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La posta in gioco delle elezioni catalane

Il 14 febbraio si terranno le elezioni nella Comunità Autonoma della Catalogna, le terze in meno di 5 anni.

Sono un test importante per il PSOE che guida l’attuale coalizione governativa con Unidos Podemos.

I socialisti spagnoli hanno candidato Salvador Illa, ministro della salute, dimessosi da questo incarico proprio per esserne il capo-lista in Catalogna.

Al suo posto, il primo ministro Pedro Sànchez, fautore di questa spregiudicata scommessa politica, ha nominato Carolina Daria,ex ministra per le relazioni con le regioni,

La scelta di “giocarsi” il cinquantenne ministro della Salute catalano, che prima di assumere questo ruolo nel gennaio dello scorso anno era un emerito sconosciuto ai più, ha sollevato una selva di critiche.

Le sue dimissioni, infatti, sono avvenute in Spagna, nel pieno del terzo picco pandemico. Il Paese ha uno dei tassi di contagi tra i più alti della UE ed mese scorso aveva circa 40 mila contagiati giornalieri e 500 morti circa.

In questi giorni i contagiati totali hanno superato i 3 milioni…

Poco dopo le dimissioni di Illa del 26 gennaio avvenute qualche giorno prima dell’inizio della campagna elettorale, ma annunciate già a fine dicembre, la Spagna ha cominciato ad essere alle prese con la penuria di vaccini.

Tale carenza, a fine gennaio, ha fatto sospendere per 10 giorni le vaccinazioni per tutta la regione di Madrid, con le riserve in Catalogna che si stavano anch’esse per esaurire.

Ignacio Aguado, a capo del governo della regione di Madrid, aveva affermato che con l’attuale ritmo sarà impossibile raggiungere gli obiettivi europei di vaccinazione del 70% della popolazione entro la fine di Giugno: «Dovremmo arrivare fino al 2023 per giungere a quel livello», secondo quanto riporta il Financial Times.

La scelta di non posticipare le elezioni a fine maggio, nonostante la grave situazione sanitaria, è stata fortemente voluta dai socialisti e ribadita da un pronunciamento della Corte superiore di Giustizia catalana che ha invalidato un decreto del governo regionale in accordo con una gran parte dell’opposizione

In Catalogna – secondo quanto riporta un articolo di Le Monde del 27 gennaio – circa il 50% dei letti nei reparti intensivi sono occupati da malati di Covid-19 e gli ospedali sono congestionati. Per fare fronte a questa situazione, la regione ha impedito la circolazione tra comuni se non per validi motivi.

Perché questa doppia forzatura fatta sul candidato e le tempistiche elettorali?

Sànchez e soci intendono giocarsi una partita importante in previsione della gestione dei fondi, in sovvenzioni e prestiti, che l’UE destinerà alla Spagna.

Si tratta di 140 miliardi di euro per i prossimi sei anni, a cui l’UE ha di fatto chiesto come contropartita un ulteriore riforma del mercato del lavoro – su cui le due anime dell’Esecutivo “di minoranza” – gli mancano venti seggi per raggiungere la maggioranza assoluta – hanno trovato la quadra https://contropiano.org/news/politica-news/2021/01/21/la-ue-comanda-pure-sul-mercato-del-lavoro-0135629 – e quella del regime pensionistico, per cui le posizioni restano distanti.

La Spagna, sarà dopo l’Italia, il Paese che riceverà dalla UE maggiori sovvenzioni, poco sotto gli 80 miliardi: una manna per consolidare quest’inedito esperimento social-democratico al governo da metà gennaio dell’anno scorso.

Se l’asse governativo tra PSOE e Unidos-Podemos sembra caratterizzato da una contrattazione permanente e da accesi scontri verbali, finora un punto un punto d’equilibrio finora è sempre stato raggiunto all’interno delle compatibilità dettate dalla UE, con una attenzione ai bisogni sociali più impellenti durante la pandemia.

In una conferenza stampa a fine dicembre, il leader socialista ha dichiarato che la coalizione ha realizzato il 23% del programma pattuito nel gennaio precedente.

Ecco come il quotidiano spagnolo El PaÍs fotografava – in un articolo di metà gennaio – la dinamica dei rapporti ed i calcoli politici delle due formazioni:

« È una sorta di stabilità instabile, in cui si vedono costantemente le diverse posizioni dei due partiti su questioni delicate, in particolare quelle economiche e della monarchia. Ma i protagonisti delle dispute e i loro leader, Pedro Sánchez e Pablo Iglesias, hanno ben chiaro che non sono interessati a rompere la coalizione.

Il leader del PSOE sa che governare da solo, con Unidos Podemos all’opposizione o in appoggio esterno, sarebbe un inferno. E perché vuole una lunga legislatura per sfruttare la ripresa economica, l’uscita dalla pandemia ma soprattutto la gestione politica del gigantesco fondo di ripresa europeo.

Per il leader di Unidos Podemos una rottura sarebbe ancora meno incoraggiante. Iglesias ha convinto la sua squadra che anche se l’attuale situazione potrebbe essere molto complessa per Podemos, perché verranno tempi in cui forse dovrà prendere decisioni difficili nel governo, sarebbe molto peggio se fossero al di fuori dell’Esecutivo dando supporto esterno, come richiesto dal PSOE nel 2019. Iglesias e il suo nucleo di fiducia sono convinti che essere in esecutivo è la loro carta migliore, e non intendono uscire. E neanche Sanchez sembra volerli cacciare, ma cerca di minimizzare il loro peso nella politica economica. Questa tensione genera quella stabilità instabile che supporta un governo che cercherà di arrivare fino alla fine della legislatura.»

Dopo essere riuscito ad approvare in dicembre, il bilancio per quest’anno più cospicuo del 10% rispetto a quello dell’anno precedente, grazie ai voti di alcune formazioni “indipendentiste” – ma non dei due deputati della CUP – incassando più voti di quelli ricevuti per l’investitura.

Ora l’ostacolo più grosso che si trova di fronte il giovane leader socialista nella prospettiva di circa due anni consecutivi senza elezioni e con in mano – ipoteticamente – i soldi della UE, rimane la Catalogna.

In una intervista a Mediapart di metà gennaio, Carles Puigdemont – leader indipendentista catalano in esilio in Belgio e figura di spicco di JxC – così risponde al giornalista se l’attuale governo avesse segnato una rottura nella gestione del dossier catalano:

«Una rottura? Per nulla. C’è un perseguimento dell’incarcerazione e della repressione. Non c’è stato alcun perdono, non c’è stato un solo dibattito parlamentare per l’abolizione di questo delitto del XIX secolo, che si chiama sedizione. Non c’è stato nemmeno un dibattito sulla legge dell’amnistia. Certo, qualche voce, un clima che è un po’ cambiato, ma se si osservano i fatti, si è allo stesso punto in cui saremmo se avessimo avuto un governo del Partido Popular»

Se il composito fronte indipendentista – ERC, JxC e CUP – dovesse ottenere la maggioranza la questione della separazione da Madrid assumerebbe impulso rinvigorito attraverso la proposizione di un nuovo referendum. Le varie formazioni si dividono infatti nella sua modalità di attuazione – unilaterale o concordata con Madrid – ma non nel ritenerlo come lo strumento principale decisionale nella prospettiva dell’indipendenza.

Certo ERC è la formazione che più ha dialogato con Madrid, ma che non ha visto la realizzazione negli impegni presi dall’esecutivo nei suoi confronti.

Altra questione centrale per le tre formazioni è l’amnistia per le circa 3.000 persone coinvolte a livello giudiziario in reati collegabili alla stagione di mobilitazioni per l’indipendenza https://contropiano.org/news/internazionale-news/2021/02/10/repressione-rinuncia-e-conflitto-in-catalunya-0136237.

Si ha detto per inciso, ma l’acceso spirito repubblicano ed anti-monarchico degli indipendentisti è il sale sulle ferite per una istituzione squalificata quanto importante nell’impalcatura politica spagnola.

Ed il PSOE ha ribadito la sua fedeltà alla Corona, volendo perpetuare il ruolo che svolge in perfetto accordo con il Partido Popular.

È chiaro che senza una vera soluzione politica del dossier catalano, specie se le forze indipendentiste avranno la maggioranza, questo governo, come qualsiasi esecutivo, avrà la strada sbarrata.

Questo, anche, in considerazione del fatto che la formazione di Pablo Iglesias ha esaurito il capitale politico precedente accumululato e la sua capacità di tenuta sembra minat, come hanno dimostrato le elezioni regionali nei Paesi Baschi ed in Galizia http://lnx.retedeicomunisti.net/2020/08/02/la-galizia-e-una-colonia-dal-punto-di-vista-psicologico-ma-anche-economico/.

Intanto, la destra tutta non ha mai smesso di soffiare costantemente sul fuoco del nazionalismo spagnolo, ed è più propensa ad una soluzione “col pugno di ferro”.

Le elezioni nella Comunità Autonoma sono un test per capire chi può giocarsi l’egemonia in questo campo in uno scontro tra PP e VOX, in cui Ciudadanos sembra non potere ripetere l’exploit delle precedenti elezioni regionali.

Ci sono buone ragioni per presuppore che la questione catalana ridiventi il punto di caduta per la classe dirigente spagnola ed è chiaro che la frattura apertasi nel 2017 non si è ancora saldata.

Settembre 2020: nuovamente verso elezioni anticipate

L’interdizione dai pubblici uffici del Presidente della Generalitat catalana Quim Torra avvenuta a fine settembre scorso era l’ennesimo atto di prevaricazione delle autorità spagnole contro il popolo catalano ed i suoi rappresentanti.

Torra, membro della formazione indipendentista JXC, era stato condannato in primo grado il dicembre del 2019 dal tribunale supremo della giustizia di Catalogna (TSJC) per essersi rifiutato di rimuovere dal Palazzo della Generalitat uno striscione che chiedeva la liberazione dei prigionieri politici catalani ed il ritorno degli esuli, “disobbedendo” così alla Giunta Elettorale Centrale che gli intimava la rimozione.

Dopo la conferma della condanna a 18 mesi di ineleggibilità e 30 mila euro di multe, la pena è diventata subito esecutiva ed è stato rimosso dalle sue funzioni, nonostante abbia fatto subito ricorso al Tribunale Costituzionale.

Si è aperta allora una ennesima “crisi politica” quindi con l’incarico ad interim conferito al vice-presidente della Generalitat Pere Aragònes, esponente di ERC che con la stessa composizione del governo “regionale” formatosi dopo le elezioni del dicembre del 2017 ha potuto procedere solo per decreto fino alle attuali elezioni.

Lasciando le sue funzioni mentre si allontanava dal Palazzo in un bagno di folla, Torra aveva affermato che: “il solo modo di avanzare è la rottura democratica”, riferendosi al referendum autoconvocato dell’ottobre del 2017.

La destituzione di Torra era solo l’ultimo di una serie di attacchi durissimi da parte dello Stato Spagnolo nei confronti delle istituzioni catalane e tutto il movimento indipendentista che sono seguiti al referendum del primo ottobre.

Torra era succeduto a Carles Puigdemont, leader indipendentista attualmente in esilio, dopo che questo era stato rimosso grazie alla legge 155 e perseguito a livello giudiziario.

Proprio Puigdemont aveva parlato di “vendetta” ed “odio” dello Stato Spagnolo che ha privato la Catalogna di un governo locale forte in una difficile congiuntura sanitaria e sociale. Una decisione questa per cui ha festeggia tutta la destra spagnola, da Ciudadanos a Vox.

2017: l’autunno catalano

La questione catalana è diventata uno dei dossier politici più rilevanti dello Stato Iberico da quando, il 1 ottobre del 2017, la maggioranza dei cittadini recatesi alle urne hanno risposto affermativamente al quesito referendario: «Vuoi che la Catalogna sia uno Stato indipendente sotto forma di Repubblica?».

Nonostante la dura repressione delle varie forze dell’ordine, quasi due milioni e trecento mila persone erano andati a votare – poco più del 43% degli aventi diritto – e più del 90% si era espresso favorevolmente per il referendum, cioè leggermente di più dei consensi che aveva ottenuto lo schieramento indipendentista due anni prima.

Quel referendum unilaterale votato ad inizio settembre dal Parlament di Barcellona da junts pel Sì e dalla CUP, si tenne in un clima di mobilitazione permanente da parte di una importante porzione della popolazione catalana che nonostante la cappa di militarizzazione imposta dal governo centrale, sostenne il processo indipendentista e la proclamazione della Repubblica avvenuta a fine ottobre.

Nel mentre la Repubblica veniva proclamata a Barcellona, a Madrid l’allora capo dell’esecutivo del Partido Popular Rajoy grazie al famigerato articolo costituzionale 155 dichiarava il commissariamento delle istituzioni catalane, sciolto il Parlament e indetto d’autorità nuove elezioni regionali per il 21 dicembre.

Con i leader catalani democraticamente eletti in carcere ed in esilio condannati a lunghe condanne, la questione catalana si è “internazionalizzata” con la Spagna che conduce una battaglia costante per ridurre anche quelle minime tutele fatte rispettare dagli altri paesi europei, tra cui la possibilità per alcuni di loro di svolgere le loro funzioni di eurodeputati eletti nell’estate del 2019.

Una repressione che assume toni talvolta parossistici https://contropiano.org/news/internazionale-news/2020/10/30/spagna-per-magistrati-e-guardia-civil-la-russia-era-pronta-a-inviare-soldati-in-catalogna-0133100.

Andando a ritroso se dovessimo trovare il punto di svolta del processo politico indipendentista con connotati di massa dovremmo risalire alla Diada dell’11 settembre del 2012 che fu un chiaro segno di come la crisi economica aveva cambiato i connotati della questione, facendo entrare in crisi definitivamente le modalità di governance delle contraddizioni sociali ed il rapporto con Madrid che aveva caratterizzato il “vecchio” regionalismo.

Una nuova sfida per l’indipendentismo ed il ruolo della CUP

Le forze indipendentiste si presentano all’appuntamento elettorale con la consapevolezza che è in corso una nuova battaglia, che le forze in campo sono pronte a scontrarsi nuovamente.

La formazione anticapitalista CUP (Candidadura d’Unitat Popolar) ha vissuto anni in cui ha visto arretrare il proprio sostegno rispetto al 2015, e invertire una tendenza che l’aveva vista in costante crescita prima di quella data. Nel 2015 in Catalogna si viveva un clima politico alimentato dall’orizzonte della rottura con Madrid, la tensione era forte e il voto alla Cup era considerato utile da un ampio spettro sociale per sostenere un’opzione radicale.

La brutale repressione dello Stato centrale seguita alla proclamazione unilaterale della Repubblica catalana da parte della Generalitat, aveva forse fatto pensare a Madrid che il problema catalano poteva essere archiviato, anche a livello elettorale… ma così non è. Se infatti la CUP ha perso terreno prima nelle elezioni regionali imposte da Madrid del 2017 e poi nelle grandi città (fatta eccezione per il caso di Girona, dove nel 2019 ha raddoppiato i consensi), le elezioni comunali dello scorso anno hanno visto un incremento incredibile di voti e preferenze nei centri sotto i 20.000 abitanti, elemento che mostra un radicamento “nelle campagne” da non sottovalutare.

Questo risultato si è scontrato duramente con gli “ordini di sospensione per disobbedienza alle leggi dello Stato” emanati a Madrid, ed è stato ottenuto -spiegano i protagonisti- mettendo il pratica un programma che ha visto l’ospedale tornare in mani pubbliche, misure di sostenibilità ambientale e di politica fiscale, con la razionalizzazione del debito del Comune, e di sostegno all’accesso ai servizi.

E d’altro canto, questo radicamento diffuso della CUP ci aiuta a spiegare la scelta inusuale fatta dalla sinistra indipendentista alle ultime elezioni nazionali: nel novembre 2019, per la prima volta si sono presentati e subito hanno eletto due rappresentanti (ovviamente all’opposizione nel Parlamento di Madrid..) con il 6,5% delle preferenze catalane.

Nel corso di questa campagna elettorale, le formazioni indipendentiste stanno avendo dalla loro l’autorità morale dei prigionieri politici del Procés, che rafforza il messaggio della CUP e di Esquerra Repubblicana contro la repressione dello Stato. Lo scontro tra la Generalitat della Catalogna e la Procura agli ordini diretti del governo centrale è uno scontro che lega la storia del Referendum con le elezioni correnti e più in generale la “questione catalana” all’interno nel contesto iberico: insomma, da sostanza strategica e spessore storico a un’elezione che a Madrid vorrebbero derubricare come atto amministrativo.

Vedremo chi riuscirà a spuntarla, su un piano di scontro in cui gli indipendentisti non giocano mirando direttamente a una vittoria totale, ma piuttosto a ribaltare il tavolo impostogli dopo il Referendum, quando la repressione di Madrid ha cercato di farli “uscire dalla storia”.

Tra le misure che la sinistra radicale catalana ha giudicato necessarie e sta portando avanti, si propone un piano nazionale per referendum e amnistia, un reddito di base universale di 735 euro al mese e di “recuperare” gli appartamenti vuoti di banche, grandi detentori e fondi avvoltoio. Insomma, parole d’ordine che certamente non possono piacere a una struttura di potere che vuole archiviare questa fastidiosa faccenda catalana e dedicarsi quanto prima, e in completa solitudine, alla spartizione dei fondi europei.

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