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Il Libano di nuovo al punto di rottura

Sale di nuovo la tensione in Libano. Dopo la parentesi piuttosto breve determinata dal lockdown imposto per far fronte all’emergenza coronavirus, tutto sommato ben arginata rispetto all’ecatombe prevedibile, con soli 26 morti su 796 casi confermati dalle statistiche ufficiali, tornano a venire al pettine i nodi economici, più temuti dell’epidemia da fasce crescenti di popolazione.

I problemi strutturali sono noti: la bilancia commerciale in squilibrio clamoroso (nel Libano non si produce praticamente nulla), l’ipertrofia e la furfanteria del sistema bancario.

Tali problemi sono stati accentuati da una congiuntura internazionale ostile (guerra in Siria e sanzioni ad Hezbollah, oltre alla crisi generale), i quali hanno travolto i fragili equilibri stabiliti dal sistema assistenziale basato sul confessionalismo religioso, che per qualche decennio aveva garantito la sopravvivenza della popolazione.

Da diversi mesi, infatti, sono in corso una fuga di capitali, una svalutazione della lira libanese e una scarsità di dollari (di fatto moneta corrente accanto alla lira) che non si erano mai viste dalla fine della guerra civile.

Il sistema bancario è, finalmente, finito sul banco degli imputati come principale responsabile della situazione. Subito dopo l’allentamento delle misure di lockdown, le varie sedi e gli atm sono finiti nel mirino di manifestanti inferociti, cui scarseggiano i generi di prima necessità: una vittima si è registrata a Tripoli a causa dell’intervento dell’esercito.

Nel mentre, il governo presieduto da Hassan Diab, composto in maggior parte da “tecnici”, ma appoggiato in Parlamento, per la prima volta, dalla sola coalizione a guida Hezbollah, con l’opposizione della coalizione filo saudita e filo occidentale, si è finalmente mosso.

Il Primo Ministro ha annunciato la richiesta di linee di credito al Fondo Monetario Internazionale sulla base di un piano articolato che prevede, in pratica, una maxi-patrimoniale di 70 miliardi di dollari sulle banche e sui grandi depositi, nonché la costruzione di un “esteso sistema di sicurezza sociale e sostegno al reddito” per i poveri, che sarebbe statale e andrebbe a superare l’assistenzialismo di marca settaria.

In particolare, per le banche, provate dalla scarsità di dollari e dalla fuga di capitali, di cui, però, i banchieri stessi sono accusati di essere complici e responsabili, si prospetta un meccanismo di bail-in, ovvero di “salvataggio interno” per coprirne gli ammanchi, rifacendosi sui dividendi elargiti agli azionisti e sui grandi depositi; inoltre, le banche dovranno accettare una ristrutturazione del loro credito verso lo stato e la Banca Centrale.

Apparentemente, la soluzione prospettata è totalmente contraddittoria, in quanto si tratta di chiedere l’assistenza finanziaria del Fondo Monetario Internazionale sulla base di un programma in parte distante rispetto alle condizionali solitamente formulate da quest’ultimo; tuttavia, nei documenti elaborati dall’esecutivo libanese, gli obiettivi di bilancio raggiunti tramite l’implementazione in 5 anni del piano presentato sarebbero pienamente coerenti con le richieste internazionali insistentemente presentate al paese in termini di aumento del saldo primario, diminuzione del debito pubblico, diminuzione del rapporto deficit/PIL, ecc.

Probabilmente, il Primo Ministro e gli altri tecnocrati del governo di Beirut vedono nel FMI uno strumento per bypassare in un primo momento, e facilitare in seguito, l’arrivo di aiuti diretti da parte dei creditori internazionali tradizionali (Francia, USA, Arabia Saudita), i quali attualmente stringono i cordoni della borsa a causa dell’appoggio unilaterale dato al governo dalla coalizione a guida Hezbollah.

In tal senso, c’è da dire che gli esecutivi precedenti, frutto dell’equilibrio precario fra le due coalizioni, si guardavano bene dal chiedere prestiti al FMI, per timore che quest’ultimo andasse a scartabellare nelle pieghe del sistema assistenziale facente capo ai vari capi bastone politico-religiosi, sanzionandone gli immensi sprechi; prassi storica consolidata era rivolgersi direttamente agli “sponsor” internazionali, garantendo, in cambio di prestiti e sostegno politico-militare, i loro interessi sullo scenario mediorientale.

Ovviamente, le banche sono contrarie al piano governativo e hanno promesso fuoco e fiamme, denunciando che esso diminuirà ulteriormente la fiducia degli investitori nel sistema finanziario libanese, non otterrà, pertanto, prestiti dal FMI e porterà ad una nazionalizzazione di fatto del sistema bancario (cosa palesemente falsa, per altro, poiché il bail-in proposto è un salvataggio interno, l’esatto contrario del bail-out, salvataggio esterno per mano dello stato).

Hezbollah, pilastro fondamentale della maggiorranza che ha dato vita a questo governo, inizialmente si è detto contrario a qualsiasi richiesta di aiuto al FMI in quanto si tratta di un’istituzione di segno imperialista; tuttavia, messo con le spalle al muro dai tecnocrati in quanto privo di proposte alternative, il movimento di resistenza è stato costretto, per il momento, ad abbassare il muro, accettando, ancora una volta, di pagare un prezzo politico all’esigenza di mantenere la stabilità interna per potersi concentrare sulla propria funzione anti-sionista e anti-imperialista.

Tuttavia, tale contraddizione getta già ora un’incognita sul percorso parlamentare del piano Diab. In ogni caso, il punto di rottura fra le due anime del governo libanese è già dietro l’angolo: nel caso in cui il FMI accettasse di fare l’istruttoria sulle finanze del Libano per formulare controproposte per permettere l’accesso al credito, è molto probabile che le sue teste d’uovo, opportunamente imbeccate, vogliano andare a colpire l’immensa struttura militare, mediatica e assistenziale di Hezbollah che, a qual punto, alzerebbe sicuramente un muro invalicabile.

Se il Partito di Dio è attanagliato in tali contraddizioni, chi pare agonizzare in questa fase sono i partiti di opposizione dell’Alleanza 14 marzo, per la prima volta privi di qualsiasi funzione politica sostanziale: essendo fuori dal governo, infatti, hanno perso parte del potere e risultano molto meno utili ai loro sponsor internazionali (Francia, Arabia Saudita, USA), quindi sono a rischio costante di liquidazione da parte di questi ultimi.

Inoltre, hanno perso il consenso e il controllo della loro base sociale e delle loro roccaforti storiche, all’interno delle quali risiede l’epicentro delle proteste popolari, le quali, pur nell’indeterminatezza degli obiettivi politici generali, stanno riprendendo con rinnovato vigore e slancio socio-culturale, mettendo al centro del mirino il bersaglio giusto, ovvero le banche.

Il Libano, in conclusione, anche per la sua debolezza strutturale, continua ad essere un laboratorio politico nell’ambito del Medio-Oriente, costantemente al centro di spinte opposte.

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