Un documento e istituzioni decisamente anomale hanno fatto sentire la loro voce sulla questione della repressione delle manifestazioni in Myanmar.
Si tratta dei Capi di Stato Maggiore di 12 paesi – tra cui l’Italia – che hanno condannato la violenta repressione della giunta militare contro i manifestanti che chiedono il ripristino del governo civile del Myanmar, deposto lo scorso 1o febbraio dall’esercito, che ha arrestato la leader Aung San Suu Kyi e decine di politici.
In questi giorni una novantina di civili sono stati uccisi negli scontri. Sabato è stato il giorno più sanguinoso dal colpo di Stato, che ha coinciso con la festa delle forze armate che, secondo fonti locali, avrebbe un bilancio ancora più pesante, pari ad almeno 114 morti.
“Come capi della Difesa, condanniamo l’uso di forza letale contro persone disarmate da parte delle forze armate birmane e dei servizi di sicurezza associati”, si legge nel’inusuale comunicato congiunto, firmato dai capi di stato maggiore di Usa, Canada, Regno Unito, Germania, Italia, Grecia, Danimarca, Paesi Bassi, Giappone, Corea del Sud, Australia e Nuova Zelanda, praticamente una sorta di Nato allargata e globale. “Un esercito professionale segue le regole di condotta internazionale e la sua responsabilità è proteggere – non colpire – il popolo che serve”, prosegue la nota dei Capi di Stato Maggiore occidentali “esortiamo le forze armate del Myanmar di lavorare per ripristinare il rispetto e la credibilità persa con le loro azioni di fronte al popolo birmano”.
Appare piuttosto evidente come questo innovativo protagonismo “umanitario” delle gerarchie militari dei paesi della Nato allargata, nasce dal fatto che la giunta militare birmana sia in qualche modo in ottime relazioni con la Cina. Un contingente birmano, ma prima del golpe, ha anche partecipato nel 2019 a manovre militari congiunte con Cina, Russia ed alcune repubbliche asiatiche ex sovietiche nella Russia meridionale.
Eppure sbaglia chi pensa che Pechino sia entusiasta dei militari birmani golpisti. Lo spiega Limes secondo cui “La Cina non gioisce per il colpo di Stato in Myanmar”, ma i suoi interessi strategici la obbligano a preservare i rapporti con il governo instaurato in Birmania dalle Forze armate.
Secondo Limes, Pechino ha tre obiettivi. “Il primo è evitare che il golpe comprometta il completamento del Corridoio economico sino-birmano. Il progetto serve ad accedere all’Oceano Indiano senza passare per lo Stretto di Malacca, presidiato dagli Stati Uniti. Il secondo è preservare l’accesso alle cospicue risorse energetiche e minerarie del vicino meridionale. La Repubblica Popolare è il primo partner commerciale del Myanmar e la sua seconda fonte di investimenti esteri dopo Singapore. Infine, da tempo il governo cinese vuole servirsi dell’appoggio di Naypyidaw (le forze armate, ndr) per accrescere il suo soft power nel Sud-Est asiatico”.
Tra l’altro, negli ultimi cinque anni le relazioni della Cina con il governo della Lega nazionale per la democrazia (NLD) di Aung San Suu Kyi sono state molto fruttuose consentendo a Pechino di riguadagnare l’influenza danneggiata durante il precedente governo Thein Sein.
Tra l’altro, l’intero occidente aveva voltato le spalle al governo del Myanmar di Aung San Suu Kyi dopo la crisi dei rifugiati Rohingya nel 2016-2017. La presidentessa Suu Kyi, avendo bisogno di assistenza e investimenti stranieri per mantenere le sue promesse elettorali di progresso economico, non aveva avuto altra scelta che rivolgersi a Pechino.
Ci sono però parecchi particolari che le gerarchie militari e i mass media dei paesi Nato sembrano omettere in modo piuttosto clamoroso.
Un rapporto dell’Onu del 2018, ad esempio, inchioda la deposta presidentessa Aung San Suu Kyn, Premio Nobel e Medaglia d’oro del Congresso Usa, alle proprie responsabilità nella repressione della minoranza musulmana dei Rohingya. Nel 2020 il Parlamento le ha ritirato il Premio Sacharov che le era stato assegnato nel 1990.
L’indagine delle Nazioni Unite ha infatti macchiato l’immagine dell’ex paladina dei diritti umani con addebiti pesanti e incontrovertibili, motivati non solo dalla sua connivenza con gli abusi inflitti ai Rohingya, ma anche da una serie di sforzi deliberati messi in atto dalla stessa Aung San Suu Kyi al fine di minimizzare i crimini dei militari, inquinare le prove degli eccidi e ostacolare l’ingresso di osservatori internazionali che hanno contribuito a perpetuare narrative false e decisamente tendenziose ai danni delle minoranze musulmane.
Le operazioni di rastrellamento contro i Rohingya erano iniziate nell’estate del 2017 a fini di rappresaglia contro gli attacchi terroristici orditi dall’organizzazione Arakan Rohingya Salvation Army (ARSA) ai danni delle forze armate nazionali e poi sono dilagate innescando una crisi umanitaria con circa 600.000 profughi in fuga, soprattutto verso il Bangladesh.
Ma anche la repressione della popolazione Karen infatti, non è ascrivibile solo all’attuale governo golpista.
Anche durante il governo “democratico” della sig.ra Aung San Suu Kyi la repressione era continuata ed anzi era aumentata. Era il 2016 quando, con il tacito consenso dei Paesi Occidentali e nonostante la sbandierata “svolta” politica, le offensive contro le zone nord orientali abitate da Kachin e Shan erano proseguite indisturbate nel dopo-elezioni, e la guerra era continuata con migliaia di civili costretti a lasciare i loro villaggi sotto la pressione delle truppe birmane.
Dal Myanmar arrivano in questi giorni notizie anche dal Nord est del paese, dove l’esercito birmano avrebbe bombardato le posizioni delle milizie della minoranza Karen, causando tre morti e otto feriti. A riferirlo è Hsa Moon, un’attivista per i diritti umani della comunità Karen. I bombardamenti aerei, i primi da anni a colpire i Karen, sono stati effttuati per rompere l’assedio di una base militare dell’esercito che era stata occupata dai miliziani. La giunta militare non ha rilasciato commenti sull’accaduto né ha confermato il bilancio dei bombardamenti.
Alla parata militare avvenuta sabato nella capitale hanno assistito le delegazioni diplomatiche di otto paesi, tra cui Cina e Russia. Il capo della giunta militare generale Min Aung Hlaing ha minacciato i manifestanti ma promesso il ripristino della democrazia dopo nuove elezioni. L’ambasciata Usa a Yangon ha invitato i cittadini americani a limitare i loro spostamenti dopo che sabato alcuni colpi d’arma da fuoco sono stati esplosi contro un centro culturale statunitense.
I militari birmani non godono certo di buona fama. Spesso funzionano più con il modello brutale dei “signori della guerra”, con propri feudi e soldati, piuttosto che come struttura centralizzata e rispondente alle autorità centrali. Inoltre la struttura sociale, religiosa ed etnica del Myanmar è un mosaico enorme e conflittuale (musulmani contro buddisti, scontri inter-etnici nel Triangolo d’Oro dove gli investimenti cinesi hanno soppiantato il mercato della droga).
Ma al momento la colpa più grande dei militari golpisti nel Myanmar sembra quella di essere diventati solo un vaso di coccio nello scontro tra potenze occidentali e Cina. Su alcune loro pagine sanguinose, l’occidente ha chiuso gli occhi spesso. E questo è bene saperlo.
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