A un mese di distanza dagli Stati Uniti, ieri anche la Russia ha ufficializzato la sospensione della partecipazione all’accordo INF (per i russi DRSMD, Dogovor o likvidatsii raket srednej i men’šej dalnosti: Accordo per l’eliminazione dei missili a medio e corto raggio), sottoscritto l’8 dicembre 1987 da Ronald Reagan e Mikhail Gorbačëv ed entrato in vigore il 1 giugno 1988. Il relativo ukaz è stato firmato ieri pomeriggio da Vladimir Putin, anche se già lo scorso 2 febbraio, allorché Washington aveva sospeso la propria partecipazione al trattato, Mosca annunciava di voler rispondere “in maniera speculare”.
Dal Cremlino fanno sapere che il passo è dettato dalla “necessità di adottare misure urgenti in relazione alla violazione da parte degli Stati Uniti d’America dei loro impegni ai sensi dell’Accordo tra l’Unione delle repubbliche socialiste sovietiche e gli Stati Uniti d’America sull’eliminazione dei loro missili a medio e corto raggio“.
Il passo russo di ieri era dunque atteso; ma non è l’unico. Tra le altre mosse di risposta, si prevede un generale sviluppo di diversi sistemi d’arma. Sono stati resi noti i principali parametri del nuovo cacciabombardiere-lanciamissili “PAK-DA”, cui sta lavorando da dieci anni il complesso Tupolev. Caratteristiche salienti: basso profilo, velocità subsonica, speciale rivestimento radioassorbente, lungo raggio d’azione, disposizione a “ala volante”, per risparmiare carburante, incrementando velocità e distanza di volo. Oltre alle bombe convenzionali, l’arma principale sarà costituita da missili da crociera con raggio d’azione da 2 a 4 mila chilometri, allestiti con armamento convenzionale e nucleare; in prospettiva, potrà esser armato di missili ipersonici. L’entrata in servizio è prevista per il 2029; intanto, l’aviazione strategica russa conta su Tu-95, Tu-160 e Tu-22M3.
Ma l’arma su cui maggiormente si appuntano gli sguardi degli osservatori, sono i missili. Mosca procederà all’allestimento, entro il 2020, di una variante “terrestre” del complesso missilistico con base navale “Kalibr-M”, dotato di missili da crociera a lungo raggio e darà il via a lavori sperimentali per un sistema di missili balistici ipersonici a corto e medio raggio con base a terra. Il raggio d’azione del missile alato subsonico “Kalibr-M” sarà di 4.500 km e di 2.600 km per il “Kalibr” basato su nave. Sulla base dell’arma del momento, il 3M22 “Tsirkon”, verrà realizzato un nuovo missile ipersonico a medio raggio con base a terra, che partirà dagli stessi lanciatori del “Kalibr”.
Ora, il generale Terrence O’Shaughnessy, comandante del NORAD (North American Aerospace Defense Command), aveva calcolato in 15 minuti il tempo impiegato dal missile ipersonico “Avangard” per raggiungere un obiettivo all’interno del territorio USA. O’Shaughnessy ha elencato anche altri tipi di armamento russi maggiormente pericolosi per gli Stati Uniti: i bombardieri Tu-160 e Tu-95, i sommergibili della classe “Severodvinsk” e, appunto, il complesso “Kalibr”. A detta del tedesco Stern, pare però che un “Tsirkon” lanciato da sommergibile sia in grado di raggiungere il Pentagono in 5 minuti e non in 15. La sua velocità sarebbe infatti non di 6.000 km/h, bensì di 11.000 – irraggiungibile dagli odierni sistemi antiaerei e antimissile – e il raggio d’azione non di 500 ma 1.000 km.
Dunque, una quarantina di “Tsirkon” lanciati da navi che incrocino a una distanza di 500 km dalle coste orientale e occidentale USA, potrebbero colpire, a est: centri nevralgici quali il Pentagono, Camp David, Fort Ritchie, nel Maryland, punto di direzione presidenziale e centro di comando del Comitato degli Stati maggiori; a ovest: McClellan, in California, sede di gestione delle forze d’attacco strategiche e Jim Creek, nello stato di Washington, punto di controllo delle forze nucleari.
Ma non finisce qui. Di fronte allo schieramento di basi USA attorno alla Russia, Ruslan Khubiev elenca quali paesi potrebbero decidere di porsi sotto “l’ombrello protettivo” di Mosca, portando le armi russe a stretto ridosso dei confini statunitensi. Dopo il ritiro americano dal trattato INF, Putin ha detto che, in risposta a un eventuale attacco yankee portato contro la Russia a partire dal territorio europeo in cui Washington abbia dislocato proprie armi strategiche, Mosca mirerebbe direttamente al suolo statunitense e, per questo, la Russia deve attrezzarsi per dispiegare proprie forze fuori dei confini nazionali.
Finora, la cosa ha interessato aree ex-sovietiche lungo le frontiere russe: Kazakhstan, Kirghizija, Tadžikistan, Bielorussia, Armenia, oltre Ossetija meridionale, Abkazija e Transnistria. La Siria è una storia a parte. Ma ci potrebbero essere ancora Venezuela (già Hugo Chávez aveva proposto a Mosca l’apertura di una base aerea); Nicaragua; Cuba; Egitto; Libia, su invito diretto di Khalifa Haftar; Sudan (Omar al-Bashir pensa a una base russa sul mar Rosso); Repubblica Centrafricana; Myanmar (nella ex base sovietica); Viet Nam (anche qui, nella vecchia base sovietica di Cam Ranh); Messico; Bolivia; Ecuador; Haiti; Isole Seychelles.
Ma, mentre queste sono, per ora, illazioni giornalistiche russe, dall’altra parte del fronte, non paghi dei sistemi Aegis in Romania e presto anche in Polonia, delle basi multinazionali (cui partecipa anche l’Italia) nei Paesi baltici, delle continue manovre militari dal mar Nero al Baltico, ecco che si parla della possibilità di piazzare in Europa missili nucleari yankee, come chiedono a gran voce alcuni esponenti politici e dei media estoni e lituani. E a quali aree si penserà per prime per tali missili? “La vecchia Europa rifiuterà tale onore” osserva Dmitrij Minin su rusvesna.su, “e anche Varsavia, che pure è disposta a ospitare a proprie spese una base americana, esclude testate nucleari”.
Difficile qualificare tanto ottimismo sulle scelte della “vecchia Europa”. Di tutt’altro parere sembra ad esempio l’ambasciatore russo in USA, Anatolij Antonov, che parla di un’Europa coperta di missili; e non dicono nulla, tanto per citare un solo caso (lasciamo per un momento da parte l’Italia), le 20 bombe nucleari alla base USA di Büchel, in Germania, di cui ha scritto The Washington Post?
Comunque, a parere di Minin, non restano che i Paesi baltici: ma le “coordinate sulla dislocazione dei missili americani verranno immediatamente incluse nelle missioni di volo dei loro analoghi russi e il Baltico si trasformerà in zona di rischio non più fittizio ma vero e proprio”.
Indicativo, in questo senso, il protocollo d’intesa sottoscritto il 14 febbraio a Bruxelles da Danimarca, Estonia e Lettonia, per la costituzione di uno Stato maggiore della divisione settentrionale della NATO e che, dal 8 marzo, dovrebbe divenire parte integrante della struttura militare dell’Alleanza atlantica, con la denominazione di “Stato maggiore internazionale della Divisione settentrionale” (Headquarters Multinational Division North), con una sede ad Ādaži (una ventina di km a nordest di Riga) e un’altra a Karup, nella Danimarca centro-settentrionale. Si specifica che oltre i tre paesi fondatori, parteciperanno alle attività del nuovo centro anche altri paesi NATO: e chi ne avrebbe dubitato?
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