Se qualcuno mette in pericolo la credibilità, gli interessi di una “famiglia”, bisogna correre ai ripari o tutto potrebbe sfasciarsi. Il GOP, o Grand National Party (il partito repubblicano statunitense), non fa eccezione e, quando ha eletto Donald Trump come suo leader, forse non ha scelto un padre di famiglia integerrimo, di quelli che fanno di tutto pur di tenere unita la famiglia.
L’”assoluzione” del tycoon, questa volta sotto accusa per aver incitato l’assalto al Congresso del 6 gennaio scorso, stimolando pericolosamente il suo smisurato ego, non fa che aggravare l’importante spaccatura che si sta consumando nel GOP, allontanando sempre più la possibilità di ricucire un paese storicamente disunito da divisioni “originarie”.
Fanno riflettere le dichiarazioni del senatore repubblicano McConnell che, pur votando contro l’impeachment, critica duramente The Donald; e quelle dell’ex governatrice della Carolina del Sud, già ambasciatrice all’ONU per la passata amministrazione, Nikki Haley, che rinnega il tycoon e pianifica la sua candidatura nelle presidenziali del 2024.
Biden nel frattempo dichiara che “questo triste capitolo della nostra storia ci ha ricordato che la democrazia è fragile e va sempre difesa”.
In un Occidente che sta pericolosamente deviando verso un Ur-fascismo neanche troppo latente, più spesso malamente camuffato – dall’Ucraina al movimento del presunto “liberatore russo” Aleksej Naval’nyj, all’America Latina dei vari Bolsonaro e soci, passando per il Medio Oriente di Benjamin Netanyahu ed Erdogan, a finire ai regimi egiziano del “nostro” partner commerciale Abdel Fattah al-Sisi, e saudita dell’”illuminato” principe Mohammed bin Salman Al Saud, alfiere di quel neo-rinascimento islamico che tanto sembra piacere all’Italia del “nuovo” corso Draghi – le parole di “Sleepy” Biden suscitano una inequivocabile apprensione, ma suonano pericolosamente sibilline.
Fra racconto e memoria
Alea acta est… Il dado è tratto. Donald Trump è stato assolto per la seconda volta al termine di una procedura per impeachment.
Trump è stato ufficialmente il quarto presidente nella storia degli Stati Uniti a dover affrontare l’impeachment. Prima di lui era toccato a Andrew Johnson, nel 1869; Bill Clinton, nel ’98, mentre Richard Nixon, nel ’74, si dimise quando era ormai chiaro che l’impeachment era in arrivo. Ma è il primo a subirne due.
La procedura del primo impeachment prese l’avvio dopo che un informatore aveva dichiarato che l’ex presidente Trump e altri funzionari del governo avrebbero fatto pressioni su alcuni leader di nazioni straniere, in particolare l’Ucraina, utilizzando gli strumenti della politica estera statunitense – tra cui la sospensione degli aiuti militari all’Ucraina stessa – come arma di ricatto per spingere il governo di Kiev a danneggiare un suo avversario politico.
Quella pressione aveva permesso di avviare nei rispettivi paesi indagini contro l’ex vicepresidente degli Stati Uniti, nonché candidato democratico alle elezioni presidenziali del 2020, e suo figlio Hunter. Tali azioni sarebbero qualificabili un “abuso di potere” per favorire gli interessi personali e politici di The Donald. In quel procedimento, mentre era ancora alla Casa Bianca, vinse a mani basse.
Il tycoon è andato quindi a processo di nuovo in questi giorni, ma stavolta da ex e con un’accusa molto grave: l’assalto a Capitol Hill, sede del Congresso, da parte di migliaia di dimostranti il 6 gennaio scorso nel quale 5 persone, tra cui un agente di polizia, hanno perso la vita e oltre 140 sono rimaste ferite.
L’ex presidente doveva rispondere di aver incoraggiato le violenze dei patriots con un discorso incendiario poche ore prima dell’assalto.
L’esito del voto, questa volta 57-43 a sostegno dell’accusa, non ha determinato la condanna dell’ex presidente, che sarebbe scattata con 67 voti. La maggioranza qualificata, ossia i due terzi dei 100 senatori non è stata raggiunta.
Con l’attuale composizione dell’Alta Camera, ben 17 senatori Repubblicani avrebbero dovuto esprimersi per l’impeachment. Era una prospettiva improbabile, tanto più che il leader dei senatori repubblicani Mitch McConnell aveva detto ai suoi colleghi di partito che avrebbe votato per assolvere Donald Trump, dopo che nelle settimane scorse non aveva escluso di propendere per la condanna.
I rappresentanti del Senato ieri hanno trovato un accordo per evitare di chiamare a deporre gli innumerevoli testimoni, decidendo così di accorciare sensibilmente i tempi del processo; la dichiarazione della repubblicana Jaime Lynn Herrera Beutler, membro della Camera dei Rappresentanti per il terzo distretto congressuale dello stato di Washington D.C., è stata infatti letta e messa a verbale evitando di ascoltare la senatrice.
Creato il precedente, si è seguito lo stesso schema per le altre deposizioni, e alla fine quindi è prevalsa la volontà di non allungare il processo, e si è potuti passare alle argomentazioni conclusive e poi al voto finale, arrivato in tarda serata, ora europea.
Il suo team legale, con in testa il fido Rudolph Giuliani, nei giorni scorsi lo aveva sostenuto appellandosi al primo emendamento della Costituzione degli Stati Uniti, che sancisce la libertà di parola e di stampa, e cercando quindi di dichiarare l’incostituzionalità dell’impeachment.
Il Senato alla fine però ha considerato che il processo fosse coerente con la Costituzione nonostante Donald Trump avesse già lasciato la Casa Bianca.
Un primo voto, in occasione dell’avvio del processo martedì scorso, aeva già chiarito i rapporti di forza: 56 senatori, di cui solo 6 repubblicani. Per due giorni, da quel momento, i rappresentanti dell’accusa alla Camera hanno esposto i fatti, coadiuvati dalla proiezione di video, spiegando che da “comandante in capo” il presidente si era tramutato in “istigatore in capo”.
“Il processo di impeachment contro Donald Trump è palesemente un atto di vendetta politica, incostituzionale e dividerà ancor di più gli Stati Uniti”. Michael Van der Veen, uno degli avvocati del tycoon, ha aperto con queste parole il primo intervento difensivo della giornata.
La principale tesi della difesa è stata però che il comizio di Trump, durante la manifestazione “Stop the steal”, non era un appello alla violenza contro il Congresso ed è, comunque, protetto dal Primo Emendamento della Costituzione sul freedom of speech. Sempre secondo gli avvocati difensori, i managers dell‘impeachment, attraverso i video mostrati nella prima giornata dedicata all’accusa, avrebbero offerto soltanto un “pacchetto di intrattenimento”, non vere prove.
Video, o meglio montaggi, che anche la difesa ha mostrato: in alcune clip, si ascoltano alcuni esponenti dem, tra cui Joe Biden, Kamala Harris e Nancy Pelosi, utilizzare la parola “fight” (combattere), in modo molto aggressivo.
L’argomentazione più brillante, però, l’ha sostenuta forse David Schoen: “l’accusa ha utilizzato “reportedly”, ha dichiarato il legale “che non significa avere prove concrete”, ma altro.
Schoen, nel suo intervento, racconta poi come i dem, nelle giornate precedenti, abbiano utilizzato spesso l’avverbio (reportedly, appunto) che significa “stando a quel che si dice”. Se si usa questa formula non si ha la certezza che la loro tesi, secondo cui Donald Trump dovrebbe essere condannato dopo la messa in stato di accusa, sia sostenibile e corretta.
Bruce Castor è stato il terzo avvocato della difesa a scendere in campo con nuove argomentazioni che, ancora una volta, si sono basate sul significato dei termini:
“Insurrezione è un termine definito dalla legge. Implica la conquista di un paese, un governo ombra, il controllo delle emittenti televisive. Chiaramente, questa definizione non si può associare ai fatti del sei gennaio. E, di conseguenza, Donald Trump non può essere accusato di incitamento all’insurrezione”. Queste le parole dell’avvocato Castor.
Una difesa meno aggressiva rispetto a quella di Schoen, ma non meno incisiva.
E, come annunciato, le otto ore a disposizione non sono state utilizzate: la difesa ne ha usate circa la metà, chiedendo, al termine di tutto, l’assoluzione di Donald Trump perché non ha provocato l’assalto al Congresso. Poi sono seguiti gli altri steps: il dibattimento. Poi il verdetto finale.
Azioni e reazioni
Sono state innumerevoli le reazioni, sia da parte dem che repubblicana, e queste ultime lasciano trasparire che la crisi del GOP non è che agli inizi, così come, e non solo per sue dichiarazioni, è anche il processo di fondazione di un movimento trumpiano, che potrebbe chiamarsi “Patriot Party” o qualcosa altro.
“E finita la “caccia alle streghe”, ha commentato l’ex presidente in una dichiarazione subito dopo la votazione in Senato. Trump ha aggiunto di voler “continuare a difendere la grandezza dell’America” e ha rilanciato sul suo futuro in politica. “Il nostro storico, patriottico, bellissimo movimento per Make America Great Again (MAGA NdR) è solo all’inizio”, ha assicurato; “nei prossimi mesi avrò molto da condividere con voi e sono ansioso di proseguire insieme questo nostro incredibile viaggio per la grandezza dell’America e per tutta la nostra gente. Non c’è mai stato nulla di simile”.
Ma il suo (attuale) partito difficilmente lo appoggerà in tutto e per tutto.
Il leader di minoranza al Senato, il repubblicano Mitch McConnell, ha infatti votato no, ma ha voluto precisare di averlo fatto solo perché giudica il processo al Senato contro un ex presidente incostituzionale, mentre considera Trump colpevole di aver istigato l’insurrezione a Capitol Hill.
“È responsabile”, ha dichiarato in aula, subito dopo aver votato contro l’impeachment. Le parole di McConnell, secondo alcuni osservatori, potrebbero preludere ad una potenziale inchiesta penale su Trump per l’assalto al Congresso, ma come privato cittadino.
Guai giudiziari che complicherebbero la situazione del tycoon, che ha già qualche scheletro nell’armadio: al di là dell’impeachment, altre inchieste incombono sulla sua testa, mettendo a rischio il suo futuro politico: c’è l’indagine avviata dalla procuratrice dem di Atlanta, Fani Fillis, sulla telefonata con cui l’allora presidente chiese al segretario di Stato della Georgia, Brad Raffensperger, di trovare “abbastanza voti” per ribaltare la vittoria di Joe Biden nel Peach State.
Indagine che ha messo nel mirino anche il senatore repubblicano Lindsey Graham, uno dei suoi principali alleati, per una telefonata analoga in cui chiedeva a Raffensperger se aveva il potere di scartare i voti via posta in alcune contee.
Ma le inchieste più pericolose sono quelle della procura di New York, che potrebbero costargli anche il carcere. Il procuratore (dem) di Manhattan Cyrus Vance sta indagando per accertare se il presidente e la sua Trump Organization abbiano commesso frodi bancarie, assicurative e fiscali, nonché se abbiano falsificato documenti aziendali.
L’indagine è partita dalle rivelazioni dell’ex avvocato personale di Trump, Michael Cohen, sui pagamenti per comprare il silenzio di due donne sui loro love affaire con il tycoon, in violazione della legge elettorale.
L’attorney general (procuratore generale) di New York, Letitia James (dem), sta appurando invece se Trump ha gonfiato il valore dei suoi assets per apparire tra le persone più ricche della classifica di Forbes, sgonfiandoli invece per pagare meno tasse. Il figlio Eric è già stato interrogato sotto giuramento e la stessa sorte potrebbe attendere il padre.
Un’altra spada di Damocle è l’inchiesta sugli abusi dei fondi per la cerimonia di inaugurazione presidenziale nel 2017, che coinvolge pure i figli Ivanka e Donald jr.
C’è poi una causa in famiglia, quella della nipote Mary, che accusa lo zio e i suoi fratelli di frode per averle dato una quota inferiore dell’eredità del nonno.
Infine due cause per diffamazione, una della scrittrice Jean Carroll e l’altra di Summer Zervos, ex concorrente del reality show The Apprentice: entrambe contro l’ex presidente per aver negato di averle aggredite sessualmente. Un vero e proprio slalom giudiziario che attende The Donald dopo questo secondo impeachment.
Per tornare alle reazioni dei “suoi” dissidenti, McConnell, che aveva condannato pubblicamente Trump per aver istigato l’assalto al Congresso, ha sposato la tesi difensiva dell’incostituzionalità dell’impeachment contro un presidente già decaduto, ritenendo che si tratta “principalmente di uno strumento per la sua rimozione” e che “il Senato non ha quindi giurisdizione”.
Il leader Gop ha tuttavia sottolineato che “la costituzione stabilisce chiaramente che i delitti di un presidente commessi nel corso del suo mandato possono essere perseguiti dopo che lascia la Casa Bianca”, lasciando quindi una porta aperta alle inchieste in corso in varie procure.
McConnell ha probabilmente preferito fare buon viso a cattiva sorte e abbracciare nuovamente Trump, come la maggioranza del partito, per tentare di riconquistare il Congresso già nelle elezioni di Midterm del prossimo anno.
La sentenza decide il destino, ora nuovamente incrociato, dell’ex presidente e del Grand Old Party: il primo, salvo sorprese sul fronte giudiziario, potrà ricandidarsi nel 2024 tenendo la presa sui repubblicani, il secondo è destinato a restare un partito populista e sovranista, col rischio però di fratture interne, molto evidente.
Oltre Mc Connell, c’è un personaggio che è rimasto un poco dietro le quinte ma che potrebbe salire alla ribalta nei prossimi mesi: si tratta di Nikki Haley, ex governatrice del South Carolina ed ex ambasciatrice Onu, nominata da Trump stesso (e lo ha già scaricato, peraltro) e possibile candidata alla Casa Bianca nella corrente moderata del partito repubblicano alle elezioni presidenziali del 2024.
Dopo anni passati a camminare attentamente sulla linea sottile che divide gli ultrà trumpiani dai Repubblicani tradizionali, Nikki Haley ha deciso di darci un taglio e mollare definitivamente il tycoon.
Al momento la strada appare in salita. Trump detiene ancora il 79% di gradimento con gli elettori Repubblicani, ma l’unicità della candidatura di Haley potrebbe tornargli utile…
“Ci ha deluso, non avremmo mai dovuto seguirlo.” Con queste parole, Nikki Haley molla definitivamente Donald Trump in una lunga intervista rilasciata al quotidiano online Politico.
L’ex ambasciatrice americana all’Onu non aveva mai criticato in maniera così dura e trasparente l’ex Presidente USA. Durante il suo mandato al palazzo di vetro, Haley è sempre rimasta neutrale.
Nel 2018, fu una delle poche persone a lasciare l’amministrazione Trump “in buoni rapporti”, senza cadere vittima di critiche o insulti provenienti dal profilo Twitter di The Donald.
L’improvviso e inaspettato cambio di passo da parte di Nikki Haley rappresenta sicuramente un riposizionamento ideologico in vista delle prossime elezioni del 2024.
Il Grand Old Party non ha mai nominato una donna alla Presidenza, e per di più non nomina un ebreo da più di 57 anni. Nikki Haley potrebbe dunque rappresentare una svolta identitaria oltre che una svolta ideologica.
La coalizione ebraica repubblicana è una di quelle più affini ai valori della destra “libertaria” (nel senso statunitense del termine, esiste persino un Libertarian Party che ha probabilmente contribuito alla sconfitta di Trump), che ha per anni caratterizzato la politica economica del partito. Valori che si sposano alla perfezione con la visione di Nikki Haley, forte sostenitrice del capitalismo e del libero mercato.
Inoltre, Haley ha sempre curato con particolare interesse i rapporti con Israele, essendo stata una delle primissime firmatarie del riconoscimento di Gerusalemme come “legittima” capitale dello “stato ebraico” (definizione ora inserita nella Costituzione di Tel Aviv).
Se a questo si aggiunge l’odio che la coalizione ebraica nutre nei confronti di Donald Trump (tenuto in sordina solo grazie allo strepitoso lavoro di Jared Kushner nel Medio Oriente), allora il dado è tratto, di nuovo.
Tutto porta a pensare che la potente e influente coalizione sponsorizzerà la candidatura di Nikki Haley nel 2024, con la speranza di tornare alle posizioni di un tempo.
Abbiamo già potuto constatare, con le recenti primarie dem, quanto sia importante avere un flusso finanziario costante durante l’intera campagna elettorale. Un endorsement del genere non può che aiutare le ambizioni presidenziali di Haley.
L’ostacolo che più preoccupa l’ex ambasciatrice rimane, senza ombra di dubbio, il 79% di gradimento che Trump ancora detiene con l’elettorato Repubblicano. Da leggere sotto quest’ottica le dichiarazioni pungenti rilasciate da Haley nei giorni scorsi: “Non penso Trump possa correre di nuovo tra quattro anni, è caduto troppo in basso”, e ancora “non possiamo permettere che una cosa del genere accada di nuovo.”
Sicuramente l’ideale per Haley sarebbe stato che l’impeachment fosse andato in porto, cosi da Trump escluderlo a vita da qualsiasi incarico pubblico. Ma dati i risultati, Haley dovrà trovarsi un modo per vendersi all’elettorato anche nell’ipotesi di una ricandidatura di Donald, nel GOP o altrove.
Un modo per farlo è rimarcare la peculiarità della sua candidatura: una donna ebrea di origini indiane che corre in un partito storicamente bianco e molto “al maschile”.
Questo approccio è in linea con i dati delle ultime elezioni presidenziali: le minoranze e le donne (proprio quei gruppi che avrebbero dovuto rappresentare la base della coalizione democratica) si sono spostati verso i repubblicani.
Nikki Haley può ambire a diventare la voce di questa base elettorale, se non strettamente per l’aspetto ideologico, quantomeno per quello identitario. Un posizionamento del genere sarebbe particolarmente decisivo se il partito democratico dovesse – ma sembra utpostico – virare “a sinistra” su qualche tema rilevante, spingendo una buona fetta del proprio elettorato ad interrogarsi se non sia meglio turarsi il naso e votare per qualcuno “dell’altra sponda”.
L’aspetto identitario sarebbe un bel biglietto da visita da presentare a questi elettori storicamente sensibili a temi del genere.
Haley può diventare il trait d’union tra democratici e repubblicani moderati o “centristi”, isolando le “ali”, sia a destra che a sinistra. Ed è forse l’unico modo per dare nuova vita a un partito che altrimenti rischia di spaccarsi e cadere nell’irrilevanza.
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