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“Tiocfaidh ár lá”: cosa cambia con le elezioni in EIRE

Per comprendere la posta in gioco del voto irlandese tenutosi questo sabato 8 febbraio occorre ricostruire le linee di tendenza dello sviluppo capitalistico nell’isola, capire i cambiamenti nelle recenti dinamiche politiche, comprendere gli scenari futuri post-Brexit che si possono delineare sia per l’EIRE che per l’Irlanda del Nord.

Il sistema elettorale irlandese è unico, insieme a quello maltese, è complesso e implica a volte alcuni giorni per lo spoglio completo prima di ottenere i risultati definitivi.

Si tratta di un scrutinio proporzionale a voto unico trasferibile, in cui gli elettori scelgono i loro candidati per ordine di preferenza. Un candidato è eletto deputato (Teachta Dála in gaelico, o TD) nel momento in cui raggiunge la quota di voci prefissate, in seguito diversi “turni” sono organizzati per ripartire i voti restanti tra gli altri candidati, in funzione dell’ordine di preferenza fino a completare i 160 eletti.

Andiamo con ordine.

La “Tigre Celtica” – così venne definito il Paese durante il suo periodo di boom, precedente allo “scoppio” della bolla immobiliare – deve il suo attuale profilo economico dagli investimenti del capitale straniero (in particolare nord-americano), che ha aperto le proprie sedi in EIRE grazie ad un trattamento fiscale di favore, per la presenza di mano d’opera anglofona qualificata, oltre alla sua collocazione geografica che si prestava ad essere una piattaforma ideale delle big della “New Economy” in direzione del mercato unico europeo.

Allo stesso tempo il tessuto imprenditoriale “autoctono” di media e piccola grandezza è fortemente connesso all’economia britannica.

In questo Paese con circa 5 milioni di abitati, 90.000 imprese importano od esportano con il Regno Unito, che riceve il 40% delle esportazioni totali dell’Isola, così come sono intensi gli scambi tra Nord e Sud, dove 4 milioni di camion attraversano il confine ogni anno, oltre a quelli tra l’Est e l’Ovest, con il “corridoio aereo” tra Dublino e Londra diventato il secondo più utilizzato al mondo.

Allo stesso tempo la Gran Bretagna è stata fino a qui la porta d’accesso per l’Irlanda all’economia continentale, con un percorso delle merci che parte dal porto di Dublino per approdare in Galles, e da lì – attraverso il “ponte terrestre” – fino a Douvres prima di giungere a Calais.

Investimenti delle multinazionali ed uno stretto rapporto con la Gran Bretagna sono due caratteristiche principali dell’economia dell’Isola.

Lo sviluppo irlandese attuale ha le sue basi nel rapporto redatto nel 1958 intitolato Economic Development, redatto da uno degli architetti dell’EIRE contemporanea, T.K. Whitetaker, un alto funzionario del ministro delle finanze.

L’idea era quella di passare da una economia fortemente agricola e ad una pianificazione industriale, con l’ausilio del capitale straniero per ridurre la dipendenza dalla Gran Bretagna, anche per uscire dal decennio di austerity conosciuto dal Paese negli Anni Cinquanta.

L’Irlanda faceva fatica ad uscire da quell’endemica emorragia demografica che la caratterizzava ancora nel dopoguerra, e che contraeva il mercato interno rendendolo inadatto ad essere un “vettore” dello sviluppo industriale.

Gli anni sessanta furono un notevole “cambio di passo”, con un tasso di crescita medio annuale del 4%, un aumento del valore delle esportazioni del 200% e l’installazione di 350 nuove imprese che davano lavoro, nel 1973, ad un terzo della popolazione operaia irlandese, prefigurando una possibile via d’uscita dalla povertà endemica che l’aveva fino ad ora caratterizzata.

Certamente l’Isola è un “nano” economico rispetto alle altre realtà continentali quando si appresta ad entrare nella Comunità Economica Europea, nella prima metà degli anni settanta, essendo il PIL dell’EIRE nel 1973 – anno della suo ingresso – appena il 58,5% della media europea.

Durante questi anni, comunque, il tasso di crescita mantiene i suoi livelli anche grazie all’arrivo di nuove compagnie statunitensi nell’elettronica e nella chimica.

Il perseguimento della strategia degli incentivi agli investimenti stranieri nel corso degli anni Ottanta avviene con il dumping fiscale, con una tassazione attualmente al 12,5%, ma che era addirittura al 10% prima del 2003.

La leva fiscale è lo strumento principe della “competitività” irlandese, questo naturalmente a scapito della politica di spesa pubblica, perché non drena nelle casse dello Stato una parte consistente dei super-profitti fatti dalle multinazionali – che li reindirizzano in patria – e non permette lo sviluppo di una industria “autoctona”, in grado di uscire dalla fascia bassa del valore aggiunto.

Nonostante i “fondamentali” dell’economia migliorino, secondo un ottica liberale,  con un deficit pubblico che si riduce all’inizio degli anni Novanta ed un tasso di disoccupazione che scende dal 17 al 13% dal 1987 al 1991, il welfare incomincia a soffrire di una cronaca mancanza di investimenti.

Tra le principali vittime è la sanità pubblica, non a caso all’oggi al centro delle preoccupazioni popolari secondo i recenti sondaggi elettorali ed uno dei punti qualificanti del Sinn Fein.

L’EIRE diviene sempre più dipendente dagli investimenti delle multinazionali, che trovano nell’Isola un vero e proprio paradiso fiscale – nel 2006, 13 aziende su 15, tra i leader mondiali del settore farmaceutico, hanno sede in Irlanda – ed un terreno privilegiato della speculazione edilizia, creando un nefasto intreccio tra big dell’immobiliare, banche e sistema politico Una dinamica molto simile ad altri Paesi PIGS (Spagna ed Italia, per esempio).

Nonostante la retorica dell’economia liberale, le cifre del “boom irlandese” risultano falsate, e difficilmente utilizzabili anche da coloro che per mestiere devono valutarne la solidità, tanto che accanto al PIL, viene pubblicato un dato che “scorpora” i profitti delle multinazionali; cioè un Prodotto Nazionale Lordo Modificato (RNBA in francese) che prende in considerazione solo gli introiti generati dagli attori nazionali, comprese quelli localizzati oltre confine.

Lo scarto tra questi due valori è enorme, a differenza che negli altri Paesi, dove tende a convergere.

Mentre il PIL nel 2016 era di 275,6 miliardi di Euro, il RNBA corrispondeva a 189,2 miliardi di Euro, cioè un terzo di meno.

«Non è tutto: una volta escluse le operazioni delle multinazionali, la bilancia corrente irlandese (…) non appare più in eccedenza, ma in deficit», registra Marie Charrel in un articolo pubblicato su Le Monde, nel luglio del 2017.

Già solo questo dato mostra l’attuale “fragilità strutturale” dell’economia irlandese, ed inoltre ci mostra come siano ancora più costringenti ed arbitrari i criteri economici valutativi usati dalla stessa Unione Europea, imponendo di fatto una politica di austerity legata a parametri come il PIL. utilizzato per valutare i livelli di deficit pubblico tra gli Stati membri o per calcolare il contributo al budget comune.

Ma le bugie hanno le gambe corte e chi si è nascosto dietro l’ostentazione del “boom economico” – come il premier ed il suo partito – rischia di fare un bagno di realtà con queste votazioni, anche perché la crescita artificiale dell’economia è servita come mannaia reale nelle politiche di austerity imposte dalla UE, considerato che si basavano su cifre di fatto falsate.

Dodici anni dopo la crisi economica irlandese, è ripresa la spirale speculativa che ne ha caratterizzato lo sviluppo, ad incominciare dal boom edilizio, facendo apparire ancora più paradossale agli occhi degli irlandesi il disagio abitativo di cui soffrono: l’aumento esponenziale degli affitti – dal 2014 il costo dell’affitto di un monolocale a Dublino è raddoppiato – , l’impossibilità di acquistare casa, la cronica mancanza di alloggi popolari e l’aumento dei senza-tetto (circa 10.000), che colpisce in particolarmente gli abitanti di Dublino.

Ed insieme alla Sanità è proprio la questione abitativa è al centro delle preoccupazioni dell’elettorato, il che ha aumentato l’appeal nei confronti della proposta del SF, che ne ha fatto uno dei propri cavalli di battaglia.

Mentre il Real Estate fa soldi a palate, gli irlandesi soffrono.

«Gli edifici ormai trovano un acquirente prima ancora di essere completati», dichiara Keith O’Neilm, direttore della branca d’investimenti immobiliari commerciali della banca PNB Paribas Real Asset.

Dopo la cura da cavallo imposta con il piano di FMI, BCE e UE – che hanno sbloccato un prestito d’urgenza nel 2010 da cui l’EIRE è uscita nel 2013, ma che le cui conseguenze ancora sono avvertite – i dati ufficiali sembrano dare ragione al governo, con una eccedenza budgetaria ed un debito pubblico dimezzato, ormai inferiore al 60% del PIL.

I salvataggi bancari in seguito allo scoppio della “bolla immobiliare” avevano “gonfiato” il deficit pubblico del 30%!

Il Piano spalmato su tre anni prevedeva un prestito di 85 miliardi in cambio dell’attuazione di una politica d’austerity draconiana, tra cui il drastico abbassamento degli stipendi dei dipendenti pubblici – da allora un 15% in meno senza che all’oggi il gap sia stato colmato – e l’aumento della pressione fiscale che ha colpito la popolazione e non le multinazionali, nonché la riduzione della spesa pubblica.

IDA, l’agenzia irlandese per gli investimenti esteri è, al centro di questa “nuova fase” dello sviluppo dell’Isola.

Dal 2015 sono stati realizzati più di 1.200 investimenti da parte di multinazionali straniere, e più del 10% della manodopera irlandese lavora per queste imprese, tra cui i giganti della Silicon Valley presenti al gran completo a Dublino o nel resto del Paese. Googlem per esempio, impiega 8.000 lavoratori…

Solo una parte  di chi vive in Irlanda, quindi, ha potuto avvantaggiarsi della ripresa economica e far aumentare anche la domanda interna di merci, mentre il resto della popolazione fuori dalla filiera delle multinazionali e dell’immobiliare ha visto la propria condizione peggiorare, tra l’altro con l’aumento dell’età pensionabile…

L’età della pensione è infatti la terza maggiore preoccupazione dell’elettorato. È stata portata a 66 anni nel 2014, 67 nel 2021 e 68 nel 2028: il Sinn Fein vuole riportarla a 65 anni.

Fine del bipolarismo irlandese

Un sondaggio pubblicato sabato sera di Ipsos-MRBI, che comprende un margine d’errore dell’1,3%, dava il partito del Premier Leo Varadkar, il Fine Gael, in testa con il 22,4% delle preferenze, davanti al partito repubblicano Sinn Fein con il 22,3%; dietro, l’altro partito di “centro” che per novanta anni ha co-dominato la scena politica irlandese, il Fianna Fail di Michael Martin, con il 22,2%.

Percentuali risicatissime quindi, anche tenendo conto del possibile errore di calcolo delle stime, che concorrono ad accreditare l’ipotesi di un exploit della formazione repubblicana che si presenta solo in 42 seggi sui 160 totali – e che mentre scriviamo sembra averne conquistati con sicurezza almeno ben 37! -, a differenza del Fine Gael e del Fianna Fail presenti in una ottantina di collegi.

Sia il Fine Gael che il Fianna Fail, che fino all’indizione recente dell’elezioni anticipate governavano assieme il Paese hanno escluso un possibile coalizione governativa con il Sinn Fein, così come la possibilità di ritornare a governare insieme.

La McDonald, leader del partito, esclude una partecipazione governativa con il Fine Gael o con il Fianna Fail, ma apre a sinistra, ai Verdi e alla radicale “People Before Profit”.

È la fine del bipolarismo irlandese, e il possibile inizio di un impasse politico che rischia di trascinarsi a lungo, considerando piuttosto peregrina l’ipotesi che un partito guadagni più di 80 seggi.

Ci vollero ben settanta giorni dopo le elezioni del 2016, per i due partiti che per novanta anni hanno dominato la politica irlandese e che hanno una visione d’insieme sostanzialmente identica, per mettersi d’accordo sulla formazione del governo.

Le due famiglie politiche si differenziano ormai solo rispetto alla posizione avuta durante la guerra civile irlandese nella prima metà degli anni venti del secolo scorso.

La sinistra è ora il Sinn Fein

La dinamica politica in Irlanda è mutata.

Il Partito Laburista è stato sostituito “a sinistra” dal Sinn Fein, pagando pesantemente la scelta della partecipazione alla coalizione governativa nel 2011 con il Fone Gael, rendendo possibili le politiche di austerity imposte dalla Troika.

I verdi, che con la tematica del “cambiamento climatico” sembravano al centro delle preoccupazioni della popolazione poco meno di un anno fa, sembrano ora confinare il loro voto solo ad una gioventù urbana istruita, essendo le priorità espresse dalla popolazione più legate ora alle questioni sociali (sanità, alloggi, pensioni) che alla transizione ecologica tout court, tema comunque caldeggiato dal Sinn Fein.

Il premier uscente ha giocato la sua narrazione sulla “presupposta” prosperità economica, e sul suo ruolo di protagonista nell’accordo sulla Brexit; ma le storture dello sviluppo economico irlandese sono ormai percepite dai più e trovano una soggetto in grado di dare rappresentanza politica a tale istanza.

In realtà nel mentre il Primo Ministro ne faceva l’asse della propria campagna elettorale, la questione della Brexit – a differenza che nelle recenti elezioni britanniche –  nell’ipotetica agenda delle preoccupazioni dei ceti popolari è stata derubricata, a differenza di ciò che appariva nel novembre scorso.

Un altro fattore importante per comprendere la situazione attuale è il fatto che i due ultimi referendum hanno ridato fiducia all’elettorato sulla propria capacità di cambiare lo status quo, tramutando in legge l’orientamento della maggioranza della popolazione.

Nel 2015 l’esito del referendum sul matrimonio omosessuale, ed in maniera più significativa nel 2018 quello sull’interruzione di gravidanza, sono stati non solo un “barometro” di come la società irlandese sia cambiata nel suo complesso, ma hanno permesso di incidere sulle scelte politiche di un sistema che sembrava bloccato, di fatto spianando la strada ad una possibile alternativa, oltre al bipartitismo irlandese.

Il possibile referendum sull’unificazione dell’Irlanda nel 2025 potrebbe diventare il prossimo passaggio post-elettorale su cui costruire una prospettiva che permetta di rafforzare il consenso repubblicano e sbloccare una ipotesi “remota”, anche se contenuta teoricamente negli Accordi del Venerdì Santo del 1998, che hanno posto fine al conflitto armato in Irlanda del Nord.

Su questo tema, tradizionale strumento d’agitazione del Sinn Fein, c’è da registrare che proprio la nuova leadership del partito ha preferito puntare su temi più “sociali” per ampliare il proprio consenso, e non farne un tema “divisivo” com’è è stata invece la Brexit tra le file dei laburisti.

Un dato estremamente interessante del sondaggio citato viene dalla risposta alla domanda circa l’aver goduto o meno dei benefici della crescita economica negli ultimi anni.

Il 63% per cento ha risposto che non ne ha tratto alcun beneficio.

Il Sinn Fein si quindi candida ad essere il partito degli “esclusi” dal patto sociale configurato da grande capitale nord-americano e Unione Europea.

Tutto fa supporre che si stia andando verso la fine del bipolarismo irlandese e l’inizio di una nuova stagione politica, dove il Sinn Fein giocherà un ruolo chiave, dopo i deludenti risultati dello scorso anno alle elezioni municipali e alle europee, con i “volti” nuovi di Pearse Doherty ed Eoin ó Broin ad offrire soluzioni concrete ai problemi irlandesi.

Un percorso lungo e travagliato, quello della formazione repubblicana che, da ex “sponda politica dell’IRA”, “rischia” di divenire il primo partito di una possibile Irlanda unita.

È nel 1986 che il Sinn Fein, sulla spinta di Gerry Adams, abbandona la politica astensionista e sceglie di competere per il parlamento irlandese, ottenendo nel 1987 quasi il 2%, e conquistando il suo primo parlamentare solo nel 1997, dopo che l’IRA aveva dichiarato il “cessate il fuoco” nel 1994.

Da allora la progressione elettorale del Partito è stata costante, pur restando sotto il 10% per il primo decennio del nuovo millennio, ed arrivare al 13,8% solo nel 2016, quando ha conquistato 23 seggi.

Mary Lou McDonald, 50 anni, leader succeduta nel 2018 a Gerry Adams, nel suo discorso per il “passaggio di testimone” l’ha riconosciuto come proprio mentore politico concludendo con l’espressione Tiocfaidh ár lá, cioè “il nostro giorno verrà”.

Ed oggi questa esclamazione, assume un significato del tutto particolare.

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