Dicono che certi valori sono ormai passati di moda, oppure che non sono “né di destra né di sinistra”. Palle.
Prendiamo il caso della nave Lifeline, appartenente all’omonima ong tedesca, che ha finalmente ottenuto l’autorizzazione ad entrare nel “porto sicuro più vicino”, ossia Malta. Ci è voluta una settimana di vergognoso scaricabarile e insulti tra i cosiddetti “leader europei” per arrivare a una conclusione che è scritta nel codice del mare da qualche millennio.
L’autorizzazione è arrivata solo dopo il forte peggioramento delle condizioni meteo, che aveva spinto il comandante della nave, il capitano Carl Peter Reisch, a scrivere alle autorità di Malta: “Fateci entrare in porto o fateci almeno riparare dal vento e dalle onde. C’è gente a bordo che ha bisogno di cure intensive. In tre sono già stati portati in ospedale. Molti a bordo stanno soffrendo di mal di mare. Chiediamo ora se siamo autorizzati a proteggerci almeno dalle alte onde e dal forte vento al largo della costa maltese”.
Ma anche dopo l’attracco la vergogna è proseguita, persino aggravata.
I poco più di 200 naufraghi raccolti in mare verranno distribuiti nei soli 8 paesi europei disposti a prenderseli (su 28: Malta, Francia, Italia, Irlanda, Portogallo, Belgio, Olanda e Lussemburgo). Ma non tutti, anzi. Verranno infatti inviati in destinazioni europee soltanto coloro che verranno “scoperti” come aventi realmente diritto all’asilo politico o protezione umanitaria perché provenienti da paesi in guerra. Gli altri – i cosiddetti “migranti economici” – verranno immediatamente rispediti al mittente.
Questo, almeno, secondo gli accordi intercorsi tra il premier maltese – Muscat, quello accusato di essere tra i mandanti dell’omicidio della giornalista locale, Daphne Caruana Galizia – e i suoi colleghi Ue. Non si sa infatti dove verranno rispediti: nel paese d’origine o in quello di ultima provenienza, ossia la Libia? La destinazione, in ogni caso, è questione di vita o di morte per quelle persone, anche se ora Salvini giura che a Tripoli stanno preparando nuovi lager che saranno considerati hotel a cinque stelle (“Ho chiesto di visitare un centro di accoglienza per migranti in costruzione, un centro all’avanguardia che potrà ospitare mille persone. Questo per smontare la retorica in base alla quale in Libia si tortura e non si rispettano i diritti umani”).
Fin qui come da copione della “nuova linea europea”, alquanto salviniana, sui salvataggi di migranti in mare. In più c’è però l’arresto del capitano e il sequestro della nave.
L’accusa è l’aspetto più infame di tutta la vicenda: non aver rispettato l’ordine della guardia costiera italiana che indicava di riportarli in Libia. Ovvero nel luogo da cui stavano fuggendo – pagando – per metter fine a un regime fatto di torture, stupri, espropriazione, lavoro coatto, ecc. Tutt’altro che un “porto sicuro”, insomma, nonostante le rassicurazioni di Salvini in versione testimonial di resort nel deserto.
A dire che nessuna destinazione in Libia può esser considerata un “porto sicuro” non siamo stati noi, ma il Tribunale di Ragusa. Nessuno di essi infatti rispetta gli standard definiti dal diritto internazionale (e non ci riferisce certo alla qualità delle infrastrutture, ma al tipo di “accoglienza”). Del resto, a smentire Salvini & co – appena rientrati da un viaggio a Tripoli per firmare accordi segreti, basterebbe la notizia di oggi: il vice del premier Al Serraj è stato rapito…
Dunque il comandante viene arrestato e la nave sequestrata per aver obbedito al diritto internazionale anziché a un anonimo ufficiale della guardia costiera italiana comandato da un ministro dell’interno vagamente razzista.
Ci sarebbe da chiedere, a quel capitano e al resto dell’equipaggio, “ma chi ve lo ha fatto fare?”. Ma loro hanno già risposto attraccando a La Valletta, dove, schierati sul ponte, hanno gridato uno slogan piuttosto noto anche alle nostre orecchi: “siamo tutti antifascisti”.
Andateglielo a spiegare voi, che certi valori “non sono né di destra né di sinistra”…
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