In un’intervista alla Pravda, di rientro da una missione nelle regioni meridionali, esattamente cento anni fa, Iosif Stalin forniva una lettura accurata della situazione nel Caucaso di quel tempo. Da allora, qualche attore è scomparso, anche se solo nominalmente; altri si sono alternati sulla scena; altri ancora sono rimasti gli stessi, pur cambiando completamente di ruolo.
Quella che non è cambiata, è l’importanza strategica, militare, logistica, energetica, della regione caucasica, in cui da alcuni secoli si scontrano gli interessi, imperiali o imperialistici, di determinati blocchi; le mire, oggi più che mai, per le rotte di gasdotti e oleodotti che scalzino le tratte energetiche di alcuni, a vantaggio di quelle di altri, l’hanno semmai accresciuta.
La questione del Nagorno-Karabakh è parte integrante del complicato quadro caucasico e l’ennesimo scontro armato tra Armenia e Azerbajdžan, che ora va avanti da quasi un mese, ne è tragica testimonianza.
Tra il 19 e il 20 ottobre si erano susseguite voci di possibili colloqui diretti, a Mosca, tra il presidente azero Il’kham Aliev e il primo ministro armeno Nikol Pašinjan, per cercare una soluzione “diplomatica”, dopo che l’incontro dei ministri degli esteri, mediato da Sergej Lavrov gli scorsi 9 e 10 ottobre, aveva prodotto un “cessate il fuoco umanitario” di pochissime ore.
Già mercoledì, però, si era punto e a capo: mentre il presidente armeno, Armen Sarkisjan si incontrava a Bruxelles col presidente del Consiglio europeo Charles Michel e da Washington il Segretario di stato Mike Pompeo annunciava colloqui per il 23 ottobre coi ministri degli esteri di Baku e Erevan, il primo ministro armeno Pašinjan constatava che “le speranze di una soluzione diplomatica sono ormai alle spalle, a causa della posizione infida dell’Azerbajdžan” e esortava addirittura “tutti quelli che possono, prendano le armi e vadano a combattere per il Karabakh”.
Le successive parole di Pašinjan suonavano come qualcosa più di un’esortazione a Mosca ad assumere una posizione più netta: “l’Armenia sente il forte sostegno della Russia quale proprio alleato strategico”.
Indicativo, ieri, che mentre Sarkisjan dichiarava al segretario NATO, Jens Stoltenberg, che la pace sarebbe raggiungibile se solo la Turchia cessasse ogni intromissione, il vice Presidente turco, Fuat Oktay ribadiva che Ankara è pronta a inviare truppe turche in Azerbajdžan, non appena Baku lo richieda.
Già martedì scorso le probabilità di intesa erano apparse labili. Pašinjan aveva avanzato una proposta basata sul principio della “separazione in nome della pace”: vale a dire, la possibilità “di separarsi da un qualsiasi stato, allorché sussista il rischio di discriminazione, violazione in massa dei diritti dell’uomo e genocidio”, come da più parti paventato in caso di ritorno del Karabakh sotto controllo azero.
In un’intervista alla turca A Haber 16, Aliev ha dichiarato che simili idee, per “la liberazione di cinque province” attorno al Karabakh erano state avanzate anche prima, ma che lui “non ha mai espresso consenso su tali proposte. La mia posizione consiste nel fatto che il nostro obiettivo sarebbe incompleto senza il ritorno di Şuşa”, il capoluogo del distretto di Šowši del Karabakh. Baku mira in effetti a sette province.
Dunque, il conflitto prosegue. Martedì, la Tass riportava notizie di fonte azera, sulla prosecuzione degli scontri lungo le direttrici Agdera-Ağdam, Fizuli-Hadrut-Džebrail e Gubadly-Zangelan e sul controllo praticamente di tutto il fronte da parte azerbajdžana.
Nel pomeriggio del 20 ottobre, le truppe azere avevano occupato Zangelan e un paio di dozzine di villaggi circostanti, col che, come nota colonelcassad, l’Artsakh è di fatto tagliato dall’Iran; più tardi Erevan comunicava di aver contrattaccato, riuscendo a formare un saliente in prossimità di Zangelan.
Nella notte tra il 20 e il 21, il cessate il fuoco era stato osservato quasi lungo tutto il fronte, ma poi, all’alba, le forze azere avevano nuovamente bersagliato l’area di Martakert e i villaggi vicini.
Il politologo Vage Davtjan elenca su Realist sette distretti nel Karabakh, strategici dal punto di vista logistico-viario. Il distretto, o corridoio di Kašataġ (in azero Laçin) è decisivo per i collegamenti “tra due stati armeni. Prima della liberazione del corridoio di Laçin, l’Artsakh era sottoposta a un feroce blocco economico, senza gas e elettricità”.
Dopo il tentativo, fallito, di Baku nel 1992 di riprendere il controllo del corridoio, nel 1997 Erevan e Baku si erano accordate per “un regime speciale sotto protezione internazionale per quel territorio e per Megri, e anche per uno scambio di territori”, secondo il cosiddetto “Piano Goble”, che prevedeva di dare all’Azerbajdžan un corridoio di collegamento con Nakhičevan, attraverso la regione armena di Megri, in cambio del corridoio di Laçin tra Artsakh e Armenia.
Per Erevan, perdere Megri significava perdere il confine con l’Iran. Oggi, la carrozzabile Erevan-Goris-Stepanakert costituisce la via chiave che collega Artsakh e Armenia.
Altro distretto importante è quello di Karvačar (ex Kel’badžar), non lontana dal lago Sevan: permette l’approvvigionamento idrico di Artsakh e di parte dell’Armenia: non a caso, in quest’area, si sono combattute alcune delle più aspre battaglie del conflitto armeno-azero. C’è poi Agdam, direttamente sul confine azero: la perdita della sua parte controllata da Artsakh, significherebbe la divisione tra nord e sud della Repubblica.
Quindi, Kubatly: via d’accesso meridionale all’Armenia, così come Kel’badžar dal nord. Infine, Zangelan, Džebrail, Fizuli: queste aree, riducendo significativamente la linea di contatto con l’Azerbajdžan, aumentano quella con l’Iran, il che accresce lo status della parte armena nella politica regionale dell’Iran.
Sul piano diplomatico, l’incontro Pašinjan-Aliev, se mai si terrà, vedrà l‘intermediazione della sola Russia – pur se l’Armenia, a differenza dell’Azerbajdžan, fa parte del Trattato per la sicurezza collettiva, Mosca non tifa particolarmente per nessuno dei due leader caucasici – senza la Turchia.
Esso è infatti visto dal Cremlino anche come riaffermazione del proprio ruolo nel Caucaso, contro l’interesse di Ankara, sul momento, alla prosecuzione del conflitto e, in generale, a essere soggetto attivo nella regione. Non a caso, gli osservatori russi mettono l’accento sulle mire turche per il Caucaso, quale trampolino verso il mar Caspio.
E il punto, osserva Viktor Sokirko su Svobodnaja Pressa, non sono “nemmeno le enormi riserve di petrolio e gas del Caspio”, ma è l’accesso “diretto ai confini meridionali della Russia, verso cui potrebbero esser puntate le frecce rosse sulle mappe delle offensive NATO”.
La Turchia potrebbe benissimo, sostiene l’ex agente israeliano di origini russe Jakov Kedmi, con il pretesto del sostegno all’Azerbajdžan, aprire basi navali sul Caspio e, nonostante gli attuali attriti, portarci truppe NATO.
Forse, dice Sokirko, il fatto che Putin ora non “interceda” particolarmente per il Karabakh, potrebbe nascondere il piano “segreto” di “impedire alla Turchia di entrare in Azerbajdžan” e anche di “conservare il mar Caspio. Ma, non c’è dubbio che se ora Erdogan ‘spreme’ il Karabakh, è improbabile che poi si fermi. E allora, l’influenza della Russia nel Caucaso dovrà essere ripristinata con la forza”, come era accaduto nel 1805 con la guerra russo-persiana
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Stalin – La situazione nel Caucaso
L’importante significato del Caucaso per la rivoluzione è dato non solo dal fatto di essere una fonte di materie prime, combustibili e derrate, ma anche dalla sua posizione tra Europa e Asia, in particolare tra Russia e Turchia, e dalla presenza di importantissime vie economiche e strategiche (Batum-Baku, Batum-Tabriz, Batum-Tabriz-Erzerum).
Tutto questo è preso in considerazione dall’Intesa, che, dominando ora Costantinopoli, chiave del mar Nero, vorrebbe preservarsi la strada diretta verso l’Oriente, attraverso la Transcaucasia.
Chi alla fine si stabilirà nel Caucaso, chi potrà utilizzare il petrolio e le strade più importanti che portano in profondità nell’Asia: la rivoluzione o l’Intesa? In ciò sta tutta la questione.
La liberazione dell’Azerbajdžan ha notevolmente indebolito la posizione dell’Intesa nel Caucaso. La lotta della Turchia con l’Intesa ha portato agli stessi risultati. Cionondimeno, l’Intesa non si scoraggia e continua a tessere la propria tela nel Caucaso.
La trasformazione di Tiflis in una base di attività controrivoluzionaria; la formazione di governi borghesi in Azerbajdžan, Daghestan e negli altipiani della regione di Terek, ovviamente, con mezzi dell’Intesa e con l’aiuto della Georgia borghese; le avances ai kemalisti e le prediche dell’idea di una federazione dei popoli caucasici sotto il protettorato della Turchia; lo scompiglio ministeriale in Persia, fomentato dall’Intesa, e l’inondazione della Persia con sepoy: tutto questo e molto altro di simile, ci dice che i vecchi lupi dell’Intesa non stiano dormendo.
Non c’è dubbio che il lavoro degli agenti dell’Intesa in questa direzione si sia notevolmente intensificato e abbia assunto un carattere febbrile dopo la sconfitta di Vrangel’ [il barone Pëtr Vrangel’ fu praticamente l’ultimo generale bianco a combattere contro la Russia sovietica; i resti delle sue truppe furono evacuati da Kerč’ verso Costantinopoli con le navi dell’Intesa nel novembre 1920; ndt]
Quali sono le possibilità dell’Intesa e quali quelle della rivoluzione nel Caucaso?
Non c’è dubbio che le possibilità dell’Intesa, ad esempio, in Daghestan e nella regione di Terek, siano scese a zero. La sconfitta di Vrangel’ e la proclamazione dell’autonomia sovietica in Daghestan e nella regione di Terek, insieme all’intenso lavoro di costruzione sovietico in queste aree, hanno rafforzato la posizione del governo sovietico in quest’area. Non è un caso che i congressi popolari dei rappresentanti di milioni di abitanti di Terek e Daghestan abbiano solennemente giurato di combattere per i Soviet in stretta alleanza con gli operai e i contadini della Russia. (…)
Altrettanto basse sono le chances dell’Intesa in Azerbajdžan, che ha raggiunto la propria indipendenza e ha stretto un’unione volontaria con i popoli della Russia. Non c’è bisogno di dimostrare che gli artigli predatori dell’Intesa, protesi sull’Azerbajdžan e il petrolio di Baku, provocano solo disgusto tra i lavoratori dell’Azerbajdžan.
Anche le chances dell’Intesa in Armenia e Georgia si sono notevolmente ridotte dopo la sconfitta di Vrangel’. Senza dubbio, l’Armenia dei dašnaki è rimasta vittima della provocazione dell’Intesa, che l’ha prima spinta contro la Turchia e poi, vergognosamente, l’ha lasciata in pasto ai turchi. Non ci sono dubbi che l’Armenia non abbia alcuna possibilità di salvezza, tranne una: l’unione con la Russia sovietica. Senza dubbio, questa circostanza servirà da lezione per tutti i popoli, i cui governi borghesi non cessano mai di inchinarsi fino a terra di fronte all’Intesa, e soprattutto, per la Georgia.
La catastrofica situazione economica e alimentare della Georgia è un dato di fatto, ammesso anche dagli attuali caporioni della Georgia. La Georgia, intrappolatasi nei lacci dell’Intesa e privatasi perciò sia del petrolio di Baku che del grano del Kuban; la Georgia, trasformatasi in base principale delle operazioni imperialiste di Inghilterra e Francia e per questo in rapporti ostili con la Russia sovietica – questa Georgia sta ora vivendo gli ultimi giorni della propria vita.
Non per niente il leader decomposto della morente II Internazionale, il signor Kautsky, cacciato dall’Europa dall’ondata rivoluzionaria, ha trovato rifugio nella Georgia marcita e impigliata nelle reti dell’Intesa, presso i social-bottegai georgiani in bancarotta. Non si può dubitare che, nel momento delle difficoltà, la Georgia sarà abbandonata dall’Intesa, così come l’Armenia.
Si sta facendo sempre più chiara la posizione degli inglesi in Persia, come conquistatori di quest’ultima. È noto che il governo persiano, con la sua composizione che muta a velocità favolosa, è uno schermo per gli addetti militari inglesi. È noto che le cosiddette truppe persiane hanno cessato di esistere, sostituite dai sepoy inglesi. È noto che su questo terreno si sono avute tutta una serie di azioni contro l’Inghilterra, a Teheran e Tabriz. Difficile dubitare che questa circostanza non possa aumentare le possibilità dell’Intesa in Persia.
Infine, la Turchia. Non c’è dubbio che il periodo del Trattato di Sevres, diretto contro la Turchia in generale e contro i kemalisti in particolare, stia volgendo al termine. La lotta dei kemalisti con l’Intesa e il crescente fermento, intensificatosi su questa base, nelle colonie d’Inghilterra, da un lato, la sconfitta di Vrangel’ e la caduta di Venizelos in Grecia, dall’altro, hanno costretto l’Intesa ad ammorbidire notevolmente la propria politica nei confronti dei kemalisti.
La sconfitta dell’Armenia da parte dei kemalisti, con l’assoluta “neutralità” dell’Intesa, le voci sul presunto ritorno della Tracia e di Smirne alla Turchia, le voci su negoziati tra i kemalisti e il sultano, agente dell’Intesa, e sul presunto sgombro di Costantinopoli e, infine, la tregua sul fronte occidentale della Turchia – sono tutti sintomi che parlano delle serie avances fatte dall’Intesa ai kemalisti e di alcuni probabili spostamenti verso destra nelle posizioni dei kemalisti.
È difficile dire come finiranno le avances dell’Intesa e fino a che punto si spingeranno i kemalisti nel loro movimento verso destra. Ma è comunque certo che la lotta per la liberazione delle colonie, iniziata diversi anni fa, si intensificherà, nonostante tutto; che la Russia, come portabandiera riconosciuta di questa lotta, sosterrà i partigiani di questa lotta con tutte le sue forze e tutti i mezzi; che questa lotta condurrà alla vittoria, insieme ai Kemalisti, se non tradiscono la causa della liberazione dei popoli oppressi, o, nonostante i Kemalisti, se si troveranno nel campo dell’Intesa.
Ciò è dimostrato dalla divampante rivoluzione in Occidente e dalla crescente potenza della Russia sovietica.
“La situazione nel Caucaso”; Pravda – 30 novembre 1920
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