Il controllo della migrazione irregolare è solo un pretesto. L’inizio della presenza militare italiana nel Niger, al confine con la Libia è ormai, nel silenzio mediatico, solo una questione di tempo. L’operazione già concordata, decisa, sconfessata e infine approvata dalle due parti si farà. In ballo c’è ben altro che la lotta alla migrazione informale.
Solo profittando della distanza e della nullità di notizie dal Sud del mondo si può pensare di far credere che il motivo sia la costruzione di una ragnatela che impedisca la mobilità della gente. In realtà c’è da credere che siano altre le ragioni che hanno spinto i politici nostrani a intraprendere questa avventura senza ritorno. Interessi strategici legati al petrolio e gas libici, l’esistenza in questa porzione del Sahel di risorse sfruttabili e soprattutto le geopolitiche delle potenze occidentali. Francia, Stati Uniti, Germania, Olanda, Inghilterra e Cina hanno militari, droni, aeroporti e zone riservate a loro. L’Italia non vuole essere da meno e, appunto, col la scusa delle migrazioni illegali, ritaglia la sua porzione d’Africa.
Immaginiamo per un attimo che siano le autorità nigerine, con tanto di militari opportunamente addestrati, a controllare le nostre frontiere divinamente disegnate. Mettiamo si tracci una linea divisione tra chi ha il diritto di viaggiare e chi, invece, è legato per sempre al sacro patrio suolo. Proviamo a pensare che, d’improvviso, l’Unione Africana decida il profilo degli stranieri occidentali degni di ottenere un titolo di soggiorno nel Continente.
Figuriamoci appena lo scenario di cosa accadrebbe se ci venissero dettate le politiche da applicare da esperti africani in visita regolare nelle principali capitali europee. Riconosciamo che sarebbe difficile anche solo concepire questa possibilità e, nel caso, le reazioni popolari di rigetto non tarderebbero a manifestarsi. Eppure questo e molto peggio è quanto sta accadendo in questa porzione di mondo chiamato Sahel, riva che si affaccia sull’altra che si allontana ogni giorno di più.
Siamo vicini e lontani insieme. Tutto ci separa eppure tutto ci unisce. Deserto e mare nascondono gli stessi cimiteri.
Basta osservare la continuità delle politiche di controllo europeo sulla mobilità degli africani dell’Africa del Nord e subsahariana. Uno dei diritti fondamentali riconosciuto dalla dichiarazione universale del 1948 è quello della mobilità. La possibilità di lasciare il proprio Paese e di ritornarvi appare come una conseguenza elementare della dignità umana. Ciò implica la costruzione di una storia diversa da quella ereditata dal luogo o dalle circostanze mutevoli della vita.
L’Europa questo lo sa e solo una straordinaria amnesia può cancellare e poi travisare quanto accaduto nell’epoca della grandi migrazioni continentali. Milioni di europei, poveri per la maggior parte, hanno cercato e trovato un futuro differente altrove che nel loro Paese di origine. Invece l’Europa, l’Occidente e chi ha potere economico, ha creato un pensiero, un linguaggio, una narrazione unica della storia che implica l’esclusione di coloro che sono stimati indesiderabili. Si sono create leggi, inventato frontiere di sana pianta, formato addetti al controllo e alla repressione del diritto umano ala mobilità.
Si è formato un grande business che accompagna le politiche migratorie. Ciò che accade da diversi anni nel Sahel e dintorni non è altro che una recolonizzazione dello spazio, delle politiche e delle risorse in esso contenuto. Il controllo delle migrazioni è dunque un’arma di distrazione di massa. In realtà ciò che si vuole controllare e ‘disciplinare’ sono i corpi di coloro che potrebbero tentare di sovvertire la realtà così come ereditata dal sistema di apartheid globale. Chi vuole lottare per non scomparire nell’invisibilità è criminalizzato come pericoloso per il disordine mondiale che il sistema perpetua e rafforza.
Nella storia umana, infatti, non c’è nulla di più rivoluzionario della sabbia che fa inceppare i meccanismi che vorrebbero riprodurla così come si presenta. I migranti nascondono una manciata di sabbia in tasca.
Niamey, ottobre 2018
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