Per comprendere l’attuale contesto tedesco e i rapidi cambiamenti del quadro politico, occorre tenere conto di tre fattori assolutamente rilevanti: il mancato processo di “integrazione” tra l’ex-Germania dell’Est, cioè i Lander orientali della precedente Repubblica Democratica Tedesca, e il resto della Germania; il rallentamento della “locomotiva” tedesca sul piano della performance economica; la rilevanza delle dinamiche politiche regionali bavaresi nel determinare il quadro della rappresentanza politica complessiva della Germania “post-unitaria”.
È interessante notare come una delle con-cause di questo arretramento economico stia nella diminuzione della domanda interna (minori consumi), che ha nell’immiserimento crescente della popolazione uno dei fattori principali.
La forbice si sta “divaricando” e la questione sociale ri-inizia ad essere una delle questioni centrali a cui bisogna rivolgere lo sguardo, pena il condannarsi all’ascesa delle forze dell’estrema destra, come l’AFD – che nei sondaggi ha “superato” in alcune regioni orientali il partito della Merckel – e di Pegida, nonché di rinvigoriti gruppi dichiaratamente neo-nazisti.
Al di là del giudizio complessivo sul movimento politico di Sahra Wagenknecht, il gradimento riscontrato dal lancio di “Aufstehen” è da attribuirsi proprio a questo: la centralità assunta dalla questione sociale, rispetto ai temi “più tradizionali” di una parte della sinistra tedesca.
Secondo ciò che ha anticipato la Reuters questa settimana rispetto alle prospettive di crescita, il surplus della bilancia commerciale tedesca dovrebbe calare nel 2020 al 6,7% del PIL dal 7,9% del 2017.
E se le previsioni sui fondamentali dell’economia differiscono – a seconda di chi le effettua – un dato comune emerge tra le nude cifre: una frenata generale come orizzonte prossimo venturo e il moltiplicarsi delle incognite per il “cuore” dell’economia dell’Unione.
Come vedremo nel dettaglio, la situazione che si è creata in Bavaria è utile a comprendere il modo in cui una crisi di consenso a livello regionale metta in discussione un modello di governance, che però è stato una guida per il processo di integrazione europeo.
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Se un giornale prestigioso come la Faz (Frankfurter Allgemeine Zeitung) si è interrogato, in un lungo articolo ad inizio ottobre, se non ci sia stata un’umiliazione nel processo di riunificazione che si è trasformata in rabbia, vuol dire che l’establishment tedesco dev’essere seriamente preoccupato per come stanno andando le cose.
Mettiamo in fila i numeri.
Dopo ventotto anni i salari reali tra est ed ovest non sono stati parificati, essendo quelli dei lavoratori nell’ex Germania dell’est pari all’82% di quelli dell’ovest.
Particolare non trascurabile, nonostante il differenziale non irrilevante, la parte orientale della Germania non è stata il luogo di investimento privilegiato del capitale tedesco, in quanto la produzione industriale pro-capite risulta tutt’ora pari al 52%, ma nei paesi della Mitteleuropa come vedremo.
La disoccupazione – il dato andrebbe decostruito spiegando i criteri di elaborazione di questa cifra – è a pari al 7,6% all’est contro il 5,3% dell’ovest, mentre quella giovanile è il doppio attestandosi nella Germania orientale al 8,4%.
Il prodotto interno lordo orientale (compresa Berlino!) è il 73% rispetto a quello generato in occidente.
L’immissione dei finanziamenti tramite il “Patto di Solidarietà”, per il quale sono stati stanziati 156 miliardi di Euro dal 2005 al 2019, non sembra avere sortito gli effetti sperati.
“Negli ultimi dieci anni” – riporta Roberta Miraglia nell’articolo pubblicato il 4 ottobre da IlSole24Ore – a 28 anni dall’unità la Germania è ancora divisa dall’economia“, “il riavvicinamento ha rallentato e la riduzione della disparità nel PIL pro-capite è stata di 4,2 percentuali. La differenza nel reddito disponibile è più o meno invariata dal 2000.”
Questo vuol dire che “l’integrazione” si è fermata 20 anni fa, nonostante il ciclo economico della locomotiva tedesca, e se si considera l’immiserimento complessivo crescente, vuol dire che le condizioni sono peggiorate.
Questi sono dati che danno un quadro definito della situazione del blocco sociale ad Est, ma ce ne è un altro che è fondamentale: la quasi totale assenza di persone della Germania dell’est nell’establishment tedesco; che si tratti della politica, dell’economia o dei ranghi dell’esercito. I cittadini dell’Est, sia coloro che sono rimasti nei Länder orientali ma anche, non pochim che sono emigrati ad Ovest non sono solo semplicemente sotto-rappresentati nella sfera delle élites, ma ne sono di fatto esclusi.
Nel governo Merkel, insieme alla Cancelliera, solo la ministra della famiglia, Franziska Giffey, è nata nella RDT, nel 1979.
Solo l’1,6% dei top manager sono dell’Est, e solo l’1% degli ammiragli e dei generali, mentre da un sondaggio dell’Università di Lipsia, citato nell’articolo sovramenzionato, emerge che: “ a Est i due terzi delle posizioni di vertice nelle amministrazioni, in politica, giustizia ed economia risultavano occupati da cittadini nati e cresciuti ad ovest”.
Un ultimo dato sull’immigrazione rende esplicito come il personale politico che governa la Germania abbia “giocato con il fuoco”, e di fatto contribuito a creare la situazione propizia per l’ascesa dell’estrema destra esacerbando le contraddizioni nel corpo sociale.
Lo spopolamento è un dato che ha caratterizzato le regioni della Germania orientale: mentre nel 1991 i cittadini dell’Est erano il 18,3% della popolazione totale oggi sono il 15,2%.
Tra il 2015 e 2016 la Germania ha accolto 1,2 milioni di rifugiati, distribuiti tra i land in proporzione alla popolazione e alla ricchezza. Ma nell’Est, meno densamente popolato, abbondavano gli spazi, devono aver pensato a Berlino.
Nelle regioni orientali, esclusa la Capitale, è arrivato il 20,7% dei richiedenti asilo.
L’Est è stata usato come “valvola di sfogo” per quelle figure escluse dalla fascia medio-alta delle qualifiche professionali che servivano al capitale tedesco ad ovest, relegando ad Est quelle inquadrabili per mansioni “a basso valore” aggiunto che hanno caratterizzato il “non-sviluppo” industriale orientale dopo l’unificazione, spesso con contratti d’apprendistato, come ha messo in evidenza un’inchiesta condotta da Le Monde successiva alle mobilitazioni dell’estrema destra nella Germania orientale.
Se abbiamo cercato di dare un quadro della situazione attuale ad Est, l’Anschluss di Vladimiro Giacché rimane tutt’ora un punto di riferimento obbligato per capire più approfonditamente le dinamiche del processo di “annessione” della ex Repubblica Democratica Tedesca.
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Da settimane la stampa economica ha messo in evidenza lo stato tutt’altro che salutare dell’economia tedesca, sia sotto il punto di vista della produzione industriale che per ciò che concerne i livelli di indebitamento del sistema bancario.
Diversi fattori concorrono a questa “stagnazione”, per cui non si intravedono fattori in grado di invertire la tendenza e marcano a tinte piuttosto fosche le previsioni economiche per gli anni che verranno: la competizione globale dovuta alla guerra sui dazi, che tocca direttamente la Germania, l’incertezza di fronte all’esito delle trattative sulla Brexit – il direttore esecutivo della Bdi (la Confindustria tedesca), Joachim Lang, ha dichiarato che “una hard brexit sarebbe un disastro”, la fine prossima ventura del quantitave easing con l’inizio di una politica monetaria più restrittiva con un probabile impatto su i conti pubblici e dunque del costo del rifinanziamento del debito pubblico, gli incerti equilibri politici della Grande Coalizione…
In sintesi, se l’economia non cresce o non crescerà quanto previsto: le stime variavano da una previsione iniziale di un più 2,1-2,2% del PIL ( e qualche mese fa le stime erano ancora più ottimistiche) a quelle attuali pari a + 1,7%-1,8% per quest’anno e il prossimo (nel 2017 l’aumento è stato pari al 2,2%), vuol dire che il giocattolo si è rotto, ed è tutto un modello che entra in crisi.
Ciò che sta avvenendo in Baviera non fa che contribuire a questa incrinatura.
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“La Baviera vota, Berlino trema”, ha detto una delle più popolari conduttrici televisive tedesche, Sandra Maischberger, mercoledì 10 ottobre, restituendo la cifra dell’attuale situazione politica.
Partiamo da un dato: la Baviera è per importanza economica la seconda regione della Germania, con i suoi quasi 600 miliardi d’Euro di Pil, e di conseguenza una delle più importanti dell’Unione Europea (più di 22 dei 28 stati che la compongono); in pratica è il cuore della Mitteleuropa economica,
Questo Land è al centro dell’espansione ad Est dell’economia tedesca, per cui ha svolto un ruolo da pivot con una relativa autonomia in particolare rispetto all’Ungheria e alla Repubblica ceca, formando insieme all’Austria una macro-regione economica in cui i rapporti politici sono una conseguenza di quelli economici.
La filiera economica che ha il cuore produttivo in Bavaria ha le sue estensioni ad Est: l’Ungheria realizza poco meno di un terzo del suo commercio estero con la Germania, di cui metà con il Land bavarese, mentre la metà di quello ceco, di cui un quarto con la Bavaria, è realizzato con la Germania.
Circa 4.000 imprese tedesche di media taglia sono presenti in Ungheria…
Il settore automotive (AUDI, Mercedes, BMW), la produzione di macchine utensili e i prodotti elettronici sono al centro di questa dinamica, in cui nelle fabbriche delocalizzate vengono prodotti dei pezzi che vengono poi assemblati in Germania; questi settori hanno avuto come volano l’allargamento ad est del mercato comune, con un differenziale salariale tale per cui un operaio in Ungheria guadagna un quarto di un operaio in Germania, mentre un operaio nella repubblica ceca guadagna un terzo di quello tedesco.
Come ha dichiarato in una intervista a “Le Monde” Bernard Bauer, presidente della Camera di commercio bavarese a Praga: “la repubblica ceca è divenuta un sito di produzione high-tech. Molte imprese tedesche localizzate qui, essenzialmente in Boemia occidentale, hanno dei siti di ricerca e sviluppo”.
Veniamo ora alle dinamiche più propriamente politiche.
La CSU bavarese, alleata della CDU di Angela Merckel, è storicamente un modello per le formazioni conservatrici della Mitteleuropa, ed ha accresciuto la sua importanza con la fine della Guerra Fredda, in ragione dell’autonomia di relazioni che realizzava nella sua Ostpolitik, grazie alla stabile occupazione del potere nel Land, dovuta ad una maggioranza assoluta reiterata quasi per sessant’anni, riuscendo ad essere un VolksPartei che raccoglieva il consenso di un ampio blocco sociale – nelle campagne come nelle città – in grado di coniugare un conservatorismo nei valori dell’Heimat con il dinamismo economico che contraddistingue la società bavarese.
La sua parabola politica l’ha portata ad infittire i suoi rapporti con Viktor Orbàn, che a gennaio è stato l’invitato speciale del tradizionale incontro invernale dei deputati della CSU, e con il premier austriaco Sebastien Kurz, che ha annunciato la sua presenza al fianco di M. Söder nella birreria di Monaco dove il candidato della CSU concluderà la sua campagna elettorale. Mentre la frattura con Berlino è tale che per la prima volta Angela Merkel non è stata invitata al meeting finale della CSU prima dello scrutinio, come tradizionalmente avveniva per rimarcare il sostegno della CDU al suo alleato bavarese.
La campagna elettorale del partito conservatore bavarese è stata condotta quasi integralmente sui temi dell’immigrazione e della sicurezza, facendo propria la retorica dell’estrema destra in un contesto in cui il trattamento dei richiedenti asilo è andato, ed andrà, peggiorando.
Ma il dissanguamento elettorale della CSU non sembra essersi arrestato, travasando consensi verso i Verdi, che nel Land hanno una forte vocazione centrista, e verso l’AFD, che è la “versione originale” di ciò che la CSU sembra voler copiare, e con cui la CSU ha più volte ribadito non volersi alleare, anche se i toni della sua politica migratoria òa stanno portando ad un divorzio con una parte importante della sua base di consenso, come il clero protestante.
L’emergenza migrazione in Bavaria è frutto di una “narrazione tossica” che elude i dati più banali e che serve ad inasprire la condizione dei richiedenti asilo, che dal 1 agosto sono rinchiusi – insieme a chi è in attesa di espulsione perché ha visto rigettata la sua richiesta – in sette “centri” (Anker-Einrichtung) che si estenderanno in altre città della Federazione: sono strutture segregative tese a disincentivare i richiedenti a rimanere in Germania, che in molti casi è stata l’agognata meta finale in cui erano risposte le speranze di chi migrava.
Una recente inchiesta di Mediapart ha svelato la natura di “campo” di tale tipologia di struttura, intervistando alcuni “ospiti” e alcuni volontari che esternamente ad essa promuovono l’integrazione anche grazie all’insegnamento della lingua tedesca.
“Ghetti mentali” li ha definiti un richiedente.
“A livello Federale, la Baviera è insieme al Brandeburgo, il Land meno generoso per ciò che concerne l’asilo: nel 2017, il 31,8% delle 27647 richieste formulate sono state accettate, quando la media nazionale si situa al 43,3%”, riporta Donatien Huet in La questione migratoire met à mal la sempiternelle stabilité politique de la Bavière, in cui indaga in profondità sulle mutazioni della politica bavarese.
Intanto la Germania, che passa per “paese d’accoglienza”, in realtà ha iniziato rinchiudere in strutture del tutto simili a quelle create dal sistema della “non accoglienza” in Italia, che i recenti provvedimenti legislativi del governo, trasformano in perno della strategia riguardo all’immigrazione.
Come suol dirsi: è il pesce che puzza dalla testa e l’Europa “liberale” di Macron e di frau Angela non è molto dissimile di quella voluta da Salvini e soci.
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Anche in Germania il ceto politico che ha rappresentato il processo di integrazione europea, persino nel suo bastione di stabilità più consolidato come la Baviera, è in profonda crisi.
Il Land tedesco ci offre un punto di vista privilegiato per capire come le forze che stanno portando ad un “bilanciamento a destra” della politica dell’Unione Europea tutta possono essere tranquillamente cooptate all’interno di una nuova strategia di governance; sia che si tratti di sussumere in toto le tematiche proposte dal populismo di destra, sia che si tratti di stabilire alleanze con queste forze.
Resta il fatto che i segnali di una non ripresa economica data da vari fattori, in Germania come altrove, non significano automaticamente che il crescente malessere sociale possa essere capitalizzato solo dalle forze xenofobe e razziste, raccogliendo i frutti di una narrazione costruita ad hoc per depistare il blocco sociale dai responsabili della crisi.
Occorre tessere insieme, come nel famoso componimento di Heine, la maledizione dell’Unione Europea, per un riscatto degli ultimi:
“Una maledizione alla falsa patria,
in cui fioriscono solo onta ed infamia,
dove ogni fiore è precocemente spezzato,
dove marciume e muffa ristorano il verme –
Noi Tessiamo –Tessiamo ”
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