Governare un mercato competitivo al suo interno, senza “arbitri” credibili e tanto meno legittimati democraticamente, è difficile. Ma la scommessa originaria dell’Unione Europea, dalla caduta del Muro in poi, era proprio questa.
L’unico avversario da battere erano i lavoratori, i loro movimenti, associazioni e partiti. I loro salari e i loro diritti, in definitiva, qualsiasi fosse il Paese di nascita. La deflazione salariale è stata l’architrave del mercantilismo export oriented ad egemonia teutonica…
E’ andata bene per quasi 30 anni, con irrobustimenti successivi delle sbarre della gabbia, tra politiche di austerità e iniezioni di liquidità per il sistema finanziario. Poi si è rotto l’equilibrio, la competizione interna fra capitali e Paesi si è fatto evidente e più difficile da gestire. Anche se i lavoratori rimanevano sotto il tallone di ferro.
La pandemia ha sconquassato un equilibrio già fragile. La prima reazione dell’establishment europeo è stato il solito: chi ha risorse le può spendere, chi ha troppo debito dovrà passare sotto le forche caudine.
Non poteva reggere e non ha retto. Da un lato i paesi mediterranei reclamavano “solidarietà concreta”, trascinando apparentemente anche la Francia di Macron sul fronte anti-austerity (del resto da oltre un anno il pupazzo parigino dei banchieri ha forti problemi a far passare le “riforme strutturali” in casa, tra gilet gialli e sindacati redivivi).
Dall’altra la “Germania profonda” piazzava il suo colpo con la sentenza della Corte Suprema contro la Bce, mettendone in discussione sia l’indipendenza dal potere politico che le scelte monetarie.
Passare dal massimo di comando possibile a ognun per sé è un attimo, in una crisi di queste dimensioni. Quindi l’”asse franco-tedesco” prova a ricompattarsi proponendo l’unica strategia possibile in alternativa all’immobilismo “austero” e alla dissoluzione nazionalistica: riformare alcuni trattati e mettere in campo strumenti finanziari nuovi per sostenere una “ripresa” altrimenti impossibile con le sole forze del “mercato”.
Angela Merkel ed Emmanuel Macron si sono però sentiti per chiarire i termini su cui tutti i Paesi membri e la stessa Commissione saranno chiamati nei prossimi mesi a misurarsi, mettendo sul tavolo l’osso che la muta dei cani affamati attendeva: il Recovery Fund (o come si chiamerà) per dotare l’Unione europea di un fondo da 500 miliardi di euro per il rilancio dell’economia dopo la pandemia.
La parte più interessante – e che dà la misura del rischio implosione della Ue, in caso negativo – sta nel fatto che questi 500 miliardi sarebbero di trasferimenti, e non di prestiti. In parte a fondo perduto, dunque, ma dal bilancio dell’Unione Europea e sotto stretto controllo della Commissione quanto all’utilizzo.
Rispetto alle necessità di un “piano Marshall” europeo per innescare una “ricostruzione” post-pandemia è una cifra del tutto ridicola. La sola Germania, per le proprie necessità, ha deciso di mobilitare circa 1.000 miliardi…
Ma nella sua stitichezza rappresenta l’ammissione in linea teorica della necessità di “condividere” un impegno finanziario secondo criteri diversi dalla rigida “proporzionalità” (ad ogni Stato secondo la sua quota di contributo).
I soldi verranno reperiti mediante il solito indebitamento sul mercato, ma in forma e con garanzia comunitaria (non proprio un “corona-bond”, ma potrebbe essere spacciato per tale). La novità sta – secondo la proposta dei due boss europei – nel fatto che il rimborso di quel debito sarà a carico di tutta la Ue, non degli Stati che beneficeranno.
In pratica, se uno Stato otterrà 50 miliardi non dovrà restituire quella somma, ma la quota “normale” con cui contribuisce alle spese europee.
“La chiave di ripartizione resta quella del bilancio Ue“, ha chiarito Merkel, ma le risorse – come detto – saranno invece distribuite in proporzione ai danni subiti dai Paesi.”
Quei 500 miliardi, insomma, dovrebbero andare prima di tutto a supportare i Paesi in maggiore difficoltà, e l’Italia è stata espressamente citata: “Se faccio l’esempio del turismo in Italia credo di non sbagliare perché risponde ai criteri del Paese e del settore“, ha fatto notare Macron.
Il gioco delle trattative continentali parte da questo nuovo punto, ossia da una moderatissima “assunzione di responsabilità” collettiva, la minore possibile, nei confronti di tutti i Paesi.
E’ prima di tutto la conferma di una primazia continentale dei due proponenti. Come ha sottolineato Macron «Non è un accordo dei 27 paesi dell’Unione europea, è un accordo franco-tedesco. Ma non c’è accordo fra i 27 se prima non c’è un accordo franco-tedesco». E gli altri devono farselo piacere…
Anche se, per conservare le forme e la diplomazia istituzionale, aggiunge che «Ora è la Commissione europea che deve presentare la sua proposta. Dovrà costruire un’unanimità attorno a questo accordo. C’è ancora del lavoro da fare, ma è un passo avanti senza precedenti».
La base è questa, ed eventuali margini di ritocco (al rialzo, come spera il governo Conte) dipendono solo dalla possibilità che la crisi si aggravi con una “seconda ondata”, non dalla buona volontà del “duo”.
Una reazione alla crisi nel segno dell’assoluta continuità, insomma, pur nella consapevolezza che “qualcosa di più” di quanto scritto nei trattati va fatto, altrimenti la Ue va in pezzi (l’eventualità di un Italexit per necessità, non per scelta, ma dagli effetti egualmente disastrosi, è stata apertamente citata da Manfred Weber, presidente del gruppo parlamentare del Partito Popolare Europeo, e naturalmente tedesco).
Sulla stessa lunghezza d’onda comincia a muoversi, non per caso, anche Christine Lagarde, presidente della Bce, che indica la necessità di riscrivere il Fiscal Compact e tutti i trattati che concorrono a definire il “Patto di stabilità”. Ossia l’asse ordinamentale su cui debbono conformarsi i governi di tutti i Paesi nel definire ogni anno la propria “legge di stabilità” (l’ex “legge finanziaria”). In altri termini come si reperiscono i fondi statali e come si spendono; il baricentro dell’”autonomia politica” o del suo opposto.
“Penso – dice Lagarde – che questa crisi sia una buona occasione di modernizzare le modalità del Patto di stabilità e di crescita, oggi sospeso. In passato sono state fatte delle proposte innovative, in particolare da parte dell’Fmi, che sarebbe utile riesaminare. Ne va misurata la pertinenza e l’efficacia. Credo che i termini del Patto di stabilità e di crescita debbano essere rivisti e semplificati prima che si pensi a reintrodurlo, quando saremo usciti da questa crisi“.
Ricorda che gli scenari della Bce vanno da una recessione del 5% a una del 12% nell’area euro per quest’anno, con un’ipotesi centrale dell’8%. “Rivedremo le proiezioni il 4 giugno, ma ci aspettiamo nello scenario più grave una caduta del prodotto interno lordo del 15% solo per il secondo trimestre“.
Con crolli di questa entità il “ritorno alla normalità” potrebbe richiedere parecchi anni – le variazioni del Pil sono da tempo nell’ordine di percentuali minime, tanto da far parlare di “stagnazione secolare” – e dunque nessuno (tranne la Corte Suprema di Karlsruhe, forse) può davvero pensare si andare avanti business as usual.
Comincia insomma, sul piano politico, una stagione molto melmosa. Quella in cui l’Unione Europea aprirà al discorso pubblico sulla sua “riforma”, ma solo per ripristinare il prima possibile i vecchi equilibri. Possibilmente rafforzandoli…
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