan continua ad animare la carta neo-ottomana dai Balcani al Corno d’Africa, tentando di costruirsi un’area di influenza e di egemonia economica e ideologica che perpetui, di fronte alla sua opinione pubblica, il mito del Sultano, e convinca le élite del suo paese a rimanergli incollate in quanto garanzia di business ed investimenti.
Gli Stati Uniti e l’Unione Europea assistono preoccupati ed in affanno ai giochi di Erdogan. La distanza tra Ankara e Washington non è mai stata tanto abissale. Per decenni baluardo militare e ideologico della Nato e degli Stati Uniti, la Turchia è ormai una potenza regionale che “vuole fare da sé” e lo ha dimostrato quando, all’indomani del tentato golpe del 15 luglio 2016, Erdogan ha fatto assediare la base di Incirlik dalle sue truppe, incolpando il suo ex mentore Fethullah Gulen, autoesiliatosi da tempo negli Stati Uniti, di essere la mente, insieme all’amministrazione americana, del tentativo di estrometterlo dal potere. Oppure quando i due paesi sono entrati in collisione sul sostegno ai curdi delle Ypg: fondamentali truppe di terra della cosiddetta ‘coalizione internazionale” contro l’Isis per Washington, terroristi e nemici della sicurezza e delle ambizioni espansioniste turche per Ankara.
Ma Washington non può rinunciare del tutto alle pur sempre più difficili relazioni con la Turchia, pena la sua consegna definitiva nelle mani dei russi.
Così come l’ipocrita Unione Europea, le cui imprese fanno affari d’oro grazie alle grandi opere di Erdogan e che al Sultano ha affidato il compito, in cambio di un contratto da ben 6 miliardi di euro, di fare il lavoro sporco al suo posto e di “contenere” milioni di profughi siriani e asiatici e di tenerli lontani dai confini europei, costi quel che costi.
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