Mustapha Jouili, economista tunisino, non ha dubbi sul denunciare il carattere neocoloniale del trattato di libero-scambio che la Tunisia sta discutendo con l’Unione Europea e che dovrebbe essere firmato entro quest’anno.
Militante del partito Watad, che è parte del Fronte Popolare e membro dell’associazione di ricerca economica e sociale Mohamed Ali Hami (ARES), Mustapha è categorico: “l’ALECA è la riproduzione del patto coloniale del 1881”, afferma in una intervista a Marco Jonville, pubblicata sul blog di Mediapart”1.
Insieme al colonialismo economico della UE attraverso il Franco CFA, all’“esternalizzazione” della gestione dei flussi immigratori oltre i confini continentali e la presenza militare vera e propria, questo trattato è uno degli esempi di come – all’interno di un conflitto inter-imperialistico sempre più alto – l’Unione sta esercitando una politica neo-coloniale nei confronti dei territori e delle popolazioni precedentemente assoggettate al colonialismo del Vecchio Continente.
La mobilitazione contro l’ALECA in Tunisia ha attivato un ampio fronte politico-sindacale – che ha avuto un importante momento di piazza questo Primo Maggio – che ne denuncia il carattere non solo neoliberista, ma anche apertamente neo-coloniale.
Quest’arco di forze ha fatto la disamina, denunciando anche gli effetti di ciò è stato il l’Accordo di Partenariato tra UE e Tunisia del 1995. Questo precedente trattato ha distrutto più della metà del settore industriale – facendo scomparire l’industria tessile tunisina – ha eliminando circa 500.000 posti di lavoro, aggravato il deficit della bilancia commerciale del paese, deprezzando la valuta locale rispetto all’euro, scesa a più della metà del suo valore pre-accordo.
In sintesi ha proiettato il paese in una spirale di impoverimento crescente sul solco delle politiche imposte dal FMI già dalla seconda metà degli anni Ottanta.
Mentre l’accordo del 1995 riguardava solo il settore industriale, l’ALECA prevede di liberalizzare gli scambi nell’insieme dei settori dell’economia (abbattendo i diritti doganali), e imporre standard e norme europee e, cosa non secondaria, prevedendo in caso di dispute legali che le pratiche vengano esaminate fuori dal campo giuridico tunisino ma in corti private nel Continente.
Tale pratica si risolverebbe in una ancora maggiore dipendenza della Tunisia dalla Unione Europea, costretta ad assorbire le eccedenze alimentari UE (cereali, olii vegetali, prodotti d’allevamento), ed ha produrre ciò che non è conveniente alla UE. Una dinamica simile a ciò che già accade in Maghreb od in Africa, dove gli “scarti” alimentari vengono assemblati e rivenduti sui mercati locali, mettendo in crisi l’attività territoriali (il caso del falso latte “in polvere” a base di oli vegetali – come l’olio di palma – in CentroAfrica) e le eccedenze agricole che – nonostante l’abbondante produzione autoctona – vengono rivendute alla sponda sud del Mediterraneo, come nel caso del grano francese acquistato dall’Algeria.
Sempre Mustapha riassume la questione in questi termini: “noi dobbiamo consumare ciò che produce l’Unione Europea e produrre ciò Unione Europea non può o non vuole produrre”.
Come per esempio l’olio, venduto all’industria alimentare europea ad un prezzo imposto dalla grande distribuzione ad un prezzo insostenibile anche per gli agricoltori europei, imponendo un abbassamento complessivo delle condizioni di lavoro di tutta la filiera agro-alimentare su entrambe le sponde del Mediterraneo, con il prezzo imposto dall’agro-business come “vincolo esterno” a cui allinearsi o perire.
In questo campo, la decisione presa da Ghana e Costa d’Avorio questa settimana di non vendere più il loro cacao – da cui proviene il 90% della produzione mondiale e che costituisce il 10% del PIL dei paesi – al di sotto dei 2.600 dollari “a tonnellata”, bloccando la vendita dei raccolti del 2020 e 2021, è un interessante inversione di tendenza, tesa alla tutela dei produttori locali, cui va in proporzione di 6 a 100 il guadagno del business dell’“oro bruno”, e contro le multinazionali che controllano l’85% del mercato.
Oltre all’ARES, per cui l’ALECA è al centro dell’attività attuale di controinformazione dell’associazione, al fine di mobilitare settori politici e sociali per creare un fronte contro l’accordo, la battaglia è condotta insieme al FTDES (Forum tunisino dei diritti economici e sociali), l’UDC (l’unione dei diplomati disoccupati) e dei membri del sindacato dell’UGTT (Unione Generale dei Lavoratori Tunisini), nonché dei sindacati degli agricoltori (UTAP, SYNAGRI).
“La transizione democratica in Tunisia […] non è stata seguita da una transizione economica riuscita e garante di un processo sociale durevole”, denuncia da una tribuna di Le Monde del 17 maggio il ricercatore Haythem Guesmi, che afferma senza mezzi termini: “l’Europa vuole imporre ai tunisini una dipendenza economica totale”.
Parallelamente l’UE si occupa della formazione di élites funzionali al progetto neo-coloniale attraverso il finanziamento di ONG che servono come strumento di creazione e di cooptazione della società civile e di parte dell’intellighentzia del Paese.
L’”egemonia europea” ha portato allo svuotamento del processo di democratizzazione, cioè a ciò che l’autore definisce una “democrazia senza democrazia”, dove i diritti civili in parte progrediscono a scapito di un arretramento di quelli sociali, e di cui alla fine beneficia solo una porzione infinitesimale della popolazione.
Dietro questa apparenza “liberal” ci sta la dura e cruda realtà di uno svuotamento della sovranità popolare sulle decisioni di fondo, come denuncia Guesmi: “è l’UE che finanzia e organizza le formazioni dei membri del gruppo dei negoziatori tunisini de l’ALECA”!
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La dinamica dell’economia tunisina è molto simile a quella di altre economie “dipendenti”, in cui le condizioni di sviluppo imposte dagli attori economici internazionali ha portato ad un progressivo impoverimento ed all’innestarsi del circolo vizioso indebitamento verso l’estero, necessità di prestiti che vengono concessi come contropartita dell’accettazione di trattati economici svantaggiosi, perdita della possibilità di decidere uno sviluppo indipendente “de-connesso” dai poli imperialisti e dai centri finanziari globali.
Così come l’accordo del ’95 è stato preceduto da un prestito da parte dell’UE, così nel 2014 l’Unione ha “concesso” un prestito di 300 milioni di Euro alla Tunisia a condizione che accettasse l’approvazione dell’ALECA, iniziando i vari round negoziali nel 2015.
Questo avviene in una situazione in cui il rapporto con l’UE può essere descritto con la metafora della “ruota della bicicletta”, con un centro che comunica con tutti i suoi raggi, ma i cui raggi (le altre economie regionali del Maghreb e del “Sud”) non comunicano tra di loro.
Se vogliamo proseguire con questa metafora dello sviluppo ineguale di cui Samir Amin aveva posto le fondamentali basi teoriche d’analisi e la possibile exit strategy: più la ruota gira, più i raggi “scompaiono”…
Questo rapporto avviene con l’imposizione di fatto di “accordi quadro” che penalizzano i rapporti tra le economie regionali, e che sviluppano progetti di cui l’ALECA è un esempio: i coltivatori tunisini (generalmente nella fascia avanzata dell’età, proprietaria di terreni di dimensione generalmente limitata e scarsissime risorse economiche) non possono essere concorrenziali con le aziende della UE – il loro sindacato ha stimato una perdita di posti di lavoro nell’agricoltura, negli anni successivi all’ipotetica applicazione dell’accordo, attorno alle 250.000 unità.
Allo stesso tempo le aziende degli altri paesi che non rispettano gli standard europei, perché “fuori dai trattati”, non potranno vendere (come l’Algeria) i propri prodotti alla Tunisia.
Questi partenariati agiscono come veri e propri “cancri” economici, estendendosi ad una area più vasta che ingloba poi altri sistemi-paese, anche non contigui territorialmente: la Tunisia – dopo che le mobilitazioni politico-sociali in Marocco avevano respinto questo tipo d’accordo nel 2014 – servirà da testa di ponte per l’intero Maghreb, e l’ipotesi di un trattato di questo tipo è prevista con la Giordania, cioè in pieno “Medio-Oriente”, oltre che per l’Egitto, dopo i precedenti di Ucraina, Moldavia e Giorgia…
È chiaro che la parabola dello sviluppo del neo-colonialismo europeo nell’area si innesta sulla dinamica precedente della “globalizzazione” capitalistica, che ha permesso alle aziende internazionali di installarsi sul territorio tunisino a condizioni molto vantaggiose – grazie ad una precisa regia politica statale per cui la legge 92 ha fatto da apripista, fino a giungere alle recenti leggi che facilitano gli investimenti stranieri – dal punto di vista fiscale (e quindi impoverendo le casse dello stato), sfruttando una mano d’opera a basso costo in produzioni a basso valore aggiunto all’interno di una filiera produttiva in cui le merce poi vengono rivendute agli stessi tunisini, mentre i proventi vengono drenati nelle casse delle aziende estere in Euro, rafforzando questa moneta.
Una specie di “delitto perfetto”: nel 2015 secondo la Banca Mondiale, i benefici trasferiti dalle imprese straniere sono stati circa di 984 milioni di Euro.
Un altro aspetto rilevante è lo sfruttamento delle risorse energetiche che, nelle attuali condizioni politico-economiche, non hanno come beneficiari i tunisini stessi, ma – come succede per i progetti di sfruttamento dell’energia solare franco-tedeschi – hanno questi paesi core come destinatari finali della produzione d’energia.
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Il quarto round del negoziato sul trattato si è tenuto a Tunisi dal 29 aprile al 3 maggio.
Il giornale Jeune Afrique riporta la critiche del collettivo “Block Aleca”, composto da otto realtà associative, e del tentativo di creare un “fronte ampio” della contestazione, intervistando Salem Ben Yahia, presidente di Khadra, organico a BA.
Il trattato è definito: “colonialista”.
Ben Yhaia denuncia il carattere anti-democratico delle trattative, per cui alla fine l’UE si è scelta i suoi interlocutori, escludendo il sindacato UGTT, e ha avuto una grande opacità sui termini dell’accordo, che parte da condizioni assolutamente asimmetriche e riguarda tutti i settori.
Conclude Ben Yhaia: “L’Unione Europea vuole la concorrenza in tutti i settori, tutti i mercati pubblici. L’Aleca è a tutti gli effetti il rafforzamento della dipendenza della Tunisia e la perdita della sua sovranità sulla sua economia”.
È chiaro che la battaglia contro la stipula di tali trattati condotta dall’altra parte del “Mare Nostrum” deve trovare una adeguata sponda anche all’interno del vecchio continente, raccordandola con la battaglia contro la gabbia dell’Unione Europea e per la rottura dei trattati.
La UE è un male comune alle due sponde del Mediterraneo. Pensare ad una area di cooperazione tra le popolazioni delle due sponde è la premessa per lo sviluppo di una area “euro-mediterranea” sganciata da UE e NATO, che serva come profondità strategica per le lotte di tutti i giorni.
1 ARES, porta il nome del fondatore del movimento sindacale in Tunisia Mohamed Ali Hami, ed è stata creata da militanti della sinistra tunisina per la maggior parte del Fronte Popolare. Questo centro di ricerca si occupa di socializzare strumenti critici di analisi economica e sociale che vadano oltre il punto di vista liberale.
Ha pubblicato, in arabo, quattro contributi collettivi: uno sul debito, un secondo sulla crisi economica tunisina (con una lettura storica del modello di sviluppo), un terzo sulla “finanziaria” del 2018 e un quarto in via di pubblicazione che tratta delle imprese pubbliche e il dibattito a proposito della loro privatizzazione.
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