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E se dovessimo decidere a chi dare un ventilatore? I dubbi di un medico

Boston. Non ero sicura di cosa dire. Eravamo nel bel mezzo di una delle varie telefonate di aggiornamento alle famiglie, che sono divenute la nostra nuova realtà nella nostra unità di terapia intensiva che non ammette visite   dall’esterno, quando lui fece una pausa. Aveva una domanda. ‘Qualsiasi cosa’, gli dissi. Parlava con esitazione. Sua moglie era assistita da un ventilatore negli ultimi giorni, e sapeva che non ce n’erano molti. Voleva solo essere sicuro di una cosa: stavamo pianificando di toglierle il ventilatore?

Mi ritrovai improvvisamente conscia della cacofonia della terapia intensive. Il tintinnio ritmico degli schermi che misurano le pulsazioni del cuore. Le notifiche dei ventilatori. Dall’altro capo della linea telefonica, lo sentivo respirare. Mi resi conto che non sapevo che aspetto avesse. Non lo avevo mai incontrato.

Lei non la conosce, continuò lui. Sì, il suo tumore è in fase avanzata. Ma prima di questa polmonite faceva delle conference call dalla sua stanza di ospedale. È intelligentissima. E anche molto simpatica. Avevamo dei piani insieme, mi disse. Luoghi che volevamo visitare.

Solo allora realizzai cosa stesse facendo il marito della mia paziente. Stava provando a dimostrarmi che valesse la pena salvare questa persona. E anche se potei rassicurarlo che nel mio ospedale avevamo abbastanza ventilatori, che stavamo facendo tutto quello che potevamo per sua moglie e che non ci saremmo fermati a meno che non fosse lui a prendere quella decisione, ero scossa. Perche’ ci saranno più conversazioni come questa. E un giorno la risposta potrebbe essere differente.

C’è molto che ancora non sappiamo riguardo al Covid-19. Ma sappiamo questo: le persone si ammalano rapidamente. I loro polmoni si riempiono di liquido e non funzionano più. I livelli di ossigeno crollano. I ventilatori spesso sono necessari per questi pazienti per sopravvivere e, tuttavia, se le nostre stime sono accurate e la produzione di ventilatori non verrà aumentata, non ne avremo abbastanza.

Mentre penso al futuro, ricordo i pomeriggi spesi lavorando alla clinica pre-trapianto del mio ospedale. La mia funzione era quella di una sorta di guardiano, esaminavo i pazienti e le loro cartelle cliniche per vedere se potessero continuare con la valutazione per un trapianto di polmoni. I nostri criteri erano chiari. E talvolta dovevo dire no.

I nomi sono ormai dimenticati, ma ricordo i loro visi. Una donna sulla sessantina che giocherellava con i tubi dell’ossigeno mentre mi confessava di essere completamente sola. Devo dirle che nessun sostegno sociale significa nessun trapianto. Un nonno che ammette di aver fumato di recente una sigaretta, il che significa che dovrà attendere altri sei mesi. Gli prenoto il prossimo appuntamento e spero che sarà vivo per allora.

In un certo senso, dunque, non mi è sconosciuto che cosa significhi allocare risorse scarse. Ma il trapianto è diverso. Siamo tutti tristemente a conoscenza della scarsità di organi trapiantabili e siamo consci di non poter aiutare tutti i pazienti che ne abbiano bisogno. Inoltre l’operazione di trapianto stessa pone un rischio tremendo, e ci sono fin troppi esempi dove un simile intervento farebbe più male che bene.

Forse quello a cui siamo di fronte adesso è più simile ad un altro momento piantato nella mia memoria: una notte all’unità di terapia intensiva. Due pazienti con un’insufficienza polmonare progressiva, un uomo e una donna, entrambi instabili nonostante il massimo supporto dal ventilatore, entrambi potenzialmente candidati per una macchina di bypass polmonare, l’ECMO, che potesse offrire ai loro polmoni più tempo per riprendersi. La maggior parte degli ospedali hanno poche di queste macchine e, quella notte, solo una è libera. A chi darla?

Riuniamo una squadra di dottori che hanno il compito di decidere. Mettono sul piatto della bilancia rischi e benefici per ciascun paziente. Come nel caso dei trapianti, abbiamo regole chiare per chi accedere ad una ECMO. Devi essere abbastanza malato per beneficiarne, ma non cosi’ malato – con altre comorbidità come un cancro metastatico o un’insufficienza di più organi – da far sì che sia probabile che tu muoia in ogni caso. Quella notte, i polmoni dell’uomo sono più deboli e il calcolo è che sia lui ad avere la macchina.

Mi aggrappo a questi ricordi perche’ sono bloccata nel cercare di capire come potrebbe essere per dottori come me doversi trovare di fronte alla realtà di una disponibilità limitata di ventilatori. Ma la verità è che niente nella mia esperienza potrebbe davvero prepararmi per questo. Mi rivolgo allora alla letteratura scientifica.

A seguito dell’Uragano Katrina, medici ed esperti di etica cominciarono ad avere discussioni simili e molti stati crearono delle linee guida su come allocare risorse scarse durante i disastri. Queste linee guida danno la priorità alla probabilità che un paziente sopravviva la dimissione dall’ospedale e oltre, e in alcuni casi tengono in considerazione dell’età – il che vuol dire che un paziente più giovane avrebbe più probabilità di ottenere un ventilatore rispetto ad uno più anziano.

Le linee guida suggeriscono anche di considerare di togliere il ventilatore ad un paziente che ha avuto un trattamento in terapia intensiva ma non sta migliorando, per renderlo disponibile per qualcun altro. In astratto, questi concetti hanno tutti senso per me. E suppongo che dovrei essere rassicurata dal fatto che, se questo momento dovesse accadere, ci saranno dei protocolli.

Ma poi penso a quando dovrò spiegare questo ad un paziente, o al telefono ad un suo caro che non incontrerò mai, e mi si spezza il cuore. Come medico di terapia intensiva, me la so cavare con le conversazioni in fin di vita e sono abituata alla morte. Ma ho imparato a iniziare queste conversazioni sulla base degli obbiettivi di un paziente e sulla realtà medica – non a causa della mancanza di macchine che possono essere costruite in un capannone. Di recente un collega mi ha raccontato di un paziente che gli ha detto che era pronto a cedere il suo ventilatore a qualcuno più giovane e sano, che potesse beneficiarne di più. Questo è il mondo in cui viviamo ora. A sentire questa storia mi si è stretto lo stomaco.

Ma a Boston non siamo ancora in questa situazione. Chiudo la telefonata e ritorno alla frenesia dell’unità, per controllare la mia paziente. La sepsi causata dalla sua polmonite, combinata allo stato immunitario compromesso dalla chemioterapia, minaccia di sopraffarla. Nonostante il ventilatore stia aiutando a guadagnare tempo, potrebbe non farcela.

Ma so che se morirà, sarò in grado di dire al marito che abbiamo fatto tutto quello che abbiamo potuto per salvarla. E sarò in grado di dirlo anche a me stessa.

Traduzione a cura di Redazione Contropiano da: www.nytimes.com

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