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Indonesia. 55 anni fa lo sterminio dei comunisti

Negli anni ’60, l’Indonesia di Sukarno, dopo essere stato uno dei paesi organizzatori della conferenza di Bandung insieme agli altri cosiddetti “non allineati”, si avvicinava al blocco socialista. Questo perché il Partito Comunista Indonesiano (PKI), forte di milioni di aderenti e sostenitori, dopo esser stato protagonista della lotta per l’indipendenza del paese, rappresentava uno dei pilastri della Repubblica d’Indonesia, con circa il 16% dei voti ottenuti nelle elezioni parlamentari del 1955.

Il Partito Nazionale Indonesiano (PNI) e il PKI erano capaci di governare il rapporto di forza contro le fazioni reazionarie (l’islam politico e una gran parte dell’esercito) e di affrancarsi sempre di più dalle forze imperialiste occidentali. Queste ultime subivano pesanti sconfitte nella regione, in particolare in Vietnam dove l’esercito statunitense, in grande difficoltà, non si faceva scrupolo di bombare con il napalm intere aree.

Fin dal 1963, preoccupati per la crescente forza del PKI e per l’avvicinamento dell’Indonesia al campo socialista, gli Stati Uniti iniziarono a stilare liste di proscrizione contro i comunisti indonesiani attraverso la loro ambasciata a Giacarta.

Nella notte del 30 settembre 1965, un piccolo gruppo di ufficiali dell’esercito, guidati dal colonnello della Guardia Presidenziale, tento un colpo di Stato per contrastare un altro golpe ordito da un comitato di alti generali. Sei generali dell’alto comando vennero giustiziati ma l’operazione non andò a buon fine. I ranghi e i leader reazionari dell’esercito, guidati dal comandante Suharto e appoggiati dalle forze della destra, si vendicarono brutalmente.

La giunta militare prese il controllo dei media per diffondere la propria versione dei fatti: l’uccisione dei generali aveva acceso la rabbia popolare contro il potere del PKI, manifestazioni sostenute e protette dall’esercito. Quest’ultimo approfittò della manipolazione della propaganda di Stato per lanciare una violenta campagna anti-comunista; il 5 ottobre cominciò a Giacarta la “caccia al comunista” ed in pochi giorni migliaia di comunisti furono massacrati e torturati nelle strade e nelle piazze.

A nulla servì la presa di posizione del Comitato centrale del PKI, nella quale si riaffermava il sostegno al Presidente Sukarno e si riconosceva che il “movimento 30 settembre” era stato un affare interno dell’esercito, con ufficiali vicini al PKI che volevano rimuovere i leader della destra nazionalista e non prendere il potere.

Il massacro dei comunisti indonesiani fu sistematico ed organizzato nei dettagli: forze della destra, ufficiali dell’esercito e organizzazioni religiose cooperarono in quello che è stato un vero e proprio sterminio. Le uccisioni di massa, attuate con particolare ferocia e brutalità, non risparmiarono neanche donne, anziani e bambini. I cadaveri venivano gettati nei fiumi, che divennero torrenti di sangue e corpi in decomposizione.

Le liste di comunisti indonesiani, redatte dall’ambasciata statunitense, vennero trasmesse all’esercito. Gli Stati Uniti non solo sostenevano i massacri, ma ne erano pienamente complici, attraverso la fornitura di armi ed equipaggiamenti di comunicazione, oltre che di “aiuti finanziari”. Nel 1966 l’ambasciatore statunitense a Giacarta assicurò a Suharto che gli Stati Uniti vedevano di buon occhio e ammiravano ciò che l’esercito stava facendo. 

Anche Gran Bretagna e Olanda, ritenute da Sukarno potenze neocoloniali, diedero il loro sostegno allo sterminio dei comunisti. L’ambasciatore inglese, Andrew Gilchrist, scrisse al Ministero degli Affari esteri inglese che “non ho mai nascosto di ritenere che qualche plotone di esecuzione in Indonesia sarebbe un preliminare indispensabile a qualsiasi cambiamento reale”.

Suharto, che prese il potere nel 1967 fino al 1998, non fu mai processato per la violazione dei diritti umani e i crimini contro l’umanità commessi. La commissione d’inchiesta istituita a fine anni ’90 venne sospesa dalla Corte suprema, poiché diverse figure del regime di Suharto continuavano ad occupare grandi posizioni di potere. Al giorno d’oggi, le forze reazionarie e nazionaliste, religiose e militari, continuano a celebrare questo massacro, portando avanti campagne anti-comuniste.

Tra la fine del 1965 e i primi mesi del 1966, comunisti e ritenuti tali vennero sistematicamente eliminati, milioni di civili sospettati anche solo di essere simpatizzanti comunisti vennero arrestati, torturati, uccisi. Quelli che sopravvissero alla detenzione e che furono liberati restarono schedati come prigionieri politici, privati a vita dei loro diritti.

Uno sterminio poco conosciuto dall’opinione pubblica ed ancora oggi non riconosciuto dal governo indonesiano, né dagli Stati Uniti né dalle altre potenze occidentali; per questo motivo, il nostro dovere, in quanto comunisti, è quello della memoria storica e politica di questo massacro e della complicità assassina dei paesi imperialisti, al fianco di chi oggi come allora continua a lottare contro l’ingiustizia sociale, le ingerenze politiche e la repressione sindacale, costruendo organizzazione e sviluppando coscienza di classe.

Per chi volesse approfondire quanto accaduto in quei mesi tra il 1965 e il 1966, consigliamo soprattutto la lettura del libro “The Jakarta Method: Washington’s Anticommunist Crusade and the Mass Murder Program that Shaped Our World” di Vincent Bevins e la visione del documentario “The Act Of Killing” di Joshua Oppenheimer.

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1 Commento


  • Gianni Sartori

    si parva licet….

    WEST PAPUA: UNA NUOVA TIMOR EST PER JAKARTA?

    Gianni Sartori

    Con quei pantaloncini corti, il cappello ben calcato in testa, tenuto per mano – quasi amichevolmente – da due guerriglieri (armati), Phillip Mark Mehrtens ha l’aria di un ragazzino intimidito che si sta chiedendo “Ma cosa ci faccio qui?”. Finito, si presume inconsapevolmente, in una di quelle guerriglie a bassa intensità che travagliano, in genere senza far più notizia, aree del pianeta solitamente fuori dai riflettori.

    Inevitabile un raffronto con altre foto, quelle scattate nei primi anni trenta del secolo scorso da alcuni australiani, probabilmente i primi bianchi che entravano in contatto con le popolazioni degli altopiani della Nuova Guinea (nella parte orientale dell’isola, dove ora troviamo la Papua Nuova Guinea). Immagini di indigeni stupefatti, shoccati, qualcuno atterrito. Al punto che alcuni erano letteralmente scoppiati in un pianto dirotto. Forse incerti tra l’idea che provenissero dall’aldilà (nelle mitologie locali i morti sbiancavano) o fossero esseri “celesti”, divinità (vedi le foto nel libro di  Jared Diamond “Il mondo fino a ieri”).  Dovevano presto scoprire che non era così, ma che si trattava soltanto di altri esseri umani. Come confermarono le giovani indigene (sedotte, violentate, offerte in dono come captatio benevolentiae etc.) con cui gli “esploratori” avevano avuto rapporti sessuali. E soprattutto perché controllando nelle latrine, gli indigeni verificarono che – proprio come loro – anche i misteriosi visitatori andavano di corpo. E le feci – proprio come le loro – non profumavano.

    Ovviamente auspichiamo la sua prossima liberazione, ma per il momento il pilota neozelandese della compagnia aerea Susi Air rimane ostaggio del West Papua National Liberation Army (TPNPB, considerato il braccio armato del movimento indipendentista Free Papua Movement, Fpm). Era stato catturato l’8 febbraio con il suo aereo atterrato a Paro, nel distretto di Nduga, per prelevare una quindicina di addetti alla costruzione di un centro sanitario. O almeno ufficialmente, ma per gli indipendentisti si tratterebbe di una “intrusione coloniale sotto copertura umanitaria” per controllare il territorio. Altri componenti dell’equipaggio (o passeggeri, non è chiaro) erano stati  immediatamente liberati in quanto “nativi”, mentre il velivolo veniva dato alle fiamme.

    Il gruppo di indigeni papuasi responsabili dell’azione sarebbero guidati da un giovane militante, Egianus Kogoya (stando alle dichiarazioni del portavoce del TPNPB Sebby Sambom). Da parte delle forze dell’ordine di Jayapura (capoluogo della provincia ribelle), in una conferenza stampa, è stata espressa la volontà di giungere alla liberazione di Phillip Mark Mehrtens “coinvolgendo nelle trattative i leader comunitari, in particolare i capi tribali e alcuni religiosi”. Senza per questo “escludere altre opzioni” (ossia, si presume, un atto di forza.

    Mentre la parte orientale della Nuova Guinea è occupata dalla Papua Nuova Guinea (indipendente), il centro e la parte occidentale (rispettivamente provincia di Papua e della Papua occidentale) appartengono all’Indonesia.
    Grazie a un discusso (sia per legittimità che per correttezza) referendum risalente agli anni sessanta.

    Va ricordato che anche le proteste pacifiche dei nativi vengono regolarmente represse da Jakarta. Non per niente, quando nel novembre dell’anno scorso Amnesty International rivolgeva un appello ai capi di Stato (G20) riuniti a Bali per il rispetto dei diritti umani in Indonesia, aveva esplicitamente fatto riferimento alla Papua.
    Quasi contemporaneamente (sempre novembre 2022) a Jayapura (Papua) venivano arrestati una ventina di manifestanti che chiedevano un intervento del Consiglio dei diritti umani dell’Onu. E alcuni studenti solo per aver sventolato la bandiera indipendentista del Fmp.

    Con le loro proteste gli indigeni intendevano metter in discussione le rassicuranti dichiarazioni del ministro indonesiano della Giustizia, Yasonna Laoly. Dichiarazioni definite da A.I.  “contrarie alla situazione reale, segnalata anche dalla società civile indonesiana attraverso un rapporto alternativo”. Aggiungendo che “il governo ha riferito solo la situazione dal punto di vista dello sviluppo delle infrastrutture e del welfare, anche se la violenza continua”.
    Sempre nel 2022 (in marzo) anche l’Onu aveva condannato gli abusi commessi dal governo contro la popolazione indigena (comprese esecuzioni extragiudiziali, casi di desaparecidos, anche di ragazzi minorenni).
    L’ultima operazione eclatante, sia da parte indipendentista che governativa, risaliva al 17 novembre 2017 quando le forze speciali indonesiano liberarono oltre 300 ostaggi in mano agli indipendentisti del Free Papua Movement (Opm) nel villaggio di Tembagapura. Due le vittime, appartenenti al gruppo guerrigliero.

    Gianni Sartori

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