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Dopo lo tsunami catalano, la bonaccia spagnola

Dopo le proteste dell’autunno, culminate negli scontri di piazza Urquinaona, la mobilitazione popolare in Catalunya è scesa progressivamente fino a un livello di bassa intensità: Tsunami Democratic, protagonista dell’occupazione dell’aereoporto e del blocco dell’autostrada alla frontiera della Jonquera, non da segni di vita dall’inizio dell’anno.

La cronaca delle ultime settimane ci consegna un quadro politico segnato dal ritorno alla normalità: spaventata dalla radicalità del conflitto, ERC ha abbandonato la piazza ed ha spianato la strada al governo del PSOE in cambio di una tavola di dialogo dalla quale i socialisti escludono a priori l’autodeterminazione del popolo catalano.

Il PSOE ha così potuto varare il primo governo di coalizione della Spagna postfranchista e il monarca ha inaugurato la XIV legislatura. Per l’occasione, Filippo VI ha vestito i panni dell’agnello e ha invocato il dialogo,  dando voce ai poteri economici che da tempo reclamano la fine della mobilitazione popolare in Catalunya e il ritorno all’ordine.

Come da copione, il discorso è stato applaudito dal gruppo socialista, impegnato a nascondere la persistente azione repressiva delle forze di polizia e dei gudici con le vaghe promesse di dialogo indirizzate agli indipendentisti. Meno prevedibili invece gli applausi di Pablo Iglesias e dei ministri di Unidas Podemos che, a parte i gesti simbolici, sembrano ormai decisi ad accreditarsi come nuovi gestori del regime del”78.

In un clima di placida bonaccia, il centroinistra spagnolo ha infatti varato i suoi primi interventi che, malgrado l’apparenza di misure “di  sinistra” si rivelano deludenti. A cominciare dalla tanto attesa riforma della normativa sul lavoro targata PP.

Le modifiche del governo Sánchez non sembrano sostanziali: si conferma la riduzione dell’importo dovuto a titolo di risarcimento al lavoratore licenziato senza giusta causa, per cui licenziare rimane facile come prima; viene confermata anche l’abolizione dell’autorizzazione amministrativa necessaria per effettuare i licenziamenti collettivi, lasciati così al giudizio insindacabile dell’impresa, libera da lacci e lacciuoli; unica misura positiva, si abolisce la possibilità di licenziare il lavoratore che si trovi in ​​malattia da oltre 3 mesi.

Ciononostante, nel preaccordo di governo non si parla di diritto alla malattia pagata, bensì di “assenteismo per malattia”, un concetto difficilmente ascrivibile al patrimonio delle sinistre.

L’aumento del salario minimo, non a caso frutto dell’accordo con l’associazione padronale spagnola CEOE, si è rivelato molto inferiore a quanto promesso in campagna elettorale e si stima tradursi in 50 euro in più in busta paga per solo 2 dei 19 milioni di lavoratori attivi. L’aumento è stato annunciato giusto il giorno dello sciopero generale in Euskal Herria per pensioni e salari degni, uno sciopero che CCOO e UGT non hanno sostenuto, mentre Unidas Podemos, per bocca del segretario regionale del partito, ha detto di rispettare ma non sostenere.

Più che una coincidenza, la tempistica dell’annuncio è sembrata voler nascondere il mancato sostegno del PSOE e di Unidas Podemos ai lavoratori baschi, oltre al basso profilo tenuto sulla riforma del lavoro.

Il governo Sánchez ha annunciato anche la cosiddetta Google tax: i giganti tecnologici saranno tassati al 3%, (mentre un lavoratore che guadagna 12.450 euro lordi l’anno viene tassato al 19%.). L’imposta però è stata immediatamente sospesa per timore delle ritorsioni commerciali degli USA, contrari alla tassazione delle grandi imprese tecnologiche.

Il governo ha candidamente ammesso che aspetterà la proposta in materia che sta elaborando la UE, per poi adeguare la propria imposta a quella disegnata a Bruxelless. E così per il momento la Google tax rimane solo un annuncio.

Per finire, la versione del governo Sánchez della Tobin tax: le operazioni di compravendita di azioni emesse da imprese spagnole, con un valore di borsa superiore ai 1000 milioni di euro, svolte da operatori del settore finanziario, saranno gravate da una tassa dello 0,2%, una aliquota  decisamente bassa.

L’imposta vuole colpire la compravendita delle azioni delle sole grandi imprese, ma la percentuale applicata sembra voler disturbarle il meno possibile, rivelando il gioco del governo: massimizzare la vernice di sinistra e minimizzare il costo per il grande capitale finanziario.

L’impressione che all’ordine del giorno di Unidas Podemos non ci sia l'”assalto al cielo”, è confermata anche da altri segnali. Davanti a un caso di corruzione nel quale sono implicati una impresa di forniture militari a partecipazione statale (Defex), l’Arabia Saudita e la casa reale, Podemos aveva votato contro la comparsa del re nel Congresso, richiesta dalla CUP. Gli anticapitalisti e indipendentisti catalani, appena entrati con 2 deputati nel parlamento statale, pretendevano spiegazioni dal monarca. Ma nell’imbarazzante compagnia di Vox, oltre che del PSOE e del PP, Podemos ha votato contro la proposta della CUP, ritenendo evidentemente che non si debba scomodare Filippo VI per indagare nell’intreccio d’interessi  che lega la monarchia borbonica a quella saudita.

Qualche giorno dopo, è stato il tinent alcalde alla sicurezza di Ada Colau a chiedere la fine del blocco stradale della Meridiana di Barcelona, uno dei fuochi della protesta indipendentista, che resiste da 149 giorni. La formazione della Colau si unisce così al coro di PP e Ciudadanos che da tempo invocano il ritorno alla “normalità” a Barcellona.

Dal referendum del primo ottobre, Podemos si è adoperato per addormentare il conflitto in Catalunya, tacciando più o meno esplicitamente l’indipendentismo di movimento borghese. Ma una volta arrivato al governo, l’operato del partito di Iglesias non si distingue da quello di una socialdemocrazia, ben lontano dall’attaccare seriamente i poteri forti dello stato. E risulta ancora più evidente l’errore di prospettiva commesso in Catalunya: invece di far leva sulla contraddizione nazionale per far saltare il regime del ’78, Podemos si è rivelato la stampella più efficace del sistema.

Che il PSOE lavori per sedare le contraddizioni, quella di classe e quella nazionale, non è una novità. Che lo faccia Unidas Podemos è invece un dato preoccupante. Cosí come preoccupante è la nuova strategia di ERC, volta alla mera gestione dell’autonomia catalana. La parabola delle due forze politiche prefigura una stagione il cui orizzonte è tutto compreso nel progetto dell’UE e il cui esito è prevedibile: il progressivo spostamento a destra degli equilibri politici e la sudditanza ai poteri forti dello stato e dell’Unione.

Contemporaneamente però si apre un vasto spazio politico per la sinistra anticapitalista e indipendentista e per i movimenti che non dimenticano che il PSOE ha gestito, assieme al PP, il riscatto delle banche e ha priorizzato il pagamento del debito alla spesa sociale, garantendo il rispetto delle “indicazioni” provenienti dall’UE e approvando tra l’altro l’obbligo costituzionale del pareggio di bilancio. E che i socialisti hanno difeso strenuamente la repressione contro il movimento catalano.

Uno spazio politico che l’esquerra independentista ha l’opportunità di occupare, consapevole del fatto che senza lotta e senza autorganizzazione popolare non è possibile alcun progetto di radicale trasformazione della società.

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