Quando il dito indica la luna, gli idioti guardano il dito. E’ l’impressione che si ha guardando come i media italiani hanno letto le anticipazioni dell’intervista data da Angela Merkel alla Suddeutsche Zeitung.
Un intervento in punta di piedi, molto cauto com’è nello stile della cancelliera tedesca, ma che mette in fila i capisaldi della partita economica e geopolitica che si gioca con l’affrontamento della crisi innescata dalla pandemia.
I nostri “opinionisti” un tanto al chilo, invece, hanno messo in grande evidenza soltanto la frase riferita al Mes (“Non abbiamo messo a disposizione degli Stati strumenti come il Mes o Sure perché restino inutilizzati“) perché questo permette di ridurre un discorso complesso a politichetta italica.
Nel governo è infatti evidente la spaccatura tra favorevoli al ricorso al Mes (Pd e renziani) ed “esitanti”, se non proprio contrari (i grillini, ovviamente), mentre la destra finge di essere molto contraria. E persino il cedevolissimo Giuseppe Conte è stato costretto a ribadire l’ovvio: “Io rispetto la Merkel, ma a far di conto per l’Italia ci sono Gualtieri, i tecnici” del Mef “e i ministri.
Questo mismatch la dice lunga sulla “qualità” dell’informazione mainstream, e dunque sulla capacità della classe dirigente di affrontare la situazione almeno con le idee chiare (le intenzioni sono ovviamente e come sempre pessime).
Le preoccupazioni della Merkel sono esternate con molta chiarezza, a partire dal ruolo profondamente negativo giocato dagli Stati Uniti di Trump, in questa fase. “Siamo cresciuti nella certezza che gli Stati Uniti vogliono essere una potenza mondiale. Se gli Stati Uniti abbandonassero ora il loro ruolo di arbitro, dovremmo ripensare tutto dalle fondamenta“.
Nella competizione globale, è evidente che Cina e Usa stiano contendendosi la leadership mondiale, con due economie che viaggiano sul binari molto differenti (per logica strutturale e risultati concreti). E questo scontro – fatto di progetti, contratti, relazioni, ricatti, sgambetti, ecc – attraversa una Unione Europea che non è ancora riuscita a costruirsi la dotazione necessaria a “competere” alla pari.
Le risorse industriali e finanziarie ci sono, ma il know how nelle nuove tecnologie zoppica parecchio; l’unità di comando sulle politiche di bilancio nazionali è ferreo (Fiscal Compact, Six Pack, Two Pack, ecc), ma una politica finanziaria e fiscale comuni sono di là dall’essere immaginate; le linee di comando sono farraginose e riflettono le differenze di interessi, immediati e di lungo periodo, dei singoli Paesi; il potenziale militare è rimasto quasi integralmente solo nazionale, anche se la spesa relativa va aumentando anche a dispetto della crisi.
Su queste debolezze e differenze gioca pesantemente Trump. Che per esempio minaccia/promette di spostare gran parte delle truppe Usa dalla Germania alla Polonia. Questo è stato per esempio il tema principale della visita del presidente ultrazionalista Duda a Washington, tre giorni fa. E domani si vota proprio in Polonia, in un clima di sbornia nazionalistica che non permette sonni tranquilli a chi si preoccupa della “tenuta europea” di fronte alla crisi.
Anche lo scandalo del fallimento di Wirecard, grande società finanziaria protetta per anni da tutte le istituzioni di controllo – sia tedesche che europee, sia pubbliche che private – nonostante le pratiche “in stile Parmalat” dei suoi massimi dirigenti fossero da anni segnalate in diverse inchieste del Financial Times.
Per capirci: la Bafin, cioè la Consob tedesca, l’Esma (supervisore Ue dei mercati finanziari), e la società di revisione Ernst & Young “non hanno visto nulla” per anni. Anzi la prima aveva addirittura denunciato il FT assicurando che lue rivelazioni erano “false”.
Uno scandalo, insomma, che straccia la credibilità “virtuosa” di chi, da sempre, si erge a moralizzatore degli altri Paesi prendendo di mira solo il parametro del debito pubblico.
La solidità della costruzione europea, dunque, tra spinte centrifughe stimolate da Trump e problemi di tenuta moltiplicati sia dalla crisi che dalle nostalgie “austere” (rappresentate dalla Corte Suprema tedesca, dal presidente di Bundesbank Weidmann e solo in ultimo dai paesi sedicenti “frugali”), scricchiola in modo evidente.
Merkel lo vede più di noi e prova a ricordare quanto gli interessi comuni dovrebbero essere prevalenti su quelli nazionali. Interessi, non ideali, sia chiaro.
Ed è in nome degli interessi che la Germania ha aperto un piccolo varco alla “condivisione del debito”, prima vista come il fumo negli occhi. “In una crisi come questa ci si aspetta che tutti facciano ciò che è necessario. Il necessario è, in questo caso, qualcosa di straordinario“.
Fino ad ammettere che “La sfida speciale richiede un approccio speciale. Per i paesi che hanno già un livello di debito totale molto elevato, i prestiti aggiuntivi hanno meno senso delle sovvenzioni“. Tema su cui sta lavorando “per convincere quei paesi che finora hanno accettato i prestiti ma hanno rifiutato le sovvenzioni“.
Il criterio del realismo la porta a dire che, visti i diversi gradi in cui la pandemia ha colpito i Paesi, la distribuzione dei fondi deve “seguire una chiave diversa da quella di un normale bilancio europeo“.
Non è un cambiamento di rotta radicale, naturalmente, ma il semplice riconoscimento che l’atteggiamento “normale” – quello di Jens Weidmann o dei “frugali”, per capirci – nei fatti non può funzionare e farebbe esplodere un’architettura europea ancora fragile.
“Un tasso di disoccupazione molto alto in un paese può sviluppare un’esplosività politica. Le minacce alla democrazia sarebbero allora maggiori“, dice. “Perché l’Europa sopravviva, anche la sua economia deve sopravvivere”. E per “economia”, in questo caso, bisogna intendere anche “coesione sociale”, diseguaglianze e squilibri che siano in qualche misura “tollerabili”.
Parlando ai suoi connazionali, dunque, ha ricordato che la Germania ha un basso rapporto debito/PIL e potrebbe “permettersi un debito più elevato in questa situazione eccezionale“. La pandemia infatti imporrebbe un enorme fardello a Paesi come l’Italia e la Spagna – dal punto di vista economico, sanitario e, a causa dei molti morti, emotivamente. “È quindi imperativo che la Germania non pensi solo a se stessa, ma sia preparata a un atto straordinario di solidarietà“.
«È nell’interesse tedesco avere un forte mercato interno e che l’Unione europea cresca insieme e non si sfaldi». Insomma, che «ciò che è buono per l’Europa, era ed è buono anche per noi»
Tutto questo serve a spiegare il perché del tormentato “sì” al Fondo per la ricostruzione (recovery fund): «il Fondo per la ricostruzione non potrà risolvere tutti i problemi dell’Europa, Non averlo, però, aggraverebbe tutti i problemi”
L’obbiettivo strategico, per quanto traballante, non cambia.“È nell’interesse stesso di tutti gli Stati membri mantenere un mercato interno europeo forte e presentare un fronte unito nel mondo”. Interesse, non ideali, sia chiaro…
E’ un discorso degno di un capo di Stato che vorrebbe guidare un continente compatto sotto la propria direzione – dal 1 luglio, ricordiamo, scatta il semestre a “guida tedesca” – ma vede benissimo quante, e quanto profonde siano, le rime di frattura in una costruzione che tutto è meno che marmorea.
Un discorso da “competitore globale”, con ambizioni enormi e fragilità costitutive irrisolvibili nel breve periodo. Diventa chiaro con quel trumpiano “Insieme. Rendiamo di nuovo forte l’Europa” (make Europe great again!), perché la Germania – da sola – non ce la può fare a “competere” davvero. Le servono servitori stupidi…
E certo, la qualità infima dei partner (certificata come esempio dalla stampa mainstream italica) non l’aiuta a “trovare la quadra”.
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