Per comprendere la crisi algerina è necessario inquadrare come il Sistema-Paese sia inserito nell’attuale configurazione economica mondiale, il suo ruolo militare dal punto di vista geopolitico e la sua peculiare storia, oltre alle trasformazioni politiche-sociali intervenute in questi ultimi anni.
In questo primo contributo, offriamo alcuni spunti di riflessione economica.
Il ruolo che ha giocato a livello economico il colonialismo prima, e il neo-colonialismo poi, è tutt’altro che secondario; così come è determinante il ruolo dell’Unione Europea per comprendere l’attuale situazione economica algerina all’interno di uno scontro sempre più accesso tra competitor globali lungo le linee di faglia di un terremoto planetario.
I singoli stati del Maghreb – come i paesi del “Medio-Oriente” – hanno stipulato singoli contratti di libero scambio con l’Unione e non hanno sviluppato un vero progetto di cooperazione regionale che integrasse il Nord Africa come macro-area economica meno dipendente dal polo imperialista europeo e meno frammentata di quanto sia attualmente.
L’Unione Europea è rimasta “il centro” e i paesi dell’Africa settentrionale o del MO “la periferia”, come si trattasse della ruota di una bicicletta: “voi avete al centro l’Unione Europea che ha dei rapporti estremamente vantaggiosi con ciascuno dei raggi, ma i raggi tra di loro non hanno alcun rapporto, o molto pochi”, spiega l’economista franco-algerino El Mouhoub Mouhoud, in una recente intervista su “Mediapart” realizzata da Rachida El Azzouzi.
Allo stesso tempo le varie imprese dell’Unione esportano verso questi paesi, ma non si insediano per produrre beni e servizi che servano il mercato regionale; non operano quindi un trasferimento di conoscenze e di tecnologie in direzione del mercato locale, aumentando così il deficit del livello tecnologico e know-how acquisito rispetto al “centro”.
“Si insediano prevalentemente per beneficiare sia della manodopera a basso costo e i prodotti ritornano in Europa, sia per il Petrolio, il Gas, ecc.” continua l’economista.
Si tratta quindi di uno scambio diseguale che inchioda uno di questi paesi della periferia al suo ruolo di subalternità, costretto ad investire sulla rendita e difficilmente stimolato alla diversificazione economica in direzione di una sua maggiore autonomia, anche per l’oggettiva “dipendenza” dell’UE dalle risorse energetiche del Paese.
Circa un quarto del fabbisogno del gas naturale dell’UE proviene oggi da Algeri, stando alle stime dell’Atlante Geopolitico della Treccani del 2017!
Bisogna ricordare che la possibilità d’investimento in Algeria è limitata dal protezionismo economico: “Finora, nuove partnership tra le aziende dei due Paesi, sono state ostacolate dalla regola del 51/49%, che riserva alle imprese algerine almeno il 51% del capitale delle attività avviate con altre imprese straniere”, riporta il sito: “Sicurezza Internazionale” della LUISS nell’articolo “Algeria: Italia primo partner commerciale”.
L’economia algerina è basata sulla rendita del petrolio e degli idrocarburi, che costituisce la quasi totalità delle sue esportazioni e la quota più rilevante dei suoi introiti statali; allo stesso tempo dipende dalle importazioni rese possibili dal disavanzo positivo della sua rendita sulle fonti d’energia di cui dispone.
Petrolio e gas costituiscono il 95% dei proventi derivanti dalle sue esportazioni e il 60% del bilancio statale.
La redistribuzioni degli introiti degli idrocarburi ha reso possibile un patto sociale, successivo al decennio della guerra civile degli anni Novanta, passando pressoché indenne nella stagione delle cosiddette “Primavere Arabe”, finché il prezzo del petrolio non ha iniziato a calare, passando dai 114 dollari del 2014 a poco più di 40 del gennaio 2015, per risalire successivamente tra i 40/60.
Come recita il Rapporto Paese Algeria 2018: “il governo ha cercato di limitare l’impatto economico del deterioramento dei prezzi petroliferi nel periodo 2015/2016 utilizzando i risparmi di bilancio accumulati nel fondo di stabilizzazione del petrolio del paese durante il boom di tali prezzi per sostenere la spesa pubblica”. Una misura anti-ciclica per non ingenerare depressione economica in un regime di deprezzamento della valuta (il Dinaro ha perso il 40% del suo valore rispetto al dollaro dal 2014), senza però ricorrere all’indebitamento internazionale.
Le spese statali hanno continuato a permettere alcune peculiarità del patto sociale algerino: sussidi energetici (la benzina costa 25 cents al litro!), l’università è gratuita e l’accesso alla sanità è pubblico, perfino libri e alloggi gratis per chi risiede ad oltre 50 km di distanza…
Naturalmente il livello delle riserve monetarie disponibili è precipitato, in questo contesto, limitando il margine strategico di manovra del governo di Algeri.
“[Le riserve] Sono passate da 193 miliardi di Dollari nel 2013 (circa 170 miliardi di Euro) a 85 miliardi di Dollari alla fine del 2018 (circa 75 miliardi di Euro), cioè una caduta di più della metà”, puntualizza Frédéric Bodin su “Le Monde” del 1 marzo.
Se si aggiunge l’invecchiamento degli impianti e l’aumento della domanda interna, il quadro è quello di un calo della produzione in un anno da 2 milioni dei barili a 1,5 in dieci anni (dal 2007 al 2017), mentre nello stesso periodo la domanda interna progrediva da 286.000 a 420.000 barili per giorno, afferma Olivier Appert consigliere dell’IFRI.
La relazione con l’UE è centrale anche per un altro aspetto: la restrizione della possibilità di “immigrazione” legale nel Continente, con un tasso di disoccupazione giovanile del 25% in un paese di 40 milioni di abitanti, di cui più della metà sono giovani. Le politiche migratorie della UE limitano quindi questo sbocco per una popolazione giovanile altamente istruita: l’aumento in Francia delle tasse d’iscrizione – più di 10 volte le quote precedenti – per gli studenti universitari provenienti da fuori della UE, per ciò che concerne i corsi ordinari ed i master, non farà che peggiorare la situazione.
Allo stesso tempo si è bloccata l’immigrazione interna al paese, dalle aree più povere verso le aree più ricche, a causa dei prezzi inaccessibili di alcuni luoghi, come la capitale, che non permettono facilmente l’insediamento a chi proviene dai territori più arretrati.
Chiaramente la fascia della popolazione giovanile è quella che risente maggiormente per le frustrazioni di un futuro che a stento riesce ad immaginare, anche se la polarizzazione sociale è molto meno spinta che negli altri contesti Nord-Africani.
Basandosi sull’indice Gini – che segnala le ineguaglianze del reddito pro-capite – durante l’anno delle cosiddette “Primavere Arabe”, secondo il Credit Suisse Research Institute / Global Wealth Datalook del 2012, l’Algeria vantava un valore pari a 65,6, laddove l’Egitto (con una popolazione più che doppia) mostrava un più disarmonico 80,4.
La Cina è ora uno dei maggior partner economici dell’Algeria, impegnato nella costruzione di importanti progetti infrastrutturali per lo sviluppo del paese – oltre al settore energetico – ed ha la maggiore comunità straniera presente sul suolo algerino (sono 42.000 i cinesi residenti in Algeria, più del doppio dei francesi).
Aziende cinesi hanno sbaragliato la concorrenza turca e del Paesi del Golfo costruendo strade, ferroviere, ponti, l’edilizia residenziale, stadi, ecc., ponendo le basi infrastrutturali per la diversificazione dell’economia – come per l’industria dei fosfati che è frutto di un accordo con la Cina, e quella alimentare che vuole aprirsi agli investimenti stranieri.
L’Algeria è al centro della “Nuova Via della Seta” cinese, un progetto strategico di primaria importanza per la Repubblica Popolare, che rischia di cambiare la configurazione economica di tutta l’Africa.
Ecco come lo descrive Roberto Bongiorni, autore di un interessante inchiesta per il SOLE 24-ORE dal significativo titolo: “è l’Algeria il nuovo modello per la crescita cinese in Africa”
“Pare quasi che la Francia assista impotente all’offensiva commerciale cinese nel suo giardino africano. Ma un audace, quanto avveniristico progetto potrebbe rivoluzionare il commercio di tutto il Mediterraneo: una nuova via della seta africana che collegherà la Cina all’Africa subsahariana (arrivando ai giacimenti di greggio e gas della Nigeria) attraverso l’Algeria. Pechino ed Algeri hanno firmato la costruzione di un porto gigantesco (progetto da 3,3 miliardi di Dollari) a El Hamdania, 70 Km a ovest di Algeri.”
Un porto che potrebbe fare concorrenza a Marsiglia e quindi inviso ai francesi. Un hub con una strada già costruita che porta al confine meridionale algerino e che da li potrebbe coinvolgere Mali, Niger e Nigeria in una rete di comunicazione stradale e ferroviaria che cambierebbe non poco il profilo economico della regione.
L’output politico delle attuali mobilitazioni in Algeria potrà quindi determinare non solo un cambiamento politico interno, ma un riassetto più complessivo di una rete di relazione di cui il Paese Mediterraneo è al centro.
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