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Dal 4 al 9 novembre: una “settimana santa” da Mosca a Berlino

Settimana di celebrazioni in giro per l’Europa, quella che si apre oggi. Si comincia lunedì 4 novembre a Mosca e si finirà – ma non è detto che si vogliano limitare a un solo giorno e una sola capitale i rituali sacrali – sabato 9 novembre a Berlino.

Tra l’una e l’altra data, i comunisti di tutto il mondo celebrano la propria, quella che da 102 anni simboleggia l’obiettivo per cui operano quotidianamente, con fortune più o meno stabili: il 7 novembre del 1917 e la Rivoluzione socialista in Russia.

Se a Berlino si celebrerà la “fine della divisione del mondo” e l’entusiastica unanimità universale per il “libero mercato”, proprio in Russia il nuovo regime cerca da almeno tre decenni di far dimenticare il 7 novembre e la sua portata.

Per addolcire la pillola, è uso celebrare la data del 7 novembre come Festa della gloria militare, a ricordo della parata del 7 novembre 1941. Istituzionalmente, si parla di Giornata di accordo e conciliazione ed è giorno lavorativo, anche se i lavoratori russi, già così ridotti in miseria, poco sono d’accordo a conciliarsi con la nuova pensata del premier Dmitrij Medvedev sulla settimana lavorativa di quattro giorni, in cui si condensano 40 ore.

In compenso, dal 2005 si celebra il 4 novembre: Giornata dell’unità nazionale, in ricordo del 1612, quando le milizie popolari del principe Dmitrij Požarskij e dello starosta Kuzmà Minin, liberarono Mosca dalle truppe polacco-lituane, dopo il cosiddetto “periodo dei torbidi”. Il mito che si vorrebbe rinverdire, per cercare di oscurare il significato del 7 novembre, parla di popolo unito in quella lotta, indipendentemente da origini, fede e condizioni sociali, in contrapposizione alla spaccatura del 1917.

Due anni fa, in alternativa al centenario dell’Ottobre, Vladimir Putin aveva celebrato il 4 novembre sospirando: “Conto sul fatto che questa data sarà percepita dalla nostra società come linea di confine con i drammatici eventi che avevano diviso il paese e il popolo, che essa diverrà il simbolo del superamento di quella divisione, il simbolo del reciproco perdono”. E, per propiziare quel perdono, è un continuo inaugurare statue, busti, targhe a zar, generali bianchi e “martiri del comunismo”.

Di quale unità di popolo si può parlare, scriveva tre giorni fa Ekaterina Polgueva su Sovetskaja Rossija, quando un paio di centinaia di miliardari (in dollari) dettano le linee del governo, mentre due decine di milioni di lavoratori e pensionati fanno la fame con redditi (in rubli) al di sotto del minimo di sopravvivenza, “gratificati” con l’innalzamento dell’età pensionistica.

L’ufficiale VTsIOM certifica come il 54% (62% nelle grandi città) dei russi parli di assenza di “unità di popolo”. Secondo il Credit Suisse, il 10% dei russi più ricchi possiede l’83% della ricchezza totale di tutte le famiglie russe. Più del 70% della popolazione adulta, scrive Sovetskaja Rossija, rientra nella parte più povera della popolazione mondiale: di quale “unità di oligarchi e funzionari con i normali russi si può parlare? E il fronte che divide il potere dal popolo si allarga di anno in anno”.

Secondo l’Agenzia nazionale di ricerche finanziarie, il 70% dei russi non è in condizione di avere dei risparmi. Rosstat riporta come fatto positivo che nel 2019 la percentuale di famiglie il cui reddito è sufficiente per alimenti e vestiario sia salita al 49,4%: ciò significa che sia scesa dal 16,1 al 14,1% la parte di russi il cui reddito basta solo per gli alimenti. Il 32,6% può permettersi qualche oggetto in più, escluse auto, appartamento o dača. Il 2,7% può permettersi di tutto, e anche qualcosa in più.

La crescente difficoltà a tirare avanti con lo stipendio – nonostante il Rosstat parli di un aumento del reddito del 3% nel terzo trimestre dell’anno – imprigiona sempre più i russi nella rete del debito: oltre 40 milioni – più della metà dei lavoratori dipendenti – ricorrono a prestiti con le banche. Sul piano demografico, se il Ministro della sanità Veronika Skvortsova dichiara che l’aspettativa di vita è cresciuta nel 2019 di 0,7 anni rispetto al 2018, attestandosi a 73,6 anni, è però un fatto che, da gennaio a agosto, il calo naturale della popolazione sia stato di 219.200 persone, contro 169.100 del 2018: mantenere figli, ha un prezzo improponibile per molti.

Vladimir Silčenko scrive su capitalgains.ru che 98 (106 secondo Forbes) miliardari russi possiedono oltre 1,2 trilioni di dollari: circa il 73% del PIL del paese. Ma, mentre i super-ricchi aumentano, non è così per gli investimenti; secondo la Banca Centrale, la fuga di capitali ha superato i 25 miliardi nel 2019 (2,5 volte più del 2017) e il 40% sarebbe andato in speculazioni immobiliari estere.

Non a caso, secondo i sondaggi del Centro Levada, tra il 2003 e il 2019 la parte di russi che esprime un giudizio positivo su Stalin è passata dal 53% al 70%; mentre la percentuale di coloro che danno un giudizio negativo è scesa dal 33% al 19%.

Il “libero mercato” è sulla strada giusta; la Giornata dell’unità nazionale è il suo totem, ma qualcun altro è stato il suo profeta.

Nel 2016, Anatolij Čubajs, principale privatizzatore dell’epoca eltsiniana, dichiarava candidamente che “il nostro obiettivo non era quello di far cassa, ma di distruggere il comunismo… sapevamo che ogni fabbrica venduta era un chiodo sulla bara del comunismo… la proprietà privata in Russia è irreversibile”.

Gli rispondeva indirettamente, certo dal proprio punto di vista di monarchico-nazionalista, il regista Nikita Mikhalkov, che ricordava alcune di quelle svendite: mastodontici impianti metallurgici di Samara e di Čeljabinsk; fabbrica auto “Likhacev”; fabbrica trattori Čeljabinsk – tutte con 30-50mila addetti e svendute per 2 o 3 milioni di dollari l’una – per un valore complessivo di oltre 1 trilione di dollari, avevano portato nelle casse dello Stato appena 7,2 miliardi dollari; oltre a impianti strategici – fabbriche aeronautiche, costruzioni di turbine per sommergibili – i cui pacchetti azionari sono controllati da americani, inglesi, tedeschi, cinesi, o altri.

E il piano di privatizzazioni per il 2020-2022, scrive ROTFront, dopo il picco degli anni 2005-2010, prevede ulteriori svendite di imprese a controllo statale, oltre le circa ottantamila finora già privatizzate.

Ora, che significato dare alle affermazioni di Mikhail Gorbačëv, secondo cui l’URSS avrebbe potuto essere conservata, in forma “rinnovata”, attraverso un “Nuovo Trattato dell’Unione”, che non poté esser sottoscritto “a causa del tentativo di colpo di stato in URSS del 1991”? Di quale “colpo di stato” parlano Gorbačëv e coloro che in Russia continuano a definire “colpo di stato” il goffo tentativo del GKČP di impedire l’ormai inevitabile fine dell’URSS?

Poche settimane fa, in una conversazione con lo storico Aleksandr Kolpakidi, l’ex funzionario del CC del PCUS, Vjačeslav Matuzov, parlava di un intero processo che, oltre le scelte revisionistiche degli anni ’50 e ’60, aveva portato alla svolta gorbacioviana, comprese le misteriose morti di esponenti del CC e anche del politbjuro, gli allontanamenti di alti funzionari del Ministero degli esteri, il ruolo filo-occidentale di Eduard Šhevardnadze, la fattiva dissoluzione del PCUS, intimata dai propri stessi vertici. Per cui, afferma Matuzov, “ciò che abbiamo oggi non è uno sbaglio, o errore di calcolo, ma la conclusione voluta di un piano preciso”.

Un piano che ha avuto certo in Eltsin il carnefice designato, “guardato a vista (letteralmente) dagli uomini della Goldman Sachs”, dice Matuzov, ma che era stato messo a punto ben prima e che doveva condurre alle “angeliche” odierne esternazioni del premier Medvedev, secondo cui nella politica estera russa devono avere priorità gli interessi delle grosse corporazioni e non dello stato.

Ovviamente, le eminenze grigie gorbacioviane, avevano cercato di non limitare alla sola Unione Sovietica il proprio raggio d’azione: un esempio fu quello della DDR. Sia Vjačeslav Matuzov, sia l’ultimo Segretario generale della SED Egon Krenz, ricordano come le dimissioni di Erich Honecker, contrario a seguire la strada della perestrojka, fossero state praticamente indotte dai vertici del PCUS, che trovarono gli strumenti adatti nel cosiddetto “ufficio est” della SPD e nei servigi del vice Direttore della StaSi, Markus Wolf, dell’ex PreMIER Hans Modrow e altri esponenti della SED. Come sia andata a finire, quale sia stato il ruolo di Gorbačëv nella fine dell’URSS e anche in quella della DDR, lo ha raccontato lo stesso Krenz.

Il 3 ottobre, la Berlino ufficiale ha celebrato l’unificazione tedesca. Il 9 novembre, celebrerà la caduta del muro. In ombra è stata volutamente lasciata la data del 7 ottobre, che quest’anno coincideva con il 70° della fondazione della DDR.

Ancora Egon Krenz, scrivendo il 2 novembre su Sovetskaja Rossija, si chiedeva: “Come possiamo considerarci oggi, noi ex cittadini del primo stato di operai e contadini in terra tedesca? Non intendo quelli che hanno dimenticato gli ideali su cui avevano giurato, ma quelli che hanno conservato un senso di impegno verso gli alti obiettivi per cui avevano dato la vita i primi comunisti tedeschi e per cui non hanno risparmiato nessuno sforzo i loro discendenti… Non ci sentiamo affatto come persone che soffrono di nostalgia, o “ostalgia”. Questa paroletta è diventata di moda ed è usata per distorcere i nostri autentici sentimenti per la nostra ex patria; sentimenti basati non su cieca nostalgia, ma su un’analisi cosciente del passato, sull’attaccamento ai reali valori politici e morali che esistevano nella DDR socialista”.

Nel maggio 1949, all’atto di insediamento, scrive Krenz, “il primo cancelliere della RFT, Konrad Adenauer dichiarò: “Tutte le terre a est di Verra e Elba sono province tedesche. Pertanto, il compito non è quello di ricongiungersi con questi territori, ma di liberarli. La parola “riunificazione” deve scomparire… Liberazione è il nostro motto!”.

Liberazione e “libero mercato” era l’obiettivo: l’assoggettamento è stata la strada.

Nel 1945, dice ancora Krenz, “nei settori occidentali dell’ex Terzo Reich, solo il 13% del vecchio personale nazista fu espulso dal servizio pubblico. Dopo l’annessione dei territori orientali da parte della RFT, i rappresentanti della nuova “élite” della Germania occidentale misero alla porta l’85% dei funzionari pubblici dell’est socialista”. Di recente, Angela Merkel ha parlato di “disastro economico” della DDR.

Ma, afferma Krenz, se “qualcuno ha rovinato l’economia della DDR, è l’Agenzia di gestione delle proprietà nei nuovi territori. L’85% dei beni pubblici della DDR è stato ghermito da proprietari occidentali, il 10% è finito in mani straniere e solo il 5% è rimasto a est. Eppure, la DDR non era certo entrata a mani vuote nella nuova “famiglia” di territori federali. L’ex Germania occidentale ha avuto da noi 8.000 imprese, 20 miliardi di m2 di terreni agricoli, foreste e laghi, 25 miliardi di m2 di spazi immobiliari, 40.000 imprese commerciali, 615 policlinici, 340 ambulatori di fabbrica, 5.500 punti di ostetricia; oltre a brevetti, proprietà culturali e intellettuali. La DDR non ha solo aggravato sulla RFT l’onere finanziario di 400 miliardi di marchi occidentali, come sostengono; al contrario, le ha trasferito 1,74 trilioni di marchi di immobilizzazioni e 1,25 trilioni di potenziale produttivo”.

E’ così che la “democrazia europeista” può celebrare la settimana santa della fine dei “regimi comunisti totalitari e antidemocratici nell’Europa centrale e orientale”: lo fa in Russia, con popi e patriarchi che benedicono la Giornata dell’unità nazionale; lo fa in Germania, sventolando i risultati dei nazisti di Alternative für Deutschland, diventati in alcuni Länder della ex DDR le seconde maggiori forze con il 27,5% in Sassonia, il 23,5% in Brandenburgo e il 23,4% in Turingia.

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