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La Germania si scopre fragile alla prova della pandemia

Venerdì 13 marzo il totale delle persone contagiate da Covid-19 in Germania erano 2369 secondo le statistiche ufficiali fornite dall’Istituto Robert Koch.

Il sito dell’Istituto (www.rki.de) è la fonte ufficiale su tutto ciò che pertiene all’attuale emergenza sanitaria, insieme al Bundesministerium für Gesundheit, il Ministero della salute federale.

Questi dati precedentemente inseriti “manualmente” attraverso le segnalazioni fatte dagli ospedali e dalle autorità federali, ora vengono determinate dalla comunicazione digitale delle autorità federali a loro fornite dalle autorità sanitarie, razionalizzando la catena di comunicazione.

Il bollettino medico viene aggiornato ogni in prima serata.

Tre sono le zone di maggior contagi.

La Renania Settentrionale – Vestfalia, che è la zona più popolata della Germania in cui vive quasi un quarto della popolazione tedesca e che confina con Belgio ed Olanda, con 688 casi. In questa regione si sono avuti i primi due decessi come riporta “Le Monde” il 10 marzo causati da Covid-19, una donna di 89 anni che aveva contratto il virus sei giorni prima, ed un uomo di 78. In questo Land vi è la prima e l’unica parte di territorio messa in quarantena, Heinsberg, una misura che riguarda 400 abitanti di questo luogo che è stato il primo “focolaio” accertato della malattia, conoscendo i primi due casi risultati positivi al test.

La Baviera a Sud che confina con l’Austria e la Repubblica Ceca, 500 casi.

Il Baden-Württemberg che confina con la Francia e la Svizzera con 454 casi.

La Germania ha iniziato a registrare i casi relativamente tardi a fine febbraio, periodo in cui molti suoi abitanti facevano ritorno da importanti zone di contagio come l’Italia e la Francia per la fine del corrispettivo della nostra “settimana bianca”.

Negli ultimi giorni l’aumento dei casi registrati è stato “esponenziale”, più 802 quelli registrati nell’ultimo bollettino che abbiamo qui considerato rispetto al giorno precedente, erano stati 271 in più il giorno prima.

Dal 6 marzo la progressione “quasi” lineare ha fatto salire il conteggio dei contagiati di più 100, di più 200 al giorno fino ai quasi 300, prima dell’ultimo picco registrato appunto.

La prima dichiarazione pubblica rispetto all’emergenza sanitaria della premier Angela Merkel risale all’11 marzo, insieme al Ministro della Salute Federale, nonché direttore dell’Istituto Robert Koch, Jens Spahn, cui abbondanti stralci sono stati riportati dal quotidiano “Frankfurter Allgemeine Zeitung”.

Da quanto riporta la “FAZ” la Merkel ha parlato schiettamente della possibilità del contagio che potrebbe colpire il 60-70% della popolazione, ha espressamente detto che non esiste né vaccino né terapia, che non sono da escludere dei casi gravi e l’innalzamento della mortalità.

Ha altresì affermato sostanzialmente che verrà messa in discussine la politica di rigore per ciò che riguarda il Paese ed il Patto di stabilità per quanto concerne l’UE, ed ha affermato che non verranno chiuse le frontiere.

In realtà vengono da qualche giorno fermati sistematicamente i “transfrontalieri” che tornano in Germania dalla Francia a cui viene domandato se abbiano febbre o si sentano male, mentre le aziende tedesche hanno di fatto “imposto” ai propri dipendenti che abitano in Francia di stare a casa, assicurandogli il regolare pagamento dello stipendio, e la stessa cosa succede al contrario.

La Repubblica Ceca ha varato giovedì lo “stato d’urgenza” di 30 giorni, chiudendo tra l’altro i confini con Germania ed Austria, rimangono solo 11 punti di attraversamento dei confini altamente sorvegliati.

È notizia di venerdì che l’Austria ha chiuso le sue frontiere…

All’inizio della settimana erano 1139 i casi rilevati in germania, di cui quasi la metà – 484 – nella sola Renania Settentrionale.

Frank Ulrich Montgomery aveva usato toni rassicuranti lunedì affermando: «il sistema sanitario tedesco è perfettamente preparato (…) noi ce la caveremo».

Un ottimismo che fa un poco a pugni con quanto si può leggere “sottotraccia” nelle raccomandazioni dell’Istituto Koch e da una minima decostruzione dei dati sulla capacità del sistema sanitario tedesco.

Bisogna ricordare che la Germania è uno Stato Federale che può dare alcune “raccomandazioni” a livello centrale, ma a cui spetta ai singoli Stati federali ed ai comuni la presa di decisioni che vanno ad incidere sulla vita quotidiana dal limitazione degli assembramenti alla chiusura delle scuole od altro.

Fino ad ora non è stato preso alcun provvedimento realmente restrittivo tendente al contenimento della diffusione virale.

Questo venerdì la premier aveva annunciato che avrebbe reso pubbliche alcune misure di aiuto per affrontare la situazione.

Due sono i criteri generali, di cui uno fissato costituzionalmente, che regolano le scelte di politica economica, il primo è il cosiddetto “freno al debito” (Schuldenbremse in tedesco) che impedisce l’indebitamento federale oltre il 0,35% del PIL.

Questa soglia può essere superata in tre casi: crisi, catastrofe naturale e “situazioni di urgenza straordinaria”. E la Pandemia rientra in questa casistica…

La seconda regola “non scritta” è il cosiddetto Schwarze Null (letteralmente “zero nero”), adottato dal 2014, che è la politica di pareggio di bilancio, od il suo surplus, dopo 44 anni.

Si tratta in questo caso di una scelta puramente politica ovviamente che non ha nessuna gabbia legislativa che ne obbliga l’attuazione.

Una economia già stagnante e fortemente votata all’export, e con un sistema bancario sull’orlo del collasso non potrà che risentire non poco delle conseguenze economiche della Pandemia, considerato tra la progressiva chiusura delle frontiere e le limitazioni del trasporto aereo.

Intanto le misure prefigurate sono un aiuto statale alle imprese in difficoltà e viene facilitato il ricorso alla disoccupazione parziale.

Andiamo ora a vedere più nel dettaglio le disposizione prese fino ad ora e come si sta riorganizzando il sistema sanitario tedesco.

Rispetto al test, l’assicurazione sanitaria lo paga dal 28 febbraio, e la Germania dovrebbe disporre di una rete laboratoriale in grado di poterlo effettuare con relativa efficienza.

In primis secondo le indicazioni ufficiali: solo i pazienti sintomatici devono essere testati, ed un medico deve effettuare una diagnosi che ne certifichi la necessità.

Nel formulare tale richiesta viene consigliato ai medici di far che l’indicazione per il test debba essere documentata in modo tale da poter anche stabilire le priorità in caso di mancanze interne. E quindi probabilmente, la rete dei laboratori rischia di essere insufficente.

La strada intrapresa è quella dell’auto-confinamento domiciliare e della consulenza medica telefonica: la gamma di consulenza medica per telefono dovrebbe essere ampliata e utilizzata dove possibile.

Le disposizioni date permettono dal 9 marzo di assentarsi per una prima tranche di 7 giorni, rinnovabili per 6 settimane giorni oltre i quali verrà pagato la quota di stipendio spettante per la malattia a chi si sente male..

Viene detto espressamente che febbre, mal di gola e problemi respiratori non sono sufficienti per chi rimane a casa per potere effettuare il test.

È necessario in caso di questi sintomi anche avere avuto contatti con una persona infetta, od in regioni nel quale il virus è provato esista su vasta scala.

In caso di sintomi lievi e di casi sospetti la degenza domiciliare e quella ambulatoriale dovrebbe essere la strada prediletta.

In sintesi, non è previsto uno screening reale della popolazione che potrebbe avere contratto il virus perché ne manifesta i sintomi, cosa che impedisce la tracciabilità effettiva dell’evoluzione della malattia e ostacola la previsione degli scenari secondo un metodo predittivo soprattutto in questa fase del contagio.

La riorganizzazione ospedaliera dovrebbe prevedere la rigida separazione tra luoghi dove vengono ospedalizzati i casi di Covid-19 e tutto il rimanente dei pazienti, suddividendo lo spazio dedicato ai primi in tre aree, e consigliando il personale medico che risulta sintomatico di rimanere a casa.

Il personale che si occupa dei malati di Covid-19, in questo casi con ogni probabilità quelli che manifestando sintomi gravi avendo effettuato il test sono stati ospedalizzati, non dovrà avere contatti tendenzialmente con l’altro personale medico.

Si fa esplicito riferimento in caso di mancanza di organico all’assunzione di personale interinale o a quello andato in pensione, oltre alla canalizzazione di personale medico destinato all’emergenza.

Di fatto, è una ammissione di una carenza di risorse per fare fronte all’attuale emergenza.

Questo approccio non è frutto tanto di una “neutrale” razionalità probabilmente, ma della ben più realistica considerazione delle mancanze strutturali del sistema sanitario tedesco di fronte a questa emergenza, frutto di politiche bi-partisan che si vorrebbero rimuovere dall’attuale dibattito politico.

Se non testano le persone, non le si ricoverano e si prospetta l’assunzione di interinali e pensionati vuol dire che un modello sanitario derivato da particolare sistema economico è impreparato ad assecondare i bisogni curativi della propria popolazione.

E che questo succeda anche nel primo Paese della UE la dice lunga sul modello che la Germania ad imposto al resto dell’Unione Europea.

È in pieno svolgimento il dibattito sulle reali capacità del sistema sanitario tedesco di fare fronte all’emergenza.

Un articolo di Christian Geinitz sulla “Faz” dal titolo “Bis wann reichen die Krankenhausenbetten?” in sostanza “per quanto tempo avremmo letti d’ospedale a disposizione?” ci aiuta a fare il punto.

Secondo uno studio della “Deutsche Bank Research”: «il 14 maggio la Germania non avrà più letti nelle unità di terapia intensiva e nessun letto d’ospedale ad inizio di giugno».

In Germania ci sono quasi mezzo milioni di posti letto complessivi in quasi 2 mila ospedali – 497.000 su 1942 per la precisione – e circa 80% è occupato. Su 1942 cliniche, 1160 hanno letti di terapia intensiva, cioè circa il 60%.

Il 79% di questi dei 28.000 posti letto esistenti è occupato, cioè i posti letto usufruibili in terapia intensiva per questa emergenza sarebbero solo 5.600 circa.

Alla luce di questo dato le disposizioni citate precedentemente rivelano tutto il loro significato.

La Gran Bretagna che ha un sistema sanitario nazionale, ha un quinto degli abitanti in meno, poco più di 100 mila posti letto di cui 4 mila dedicati alla terapia intensiva, con un tasso d’occupazione del 92% – cioè è saturo praticamente – e ¾ di quelli della terapia intensiva, cioè circa 1.000 posti disponibili in terapia intensiva per questa emergenza.

È sintomatico di come uno studio dell’altr’anno del Bertelsmann Stiftung, che ha suscitato entusiasmo (!) affermava che il numero degli ospedali avrebbe potuto essere più che dimezzato migliorando la qualità delle cure e del personale.

Questo approccio è stato criticato da la DKG che ribadisce come per due decenni gli Stati Federali non abbiano destinato fondi stati per un miglioramento del servizio.

L’Associazione delle municipalità tedesche ha criticato i criteri di pianificazione con un approccio legato solo all’efficienza economica come mostra l’attuale emergenza.

Susanne Johna del sindacato dei medici “Marburg Bund”, ha giustamente affermato che “le cure just-in-time non funzionano”.

Anche la Germania si prepara ad uno stress test non da poco per il suo sistema sanitario minato da una politica non dissimile a quella perpetrata in altri Paesi dove ha imperato il neo-liberalismo. Allo stesso tempo sarà costretta a fare i conti con misure tardive ed insufficienti del contenimento del contagio, ma come altri Stati più propensa a salvaguardare la logica del profitto. Per un sistema economico in crisi ed un ceto politico in piene convulsioni, la pandemia potrebbe essere un acceleratore del tramonto dell’ex Paese guida della UE ed un vettore della critica del “modello tedesco” da parte dei suoi stessi cittadini.

 

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