Andiamo con ordine. I fronti più incandescenti si sono relativamente stabilizzati dal settembre 2018, quando, grazie agli accordi raggiunti tra Russia, Iran e Turchia nell’ambito dei colloqui di Astana, è stato stipulato un accordo per la creazione di una zona demilitarizzata di 20 -25 km attorno ai territori ancora in mano alle opposizioni islamiste nella provincia di Idlib.
L’accordo prevedeva che all’interno di tali territori si stabilisse una limitata presenza militare turca, atta a tutelare i jihadisti presenti, ma, soprattutto, a separare le fazioni non considerate terroriste da quelle non considerate tali, ovvero specialmente Hayat Tahrir al-Sham, ex Al Nusra, sostanzialmente braccio di Al-Qaeda in Siria, al fine di eliminare queste ultime.
In realtà, la costituzione della zona demilitarizzata non è stata mai completamente rispettata e nessun passo per eliminare i “terroristi” è stato mai mosso; anzi, Hayat Tahrir al-Sham, ad un certo punto aveva quasi completamente annichilito militarmente gli altri gruppi jihadisti considerati “legali” dalle potenze internazionali, salvo poi consentire loro un limitato ridispiegamento al fine di non far saltare completamente gli accordi di Astana.
Tutti questi fattori hanno in qualche modo garantito, come detto, una relativa stabilizzazione e il tasso di violenza è drasticamente diminuito rispetto a prima, anche se noi è mai cessato completamente, sia per gli sporadici scontri mai cessati fra esercito siriano e jihadisti attorno alla zona formalmente demilitarizzata, sia per gli scontri all’interno della provincia di Idlib di cui si è detto poc’anzi.
Anche nell’altra ampia area del paese non controllata dall’esercito governativo, ovvero quella a nord-est ( posta in parte delle province di Aleppo, Raqqa e Deir-ez-Zor) controllata dalle Syrian Democratic Forces, ovvero il cosiddetto Rojava, la situazione si è relativamente stabilizzata da più di anno: una volta sconfitta la presenza dell’Isis sul terreno, gli USA non hanno dato corso ai propositi espressi da Trump di ritirare il contingente nord-americano presente sul terreno in un numero stimato di qualche migliaio di unità.
Pertanto, i disegni turchi di “mettere le mani” anche su quest’area, riproducendo lo scenario di Afrin, si sono dovuti (momentaneamente) fermare di fronte alla presenza militare nord-americana, che costituisce, di fatto, la garanzia di sopravvivenza delle Sirian Democratic Forces e, quindi, delle milizie Ypg/Ypg, braccio militare del Pyd, ala siriana del Pkk, che Ankara vorrebbe distruggere.
A favorire il non ritiro nord americano gioca anche la persistente ostilità fra USA e Turchia dovuto a varie questioni aperte quali l’acquisto, da parte di Ankara, di forniture militari dalla Russia, la guerra finanziaria scatenata contro la lira turca e il rifiuto, da parte di Washington di estradare in Turchia Fetullah Gulen.
Tale situazione, seppure ha portato a far quasi “tacere le armi” nell’area, per un altro verso ha portato alla chiusura di ogni tentativo di dialogo formale fra le Syrian Democratic Forces e l’alleanza Russia-Siria in precedenza imbastito (ad esempio alla vigilia dell’operazione “ramoscello di ulivo su Afrin e in altre circostanze), con Damasco che accusa le milizie curde di comportarsi come un proxy degli USA, rubando, tra l’altro, il petrolio siriano a beneficio dei loro protettori (la maggior parte del petrolio presente nel sottosuolo del paese si trova proprio in aree sotto il controllo dei Curdi, dove sono posizionate le fortificazioni militari USA); ciò ha avuto come conseguenze degli sporadici scontri fra le parti, nonché alcuni scontri interni ai territori del Rojava per la presenza di alcune tribù e villaggi a maggioranza araba che vorrebbero instaurare un dialogo con Damasco o passare dalla sua parte.
Ebbene, vi sono diversi segnali che tale equilibrio di forze sia di nuovo in fibrillazione.
In primo luogo, ogni cessate il fuoco nell’area di Idlib è, allo stato, completamente saltato. Gli scontri sono aumentati di intensità già da un paio di mesi, ma da un paio di settimane l’esercito siriano sta premendo decisamente sull’acceleratore con un’intensità pari a quella di prima degli accordi del settembre 2018; in alcune circostanze anche i punti di osservazione delle truppe turche sono stati colpiti e ci sono state vittime fra i soldati di Ankara. Al momento, l’esercito di Damasco è giunto nelle immediate vicinanze di Kan Shaykhun, la principale località situata a sud del capoluogo Idlib.
Ciò che fa pensare a possibili cambiamenti sostanziali alle viste nei rapporti di forza nell’area è la mancata reazione della Turchia ad eventi del genere, che normalmente sarebbero stati accompagnati da minacce e dimostrazioni di isteria verbale. Anzi, al termine del 13-esimo round dei colloqui di Astana, terminati a inizio agosto, proprio in coincidenza con l’incremento dell’offensiva dell’esercito siriano, i funzionari turchi si sono detti sodisfatti di come progrediscono le trattative le trattative di pacificazione della Siria e, in particolare, quelle per l’instaurazione di un Comitato Costituzionale, il quale dovrebbe dare impulso ad una soluzione politica del conflitto.
Ovviamente non ne avremo mai conferme ufficiali, ma questa catena di eventi fa pensare che potrebbe esserci un accordo fra Russia e Turchia per dare disco verde all’operazione militare attualmente in corso da parte dell’esercito siriano, della quale, però non sono dati sapere i reali obiettivi e fin dove si spingerà all’interno della sacca di idlib.
Contemporaneamente, è ripreso l’attivismo diplomatico turco sull’altro fronte, quello del nord-est paese. Mentre Erdogan ha ripreso le minacce di intervenire militarmente per spazzare via le Ypg, sono cominciati dei negoziati con gli USA per trovare una soluzione condivisa.
Tali sessioni di trattative, secondo le dichiarazioni ufficiali delle parti, sarebbero giunte ad un primo esito concludente consistente in un accordo per stabilire una buffer zone al confine turco/siriano in corrispondenza, ovviamente delle aree attualmente controllate delle Syrian Democratic Forces; tale zona cuscinetto verrebbe controllata dalla Turchia e, ovviamente, da essa le Ypg sarebbero costrette a ritirarsi. Non sono stati forniti maggiori dettagli a riguardo, ad esempio sulla profondità all’interno del territorio siriano di tale area: la Turchia ha fatto filtrare che la controparte ha promesso loro 35 km. Inoltre, Ankara avrebbe richiesto ulteriori 20 km liberi dal dispiegamento di armi pesanti da parte delle milizie curde.
Da parte loro le Yog/Ypj, le quali, ancora una volta, come nel caso di Afrin, ripongono le loro speranze nell’”alleato” da essere stesse accettato e selezionato, avrebbero fatto sapere a quest’ultimo di essere disposte ad accettare una buffer zone di 10 km, che preveda, però, l’esclusione dei maggiori centri urbani (Kobani/Ain al Arab, Tell Abyad, Ain Issa), sui quali la situazione dovrebbe rimanere immutata.
Staremo a vedere come si evolvono questi negoziati. Non è escluso che alla fine venga trovato un compromesso, i cui effetti politici e umanitari saranno delineati da come verranno sciolti i nodi sopracitati. Tirando le somme degli eventi recenti, pare ipotizzabile un ridispiegamento parziale delle milizie fondamentaliste sunnite filo-turche dal fronte di Idlib a quello del nord-est della Siria che, al momento, per Ankara pare prioritario, lasciando all’esercito siriano ampie fette di territorio e l’onere di combattere contro Hayat Tahrir al-Sham.
Se pure il ridispiegamento di milizie nell’area dell’attuale Rojava dovesse avvenire senza bisogno di un’operazione militare, come ad Afrin, nondimeno per le popolazioni non arabe dell’area le conseguenze potrebbero rivelarsi disastrose: emigrazione forzata, confische e altre vessazioni di ogni genere a favore delle famiglie dei miliziani e anche in parte dei profughi siriani attualmente presenti in grandissimo numero sul territorio turco, che Ankara vorrebbe ricollocare su porzioni del territorio siriano sotto il suo protettorato.
Il Governo di Damasco, intanto, vede premiati il suo basso profilo e la sua pazienza nell’adottare la tattica di affrontare un fronte alla volta, avvalendosi dei buoni uffici diplomatici dell’alleato russo, senza mai venire formalmente meno al principio dell’affermazione dell’unità territoriale del paese. L’obiettivo è quello d’imporre una soluzione politica in cui le altri componenti in gioco (milizie filo-turche e milizie curde) si presentino ai tavoli di trattativa molto più deboli; d’altra parte, Damasco spero anche di poter vantare, agli occhi di buona parte della popolazione, una maggiore capacità di stabilizzare dei territori sotto il proprio controllo e, quindi di poter riportare la vita alla normalità. Pertanto, anche per questo motivo cerca di evitare strappi e mantiene un basso profilo.
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