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L’ultima “bolla” è quella che fa più male

L’economia reale del mondo – Cina e pochi altri a parte – va male, ma le borse vanno benissimo, toccando quasi ovunque i massimi storici o “di fase”. È il caso di Wall Street, dove il Dow Jones vola e il Nasdaq anche, mentre pochi ricordano che il livello attuale del secondo indice – quello relativo alle imprese hitech – tornato a 3922 punti resta pur sempre del 20% sotto il record toccato nel 2000, quando collassò insieme alla bolla speculativa della “net economy”. Ma chi se ne ricorda più, erano altri tempi...

Questo “doppio corso” delle vicende economiche globali genera una polarizzazione sociale estrema: chi vive di finanza speculativa se la gode alla grande, accumulando plusvalenze e patrimoni colossali (spesso fittizi, alcune volte reali se si tratta di immobili et similia); mentre la stragrande maggioranza della working class – di qualunque età, paese (soprattutto in quelli di più antica industrializzazione), condizione contrattuale – non riesce più a far quadrare i conti familiari e deve ridurre drasticamente il proprio livello di vita. Spesso anche sotto la soglia della pura sopravvivenza.

Qual è il segreto di questa biforcazione radicale? Non è esagerato individuarlo nelle ondate “quantitative easing” che la Federal Reserve sta portando avanti da anni, da quando la crisi si è fatta vedere in tutta la sua distruttiva presenza, ormi nell’agosto del 2007. Quantitative easing significa “allentamento finanziario”, o più prosaicamente denaro stampato dalla banca centrale e “regalato” agli investitori finanziari. Regalato perché i tassi di interesse base, quelli praticati dalla stessa banca centrale Usa, stanno a zero; mentre con quei soldi gli investitori fanno profitti.

Fin dall’inizio abbiamo definito questa politica della Fed “distribuzione gratuita di droga”, in modo che il baraccone franante della finanza globale (soprattutto di quella “basata” negli States) potesse continuare a funzionare anche in assenza di “fondamentali” che ne giustificassero i corsi.

Ora la definizione – “paradiso artificiale” – è diventata linguaggio comune anche negli ambienti più interni alla finanza globale. Basta leggere l’articolo de IlSole24Ore, qui di seguito, per verne una conferma poderosa.

Il problema è che, come sempre, la reazione degli “investitori istituzionali” a una situazione del genere – chamata anche “esuberanza irrazionale”, o “bolla speculativa” – si limita a “godersi” il periodo di vacche grasse, in attesa di un botto che sperano – riguarderà soprattutto altri. Ovvero quella stragrande maggioranza che formicola nelle metropoli alla ricerca di un’occupazione da cui trarre il minimo per vivere.

Possono permettersi un simile atteggiamento perché sono ormai fuori dal circuito delle persone riconoscibili e avvicinabili. Nell’800 o nella prima metà del Novecento i big della finanza erano noti, abitavano nelle aree esclusive delle grandi metropoli, piccole enclave blindate intorno ai palazzi della borsa e del potere. Oggi viaggiano in ignoto su jet aziendali o personali, sono per lo più sconosciuti al grande pubblico (che se la prende con “i politici” proprio quando questi hanno perso qualsiasi potere di cambiare il corso delle cose), prendono decisioni di portata globale stando al sicuro in luoghi irraggiungibili. Hanno insomma anticipato un modello operativo poi ripreso dalle forze armate Usa: basi segrete (più o meno) sparse per il mondo, da cui muovere droni per bombardare bande di straccioni incazzatissimi ma impossibilitati – o quasi – a “restituire un po’ di quel terrore”.

In mezzo ai due mondi ben poco, e in fondo sempre meno. L’evanescenza delle classi medie si può misurare a scelta, qui d anoi, prendendo a parametro i fallimenti di commercianti o il degrado della condizione degli insegnanti, il tracollo degli impiegati di banca o la tosatura senza fine del pubblico impiego. Altrove l’articolazione sociale può essere maggiore o minore, ma il processo è unitario, identico, omogeneo.

Potrà andare avanti molto? Qui la consapevolezza, anche in campo “borghese”, è una sola: no. La Federal Reserve – che ha rinviato all’inizio del prossimo anno l’avvio del temuto “tapering” (una semplice riduzione del contributo mensile “ai mercati”, oggi stabile intorno agli 85 miliardi al mese) – dovrà prima o poi invertire la tendenza. Al contrario di quanto si immagina tra i profani (compresi diversi ideologi improvvisati dei movimenti antagonisti), non si può infatti stampare denaro a volontà per un tempo indefinito. Il motivo è semplice, forse persino intuitivo: il denaro è, in prima battuta, una misura del valore delle merci e delle ricchezze. Se ne viene emessa una qunatità eccessiva, in una determinata moneta nazionale, quella moneta svaluta. E con essa tutte le merci prodotte sotto quella moneta (che diventano perciò più “competitive” sul mercato globale); ma anche i patrimoni (immobili, titoli azionari, titoli di stato, ecc). Ovvero una quota immensa del “patrimonio borsistico”, che crolla su se stesso.

Fin qui – e dal 1971 – solo gli Stati Uniti, in tutto il pianeta, hanno potuto stampare moneta a volontà senza subire, se non a tratti, forti pressioni svalutative. Hanno potuto farlo perché erano “l’impero più forte”, e la sua moneta restava credibile tanto quanto e grazie alle sue cannoniere (tutto l’apparato militare).

Ma ogni condizione ha un limite e gli Usa lo stanno toccando. Il dollaro conserva valore finché viene accettato da chiunque, ma da parte dei paesi che hanno grandi quantità di dollari nelle “riserve”sono iniziate le grandi manovre per ridurre questa pericolosa “esposizione”. Contemporaneamente il più forte esercito del mondo si è fermato sul punto di aggredire la Siria, un paese indebolito da due anni e mezzo di guerra civile per procura e quasi senza difese residue. L’egemonia statunitense sul mondo si è insomma parecchio ridotta, altri paesi o aree monetarie (Unione Europea, Brics) sono emersi come “altre polarità”, anche se al momento prive di ambizioni egemociche di tipo “imperiale”. E il vecchio gioco di stampar dollari per procurare “all’America” ciò che le serve si avvicina alla fine (un’analisi di Paul Krugman sul ruolo del dollaro, anche se decisamente “ottimistica”, si può leggere qui).

E non sarà un pranzo di gala…

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 La trappola del quantitative easing

Walter Riolfi
Ricordate la canzone «Hotel California» degli Eagles? Il ritornello, tradotto in italiano, recitava grosso modo così: Benvenuti all’Hotel California, un così bel posto, dall’aspetto così carino. Ma la chiusa suonava spaventosa come un incubo: Puoi fare il check out tutte le volte che vuoi, ma non puoi mai andartene. Hotel California ricorda, nell’originalissimo accostamento suggerito da Paul Mortimer-Lee, capo economista di Bnp-Paribas, i quantitative easing della Fed, in particolare quello in corso: una sorta di apparente paradiso, ma dal quale non si potrà più uscire. Prima o poi, Janet Yellen, che a febbraio succederà a Bernanke, dovrà pur metter fine a questa pericolosissima e assai poco ortodossa politica monetaria. Ma solo al prezzo di grossi sconvolgimenti sui mercati finanziari: su quelli obbligazionari in primo battuta, ma anche sulle borse. In alcuni Paesi emergenti, specie in Africa, stando a uno studio della Banca Internazionale dei Regolamenti (Bis), le conseguenze potrebbero essere catastrofiche.
Nel frattempo godiamoci questo paradiso artificiale. Lo dice anche Michael Harnett, strategist di Merrill Lynch (peraltro assai preoccupato per il livello delle valutazioni azionarie e obbligazionarie), adducendo serie statistiche: negli anni in cui Wall Street era volata nei primi 10 mesi dell’anno, era poi anche (quasi sempre) salita a novembre e dicembre. Godiamoci i prossimi mesi: almeno fino a quando (metà gennaio) Wall Street tornerà a tormentarsi sul tetto al debito pubblico americano. Godiamoci anche febbraio e marzo, probabilmente, poiché la Fed non dovrebbe, secondo gli operatori, iniziare a ridurre il Qe prima di allora. Godiamoci tutti i mesi successivi in cui potrà durare intatta la politica dei Qe, almeno fino a quando la trappola in cui s’è rinchiusa la Fed non diventerà un incubo per i mercati mondiali. Ma, più a lungo e più in alto i mercati saliranno, peggiore sarà l’inevitabile caduta, avverte Bnp.
Intanto la gran parte degli investitori si gode questo paradiso artificiale. Il paradosso è che i grandi nomi della finanza sono assai preoccupati. Da Bill Gross di Pimco a Larry Fink di BlackRock, al recente premio Nobel Robert Shiller, a Warren Buffett, a Jp Morgan, Citi, ovviamente Bnp, ma anche Merrill Lynch e, in parte, Goldman Sachs, sono tutti allarmati e quasi tutti parlano di esuberanza irrazionale, se non espressamente di bolla speculativa. Paul Singer, fondatore di Elliott Management, un hedge fund di New York che era solito far meglio della media dei concorrenti e spesso anche dell’indice S&P, è disperato: il suo fondo guadagna poco di questi tempi e l’ultimo dei piccoli investitori, comprandosi un Etf sull’indice, fa di gran lunga meglio. E se si comprasse un fondo a leva, raddoppierebbe i guadagni, come molti, infatti, stanno facendo. «È la liquidità», che muove il mercato, grida Tobias Levkovich strategist di Citi, «non gli utili operativi» (la cui crescita tende a zero), «non i fondamentali». La qual cosa non gli impedisce di vedere l’S&P a 1.900 a fine 2014: stima assai prudente, visto che qual 7% che ancora mancherebbe per raggiungere l’obiettivo, la borsa americana potrebbe guadagnarlo nei prossimi due mesi.
Anche nel 1999-2000 e nel 2006-2008, qualsiasi piccolo investitore riusciva a far meglio dei grandi nomi della finanza: bastava comprare senza farsi problemi. Ma in quei periodi c’era almeno qualcuno tra i grandi investitori che tentava spiegazioni filosofiche sugli scenari dei mercati e dell’economia e parlava di cambiamenti epocali: la rivoluzione Internet del 2000 o «Il nostro audace nuovo mondo» di GaveKal nel 2006. E sappiamo tutti come sono andate a finire le cose. Questa volta nessuno si spreca in speculazioni filosofiche. Specula semplicemente, perchè la Fed glielo consente o perchè la Fed lo inviterebbe a fare così. Questa opportunistica traduzione della politica monetaria ad uso dei mercati aveva raggiunto un culmine nel maggio scorso e s’era smorzata al primo ventilare la parola tapering (dimagrimento del Qe). Oggi quel culmine è stato abbondantemente superato.

 

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