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Londra. Lo spettro delle elezioni anticipate e la partita geo-politica della Brexit

Questo mercoledì si conclude a Birmingham il congresso dei Tories, i conservatori britannici.

Tutti i commentatori politici hanno rivelato il clima da “guerra civile” consumato in questi giorni attorno al tema della Brexit, che vede opposti i sostenitori dell’ipotesi d’accordo proposto dalla Premier Theresa May, sottoposta a Salisburgo ai 27 Paesi europei che l’hanno bocciata all’unanimità, e l’ala degli hard brexiters alla testa della quale vi è il caustico ex sindaco di Londra Boris Johnson, che a luglio si è dimesso dal suo incarico di Ministro degli Esteri.

Come da tradizione Shakespeariana, Johnson aspira al “Golden Round” fino ad ora sulla testa della sua “collega” di partito.

In sintesi, l’obiettivo del governo May sarebbe quello di mantenere una unione doganale e mercato unico solo per i prodotti agricoli e industriali, escludendo capitali e servizi, nonché la libera circolazione delle persone. La premier vorrebbe rimandare la soluzione del problema irlandese, per non mettere a rischio l’unità della Gran Bretagna. L’Europa difende l’integrità del mercato unico, e rilancia per Londra due opzioni secche, scegliendo o un “modello norvegese”, cioè quello di un Paese che seppur restando fuori dalla UE rispetta tutte le regole del mercato unico e versa la sua quota nel bilancio UE, o quello canadese, un Paese terzo a tutti gli effetti che ha stipulato con Bruxelles un accordo di libero scambio.

Se l’UE ha fatto sapere che non si dà una terza opzione, Theresa May ripete che “nessun accordo è meglio di un pessimo accordo”.

La crisi del partito su questo argomento non sembra avere possibili mediazioni, se non un muro contro muro che, in caso di sfiducia della Premier in sede parlamentare riguardo al giudizio sull’esito del braccio di ferro con la UE, porterebbe a elezioni anticipate.

Le Snap election sarebbero una grande opportunità per i laburisti, nonostante la strada in salita, viste le caratteristiche del sistema elettorale della Gran Bretagna.

Se si confrontano i due Congressi, quello del Labour da poco concluso a Liverpool e quello dei Tories, salta agli occhi la capacità all’interno della formazione di Jeremy Corbyn di essere riusciti a formulare una posizione sulla Brexit in grado di accogliere le istanze della parte del Partito favorevole ad un secondo referendum, guidata dal collettivo People’s Vote. Questa porzione ha sostenuto con una ovazione l’intervento di Keri Starmer, ministro ombra della Brexit, che ha dichiarato: “Nessuno esclude la possibilità di restare”, senza però ipotecare alcuna decisione, evitando così lo scontro fratricida e l’ipotesi altrettanto pericolosa di andare contro la volontà popolare democraticamente espressa.

La questione è complessa. Una parte del partito ritiene poco opportuna una riedizione del referendum (tra cui Corbyn, il suo consigliere economico e importanti leader sindacali), un’altra propende invece per questa ipotesi, sebbene i tempi piuttosto stretti la rendano molto improbabile – la data programmata per la Brexit è il 29 marzo -, e preferibile l’opzione delle elezioni anticipate a Novembre.

È comprensibile chi all’interno del Labour vuole rimettere in discussione non tanto l’esito del voto popolare, quanto il risultato dei negoziati che sono stati condotti dai conservatori in maniera decisamente perdente, vista la loro litigiosità e inconcludenza, e tutti improntati ad una “uscita da destra” dalla UE, anche in termini di immigrazione.

Secondo un sondaggio l’86% dei membri dei Labour sono a favore di un nuovo voto popolare, mentre è certo che il 37% di coloro che hanno votato per il partito laburista alle precedenti edizioni, poco prima si erano espressi per il Leave al referendum.

Intanto, proprio tra le file del Labour, sta prendendo piede una ala che alimenta una discussione su come l’uscita “a sinistra” dalla UE sia una ipotesi auspicabile, e trovano spazio tesi fin qui abbastanza marginalizzate: lo riporta Lerry Elliott in un recente articolo del “The Guardian” citando l’ultimo libro di Costas Lapavitas: The Left Case Against the UE.

Scrive Elliott: “L’Ue, sostiene Lapavitsas, non è uno stato-nazione per cui la sinistra possa combattere al fine di conquistarlo e quindi modellare il modo in cui viene gestito. Piuttosto, è un colosso transnazionale orientato verso il neoliberismo. L’attaccamento della sinistra europea alla UE, vista nel suo ipotetico sviluppo intrinsecamente progressivo, le impedisce di essere radicale, anzi la integra nelle strutture neoliberali del capitalismo europeo. In questo modo la sinistra è stata sempre più tagliata fuori dal suo storico blocco sociale, dagli operai e dai poveri d’Europa, che naturalmente hanno cercato una voce altrove“.

Il Labour raccoglie i frutti della fine della capacità attrattiva dell’ideologia liberista, della sua incapacità di essere in grado di costruire nuovamente una narrazione efficace attorno al “capitalismo del XXI Secolo”, che è l’idea-forza dei Tories così come è stata da loro definita al Congresso, e di rilanciare su un ambizioso progetto politico per “ricostruire” la Gran Bretagna su basi differenti, senza che a beneficiare della ricchezza sia solo uno strato sottile della società: “for the many” come recita il suo slogan.

Il suo programma, checché ne pensano i laburisti è “oggettivamente” incompatibile con il dispositivo della UE.

Ma veniamo a come l’UE vede la Brexit.

Con l’inasprirsi del confronto tra differenti attori e aree geo-politiche, l’Unione Europea teme “compattamente” quali possano essere per lei gli effetti negativi di un possibile cuneo che la minacci da vicino, e preferisce che la Gran Bretagna cerchi “le grande large”, per citare De Gaulle, piuttosto che il Continente, qualora potesse anche solo velatamente in una minaccia.

In che senso?

Vediamolo nel dettaglio grazie alla lucida analisi fattane da Adriana Cerretelli, sul Sole 24 Ore del 25 settembre.

L’articolo s’intitola “il muro contro muro fra Londra e Bruxelles”:

L’Europa teme la nascita di una nuova Singapore sulle rive del Tamigi, a un passo dalle sue frontiere: non può impedirla, ma non intende favorirla con un atteggiamento accomodante sul rispetto delle regole del mercato unico. (…) Concedere alla May di far circolare le merci britanniche liberamente nel mercato unico, svincolandola però da tutti gli obblighi di contorno, cui invece devono attenersi le industrie concorrenti della UE, significherebbe di fatto regalare alla Gran Bretagna la possibilità di diventare un grande hub di produzione e/o assemblaggio per americani, cinesi o qualunque altro paese terzo, che avrebbe il vantaggio di far entrare i prodotti finiti sul mercato europeo senza barriere da superare né dazi da pagare. Non sarebbe un buon servizio all’industria né alla tenuta del mercato interno”.

La Brexit quindi è un vero e proprio rompicapo politico per i Conservatori in lotta tra di loro, con un Labour in ascesa – non più solo competitor, come all’epoca di Tony Blair, ma risolutamente antagonista rispetto ai Tories – ed una UE che, conscia dell’esacerbarsi della competizione internazionale, si sta velocemente attrezzando a riguardo contro vecchi e nuovi nemici.

Impossibile stabilire quale sarà l’esito finale della lunga crisi della governance del neo-liberismo in Gran Bretagna, ma suona come una beffarda nemesi storica il fatto che le parole pronunciate da un minatore, durante la durissima lotta che i miners ingaggiarono con la Lady di Ferro a metà degli anni Ottanta, ora potrebbero adattarsi fatalmente dalla bocca dell’attuale Premier: to the bitter end!

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