Martedì 7 aprile il Primo Ministro giapponese ha proclamato lo “stato d’emergenza” in 7 prefetture del Paese.
I contagi erano quel giorno 3.906, il doppio della settimana precedente, meno di 100 i decessi.
Il provvedimento riguarderà la regione di Tokio, finora la più colpita, Kanagawa, Saitama, Chiba, Osaka, Hyogo e Fukuika.
Tale misura durerà un mese e potrebbe essere rinnovata, così come come potrebbe essere estesa ad altre regioni.
Riguarda circa metà degli abitanti dell’arcipelago: poco più di 56 milioni di abitanti su una popolazione di 127 milioni.
I prefetti potranno imporre la chiusura delle attività non essenziali, ma il governo non lo può fare direttamente, così come non può predisporre provvedimenti punitivi per chi non resta a casa, visto che l’indicazione è su base volontaria.
Ha deciso, tra l’altro, di mantenere aperti i trasporti pubblici.
Nonostante la promulgazione dello “Stato d’Emergenza”, Abe ha reiterato il suo ottimismo affermando: «anche con la dichiarazione dello Stato d’Emergenza, l’opinione degli esperti è quella che non abbiamo bisogno di chiudere le nostre città come hanno fatto altrove».
Ma l’ottimismo di Abe, secondo cui «l’espansione delle infezioni può tramutarsi in un declino in due settimane», collide con il realismo di alcuni esperti.
È il parere del direttore dell’Institute for Population Health del King’s College di Londra, Kenji Shibuya, che ha espressamente dichiarato che i numeri sui contagi ufficiali non sono che: «la punta di un iceberg».
L’epidemiologo dell’università di Hokkaido Hiroshi Mishiura ha affermato una settimana fa al quotidiano Nikkei: «è probabile che Tokio sia entrata in un periodo di crescita esplosiva ed esponenziale».
E la stessa preoccupazione era già stata espressa già due settimane fa dalla governatrice della più grande città del mondo, Yuriko Koike, minacciando il lockdown.
Oltre a questo sono state annunciate misure di sostegno all’economia, per una cifra pari al 7% del PIL giapponese. «Come governo il nostro compito è quello di minimizzare l’impatto sull’economia e la società».
Finora la strategia del contenimento del Covid-19 del Paese del Sol Levante è stata peculiare rispetto a quelle adottate dagli altri Paesi asiatici. Il Giappone ha deciso a fine febbraio di chiudere le scuole fino a fine Aprile; il premier aveva poi ipotizzato una loro riapertura, ma non sono state prese altre misure significative.
Si è limitato a “sconsigliare” l’assembramento in luoghi chiusi e sovraffollati – i cosiddetti “3 CS” – e a caldeggiare lo “smart working”, anche se una inchiesta ministeriale ha rivelato che solo 1 lavoratore su 8 è rimasto a lavorare da casa.
Come ha dichiarato Masahiro Kami – capo del Medical Governance Research Institute – «il Giappone non ha effettuato test», com’è stato invece caldamente consigliato dai vertici dell’Organizzazione Mondiale della Sanità.
Abe vuole iniziare a fare 20 mila test al giorno, anche se finora non è nemmeno riuscito a fare la metà dei 7.500 giornalieri di cui sarebbe stato capace, come riporta un inchiesta del “New York Times”.
Il Giappone, come riporta il Financial Times”, ha effettuato solo 45 mila test, contro il mezzo milione della Corea del Sud.
Si ha l’impressione che il governo abbia voluto minimizzare il numero dei contagiati per due ordini di motivi.
Una ragione, iniziale, è attribuibile al tentativo di far sì che le Olimpiadi 2020 – che avrebbero dovuto tenersi in Giappone a fine luglio – non fossero rinviate, come invece poi è accaduto.
Per una economia stagnante da trent’anni ed una recessione tecnica alle porte (se fosse negativo anche il valore del primo quadrimestre di quest’anno), le Olimpiadi sarebbero state una buona àncora di salvezza per la declinante leadership di Abe, che ha miseramente fallito il promesso rilancio dell’economia, dal suo insediamento nel 2013.
I giochi olimpici, per ora posticipati al prossimo anno, con una decisione assunta congiuntamente dal Giappone e dal Comitato Organizzatore, sarebbero stati l’avvenimento sportivo più sponsorizzato della storia (fino adesso più di tre miliardi di dollari raccolti dagli sponsor) ed un notevole volano per l’industria turistica nipponica – l’unica che ha conosciuto un vero boom negli ultimi 10 anni.
I turisti nel Paese sono cresciuti dai poco da più di 5 milioni nel 2011 ai più di 30 già nel 2018, aumentando anche l’anno scorso; era previsto che quest’anno ci sarebbe stato un ulteriore risultato positivo, con due milioni di arrivi in più rispetto al 2019.
Il solo Stadio Olimpico, da poco inaugurato, è costato 1 miliardo e 400 milioni dollari…
Le ottimistiche previsioni sull’aumento del giro economico, per la sola città di Tokio, si aggiravano intorno ai 300 miliardi di dollari, spalmati sul periodo dal 2013 al 2030.
Così come i giochi olimpici del 1964 erano stati concepiti per mostrare come il Giappone fosse uscito dal secondo conflitto mondiale e si fosse ripreso, questa competizione avrebbe dovuto lasciarsi alle spalle il terremoto del Tohoku del 2011 e le sue tragiche conseguenze proiettando una immagine vincente del Sol Levante nel Mondo.
L’altra ragione è la probabile inadeguatezza del sistema sanitario giapponese nel fare fronte all’emergenza sanitaria.
Un quarto della popolazione giapponese ha più di 65 anni e vive prevalentemente nelle zone lontane dai centri urbani.
Secondo quanto riporta la Società Giapponese dei Medici delle Unità di Cura Intensive, il Giappone ha solo 5 letti in terapia intensiva per 100 mila abitanti, contro i 30 della Germania ed i 12 dell’Italia.
A parte questo, non ha in generale un numero sufficiente di posti letto. Abe, con l’annuncio dello “Stato d’Emergenza”, ha dichiarato che saranno disponibili per i pazienti positivi con sintomi “non gravi” 10mila posti letto in hotel a Tokio, 3mila a Kansai e 800 nell’edificio olimpico.
Il Giappone – terza economia del mondo – affronta lo stress pandemico in maniera assolutamente inadeguata, mentre il suo sistema economico ha dimostrato la sua estrema dipendenza dalla Cina, quando la sua economia è stata “fermata” nei mesi precedenti. Il 21,1% dei suoi beni intermedi proviene dalla Repubblica Popolare, rendendolo il più esposto dei Paesi del G7.
Una dipendenza che è aumentata negli anni considerato che l’anno scorso il 37% delle parti auto che assemblava “in casa” proveniva dalla Cina, contro il 18% del 2005. Con la catena di approvvigionamento “interrotta” l’industria automobilistica giapponese ha sofferto non poco.
Le sue aspettative di leadership all’interno del Trans-Pacific Partnership (TPP), di cui dovrebbe essere alla presidenza il prossimo anno, e la sua politica di riarmo rischiano di essere profondamente minate. Ne uscirebbe molto sminuito il suo possibile ruolo di protagonista politico internazionale di peso, lasciandolo probabilmente nell’ombra in cui era confinato fin dalla “crisi asiatica” della fine Anni Novanta.
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