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L’omicidio di Kashoggi nel paese-prigione per i giornalisti. Un coincidenza da comprendere

È nella più grande prigione del mondo per i giornalisti, la Turchia, che l’agente e giornalista conservatore Jamal Khashoggi è stato brutalmente assassinato da alcuni barbuti sauditi. Per il mondo di lingua francese, Jamal Khashoggi era un perfetto sconosciuto fino alla data fatidica del 2 ottobre 2018, quando è scomparso nel labirinto del consolato saudita a Istanbul.

Quasi tre settimane dopo il suo assassinio, i giornalisti hanno ancora difficoltà a pronunciare il nome dalle origini particolari.
Khashoggi deriva dalla parola turca “kashik”, il cucchiaio. In tutto il mondo arabo, il cucchiaio si chiama “mal’aqa” tranne che nella provincia turca di lingua araba di Hatay, situata sul confine siriano, e in Iraq, dove l’impero turco-ottomano ha governato per quasi quattro secoli. In queste due aree periferiche del mondo arabo-turco, la parola “cucchiaio” si dice “khashouqa”. Il suffisso “gi” del cognome del giornalista suppliziato proviene dal turco “ci”, “çi” e, a seconda della vocale precedente, può essere scritto “cu”, “çu”, “cü” o “çü” (da pronunciare rispettivamente dji, chi, djou, chu, dju, tchu) che designa una professione o un’occupazione ed è equivalente al suffisso “ier” in francese come “glacier” [gelataio], “fermier” [contadino], “poissonnier” [pescivendolo], cordonnier” [calzolaio], ecc. Khashoggi significa “fabbricante di cucchiai” ed in turco si scrive “Kaşıkçı”.
Il patronimico dello sfortunato giornalista indica quindi le sue origini turche o ottomane. I suoi antenati si sono stabiliti nella penisola arabica quando questa era sotto il giogo della Sublime Porta. Khashoggi (Kaşıkçı) è una famiglia ben nota di Kayseri, in Turchia. Alcuni attribuiscono ad essa un’origine circassa, una minoranza del Caucaso che, nel diciannovesimo secolo, fuggì in massa in Anatolia, Siria e Giordania per sfuggire alle persecuzioni dell’Impero russo. Altre fonti turche sostengono che i suoi antenati si stabilirono a Medina, in Arabia Saudita, tre secoli fa, sulla scia di un pellegrinaggio a La Mecca.
La sua tragica morte nel cuore della città che fu la capitale dell’Impero ottomano conferisce una dimensione romantica alla sua carriera di agente del regno caduto in disgrazia. Se lo si descrive come un giornalista “critico”, è opportuno ricordare che Khashoggi è stato per lungo tempo un instancabile servitore del regime.
Proveniente da una famiglia potente e ricca, Jamal è il nipote di Mohammed Khaled Khashoggi, medico personale di Abdelaziz Ben Abderrahmane Ben Saud, alias Ibn Saud, fondatore del Regno dell’Arabia Saudita. Egli è anche il nipote di Adnan Khashoggi, un potente trafficante d’armi dalla vita stravagante, considerato nei primi anni ’80 l’uomo più ricco del mondo. Suo zio Adnan è morto l’anno scorso a Londra. Jamal è anche il nipote di Samira Khashoggi, la madre di Dodi El-Fayed, l’amante della principessa Diana, morto nell’incidente a Parigi nel 1997.
Jamal Khashoggi non ha nulla a che fare con la società civile, i media alternativi e il movimento progressista. È un appartenente al circolo che conta che ha sempre servito il potere a volte come collaboratore degli organi di propaganda della monarchia come Saudi Gazette, Okaz o Al-Watan, a volte come consigliere di Turki Ben Faisal, ex capo dello spionaggio saudita, e del principe miliardario Walid Ben Talal. Nel 1988, si fa fotografare con un lanciarazzi tra alcuni volontari jihadisti arabi sul fronte afghano. Più recentemente, aveva dato il suo sostegno politico e morale agli islamisti in guerra contro la Siria.
Le sue recenti critiche al principe Mohammed Ben Salman riguardo alla guerra in Yemen o ai suoi metodi autoritari non devono essere intesi come un atto di resistenza civile, ma piuttosto come espressione di rivalità politica tra due clan di una stessa dittatura. Jamal Khashoggi è un membro dichiarato dei Fratelli Musulmani, una setta sostenuta dal regime saudita durante la Guerra Fredda contro i movimenti arabi laici e socialisti, poi classificata come organizzazione terrorista dallo stesso regime saudita quando essa ha tessuto la sua rete nelle istituzioni del regno. Khashoggi non è nemmeno un “liberale”, come i giornalisti dei grandi media ripetono fino alla nausea.
Ha rotto con il re, non con la monarchia. Non si è unito al popolo, ha promesso fedeltà ad altri re, in primo luogo a Erdogan, il leader turco della rete dei Fratelli Musulmani. Khashoggi era vicino anche a Bin Laden. Ha sostenuto gruppi islamisti in Siria e condivide, come Daesh o Al-Nusra, la stessa avversione per le minoranze confessionali, specialmente contro gli alauiti e gli sciiti. Ha giustificato l’esecuzione per decapitazione del leader sciita saudita Nimr Baqr Al-Nimr, condannato nel gennaio 2016 per i suoi discorsi anti-monarchici. “L’esecuzione di Sheikh Al-Nimr, scriveva Khashoggi, è un chiaro messaggio indirizzato a chiunque voglia rovesciare il governo. Nimr ha apertamente invitato al rovesciamento del sistema ed a promettere fedeltà a Wilayat Al-Faqih (il leader supremo iraniano)” (Middle East Eye, 2 gennaio 2016). Terribile ironia della sorte, Khashoggi ha avuto gli stessi carnefici ed ha subito la stessa pena di Al-Nimr, o peggio.
All’indomani della scomparsa di Khashoggi, un comitato di sostegno composto da ONG vicine ai Fratelli musulmani arabi e turchi sotto la guida di Turan Kışlakçı, presidente dell’Associazione arabo-turca dei media (TAM), si è mobilitato davanti al consolato saudita per chiedere la sua liberazione.

Da una soffiata dei servizi segreti turchi, questo comitato sapeva già dal quinto giorno della mobilitazione cosa era avvenuto al giornalista saudita, probabilmente perché il luogo del crimine era sotto sorveglianza, un’informazione imbarazzante per il regime di Ankara che è tenuto a rispettare la Convenzione di Vienna del 1961 sulle relazioni diplomatiche.
Dopo aver varcato la porta del consolato saudita a Istanbul, Khashoggi sarebbe stato torturato, sezionato vivo, smembrato da 14 militari d’alto rango dell’esercito saudita sotto la supervisione di Salah Al-Tubaygi, un medico legale. I quindici torturatori di Khashoggi sarebbero stati inviati dal principe Mohammed Ben Salmane in persona. Nelle colonne del New York Times, agenti turchi che hanno preferito mantenere l’anonimato hanno paragonato la tortura di Khashoggi ad una sanguinosa scena di Pulp Fiction, il famoso film di Tarantino (New York Times, 9 ottobre 2018).
Il 17 ottobre, la polizia turca ha annunciato che Khashoggi era stato decapitato, un metodo che non può non ricordare le esecuzioni perpetrate da Daesh. Due giorni dopo, Middle East Eye ha scritto che il torturatore Al-Tubaygi ha sezionato Khashoggi ascoltando musica per attutire, secondo alcune fonti, le urla della sua vittima. Il mondo occidentale non credeva ai suoi occhi o alle sue orecchie di fronte ad un’orgia così orrenda di crudeltà orchestrata, per giunta, in un tempio della diplomazia internazionale. Alla fine, i nostri governi hanno espresso solo una relativa preoccupazione di fronte al destino riservato all’agente e giornalista saudita.

Perché Bin Salman ha scelto la Turchia per eliminare Jamal Khashoggi,
In questa seconda parte dell’articolo di Bahar Kimyongür, l’oppositore turco spiega perché il figlio del Re Salman ha scelto di far assassinare l’avversario saudita Jamal Khashoggi in Turchia, “la più grande prigione del mondo per i giornalisti”. L’autore ricorda il caso dell’ex giornalista turca Ayten Öztürk, detenuta e torturata per circa sei mesi in un luogo segreto dagli scagnozzi del dittatore Recep Tayyip Erdogan..
Tre settimane dopo il selvaggio assassinio di Jamal Khashoggi nel consolato saudita, alcuni governi stanno appena iniziando a rendersi conto della portata del crimine e del terrore che sta suscitando tra tutti i dissidenti nel mondo. Il giornalista saudita ed ex spia sarebbe potuto essere ucciso ovunque. Ma il principe Bin Salman ha scelto di liquidarlo nel paese di Erdogan, noto come prigione ma anche come cimitero per i giornalisti. In tal modo, ha fornito a Erdogan una cortina fumogena inaspettata. Ecco la spiegazione.
La Turchia è un paese in cui i giornalisti possono facilmente perdere la vita, la salute o la libertà. Nonostante la sua abissale mancanza di cultura, il principe saudita, che siede al 169° posto nella classifica mondiale della libertà di stampa, doveva certamente conoscere questa realtà quando ha deciso di inviare il suo comando di quindici bruti nel paese di Erdogan, il cui record in materia di repressione contro i giornalisti lo colloca in 157a posizione nella lista di Reporter senza Frontiere (RSF).
Nella “più grande prigione per giornalisti del mondo”, quasi 140 giornalisti sono attualmente dietro le sbarre e decine di giornalisti sono stati uccisi, licenziati, minacciati o costretti all’esilio. Solo negli ultimi tre anni, nel paese di Erdogan quattro giornalisti siriani sono stati assassinati da gruppi jihadisti.

Alcuni giornalisti turchi sostengono che il principe Bin Salman abbia deliberatamente scelto Istanbul per eliminare Jamal Khashoggi a causa del suo status di “capitale mondiale” della rete dei Fratelli Musulmani. Tale operazione permette al principe di terrorizzare tutti gli esuli appartenenti alla “fratellanza”, ma anche di sfidare lo stesso Erdogan, loro principale sostenitore. Quest’ultimo ha rapidamente focalizzato l’attenzione del pubblico su questo crimine e di presentarsi come difensore del giornalista saudita nello stesso momento in cui la Corte d’appello di Istanbul confermava le pene detentive per “terrorismo” nei confronti di 25 giornalisti sospettati di simpatie per la rete Gülen.
Parallelamente a queste condanne, centinaia di giornalisti o attivisti per i diritti umani stanno affrontando violenze da parte dello stato turco. È il caso dell’ex giornalista Ayten Öztürk, che lo scorso agosto è riapparsa inaspettatamente nella prigione di Sincan dopo essere stata detenuta e torturata per circa sei mesi in un luogo segreto..
Il supplizio dei giornalisti al piano di sotto
Ayten Öztürk è un’ex giornalista arabo-turca di Antiochia che ho conosciuto nel 1996, epoca in cui lavorava presso la redazione di Libération (Kurtuluş), un settimanale marxista del quale, in quel periodo, diversi distributori erano stati uccisi o imprigionati.
A differenza di Khashoggi, Ayten Öztürk non è milionaria. Non è stata il consigliere di alcun principe. Le uniche celebrità della sua famiglia sono il fratello Ahmet, torturato ed infine giustiziato dalla polizia turca nell’ottobre del 1994, e sua sorella Hamidé, morta in prigione a seguito di uno sciopero della fame condotto per protestare contro le torture nelle prigioni di isolamento di “tipo F”.
Nell’ottobre del 2000, Ayten Öztürk è stata a sua volta arrestata ed inviata alla prigione di Ümraniye per la sua presunta appartenenza al Partito-Fronte Rivoluzionario di Liberazione del Popolo (DHKP-C), un’organizzazione marxista-leninista clandestina.
Il 19 dicembre 2000, il dormitorio che condivideva con altri prigionieri politici di sinistra è stato preso d’assalto da centinaia di soldati armati di mitragliatrici, di gas lacrimogeni e di bombe incendiarie. Ventotto dei suoi compagni di sventura moriranno in diversi centri penitenziari del paese.
Uscita dal carcere, Ayten si autoesilia in Siria, il paese dei suoi antenati, lei che è originaria di Antiochia, la capitale amministrativa dell’ex Sangiaccato di Alessandretta, al confine turco-siriano (1).


Nel 2015, il Ministero turco degli Interni del regime di Erdogan pubblica una lista di “terroristi ricercati” nel paese e all’estero. Sul capo di Ayten Öztürk pende ora una taglia di 600.000 lire turche, quasi 95.000 euro. Il 9 maggio è stata arrestata all’aeroporto internazionale di Beirut mentre tentava di recarsi in Grecia.
Cinque giorni dopo il suo arresto in Libano, viene segretamente consegnata alla polizia turca dagli scagnozzi del ministro filo-saudita Nouhad Machnouq, membro del Courant du Futur di Saad Hariri.
Chiaramente, quando si tratta di liquidare un’oppositrice laica, socialista e di discendenza alauita, gli Stati sunniti dimenticano le loro discordie.

Cosa dire della prigione segreta di Erdogan?
Al suo arrivo in Turchia, viene portata in un luogo segreto, spogliata e poi percossa e torturata giorno e notte, in particolare con elettroshock e colpi alla pianta dei piedi (falaqa). Secondo la sua stessa testimonianza, lo scopo dei suoi torturatori non era quello di ucciderla, ma di farla parlare e farla crollare. Ma Ayten nei suoi 167 giorni di prigionia rimane in silenzio. Non avrebbe detto nulla, nemmeno il suo nome quando i suoi torturatori le ordinavano di dichiarare la sua identità. Ayten è certa di essere stata detenuta nel seminterrato di un edificio statale. Nonostante l’assenza di qualsiasi indizio temporale (aveva gli occhi permanentemente bendati), ricorda dei rumori di passi provenienti dai piani superiori e la loro periodica interruzione corrispondente ai fine settimana. Ricorda anche che i rumori di tacchi si sono interrotti per un periodo più lungo, equivalente probabilmente alla festa del Ramadhan. Il 28 agosto scorso, Ayten è stata abbandonata dai suoi torturatori in una discarica vicino ad Ankara e recuperata dalla polizia politica. Due giorni dopo, viene inviata alla prigione di Sincan. Il suo stato è così deplorevole che la direzione della prigione inizialmente si rifiuta di accoglierla per non assumersi la responsabilità della sua morte data per imminente. Alla fine, viene accettata nella prigione di Sincan e perfino trattata bene. I suoi compagni di cella conteranno 868 cicatrici sul suo corpo.
Quasi sei mesi di sparizione, 868 segni di torture, ustioni, abrasioni e non un solo articolo su Ayten sulla stampa europea.
Il mondo libero piange, giustamente, la morte di Jamal Khashoggi, ma ignora del tutto la sorte dell’ex giornalista arabo-turca. Ci piacerebbe tanto credere che nel mondo del giornalismo gli antagonismi di classe non esistano e che sarà fatta luce sia sulla morte atroce di Jamal Khashoggi che sul lungo calvario di Ayten Öztürk. Questa legittima esigenza non farà di noi né degli islamisti né dei marxisti. Non ci restituirà Jamal Khashoggi né libererà Ayten Öztürk, ma potrebbe salvare la vita delle dozzine di Gulenisti “scomparsi” (membri della rete Hizmet chiamata sprezzantemente FETÖ dal regime di Erdogan) o degli Öcalanisti (dal nome del leader del Partito di lavoratori del Kurdistan, PKK) che subiscono, in questo stesso momento, gli elettroshock nella stessa prigione segreta in cui Ayten è stata torturata.
Mentre il mondo ha gli occhi puntati sul consolato saudita a Istanbul trasformato per qualche ora in macelleria dal principe Mohammed Bin Salman, ricordiamoci che anche il regime di Erdogan ha almeno una macelleria segreta nei seminterrati di un edificio statale dalle parti di Ankara.

(1) Del resto, il vero nome della sua famiglia è Beyt Zahra; Öztürk è stato imposto dal regime kemalista in virtù della legge sui cognomi del 1934 ed in seguito all’annessione del Sangiaccato di Alessandretta da parte della Turchia, nel 1938.

*Bahar Kimyongür è un giornalista e militante politico della sinistra rivoluzionaria turca, perseguitato in Turchia ma anche in Europa. Ha subito arresti in Belgio e in Italia con il rischio di essere estradato. Solo la mobilitazione democratica e popolare lo ha impedito.

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1 Commento


  • Gian Paolo PARENTI

    Un articolo di grande qualità che chiarisce diversi aspetti dell’intricata vicenda Kashoggi. Trovo inoltre molto appropriato approfittare della popolarità della vicenda per raccontare quella terribile della coraggiosa giornalista Ayten ozturk.
    Si sente la forza delle idee del giornalista Bahar Kimyongür. Grazie

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