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Francia. La guerra di Macron contro i disoccupati

Il Presidente francese Emmanuel Macron non ha fai fatto segreto del suo disprezzo nei confronti dei disoccupati: era il 16 settembre 2018 quando, rivolgendosi direttamente ad un uomo di 25 anni, che gli aveva spiegato le difficoltà di trovare un lavoro nel settore dell’orticoltura nonostante i suoi ripetuti sforzi, Macron aveva risposto che “cammino per strada e te lo trovo io un lavoro”.

Era il 2018 – il mondo prima del Covid-19 – e già il Presidente Macron dava prova del suo evidente distacco dalla realtà sociale, fatta di precarietà diffusa e disoccupazione di massa, aggravatesi ulteriormente con lo scoppio della pandemia e i mesi di lockdown, tra prima, seconda e terza ondata di contagi.

La crisi economica e sociale ha portato alla distruzione di 283.900 posti di lavoro nell’intero 2020, secondo i dati pubblicato a marzo dall’INSEE, recuperando parzialmente il tonfo registrato nel primo trimestre (-700.000). Su base annua, il calo ammonta a 320.300 posti di lavoro nel settore privato, mentre 36.200 posti di lavoro sono stati creati nel settore pubblico.

Da questo punto di vista, il 2021 non si prefigura affatto come un anno di miglioramento per i lavoratori, visti i numerosi “piani sociali” fatti di ulteriori delocalizzazioni produttive, chiusure di impianti e licenziamenti massicci. Da Air France a Renault, da Elior a Auchan, passando per Sanofi e Nokia, oltre 85.000 lavoratori sono condannati a, o rischiano di, essere licenziati.

In piena tempesta economica, il Presidente Macron mantiene saldi il progetto di smantellamento pianificato dello Stato sociale in Francia e di regressione dei diritti sociali di lavoratori, disoccupati, pensionati e studenti.

Nel frattempo, conferma la sua gestione pro-padronale della crisi, continuando a concedere ingenti regalie a grandi imprese, in particolare a multinazionali che non si sono fatte alcuno scrupolo nel distribuire dividendi stellari anche in piena pandemia.

Per il governo francese la protezione sociale, come quella sanitaria, dei lavoratori è subordinata ai profitti e agli interessi padronali, tant’è che anche il preannunciato “piano di riaperture” dal mese di maggio sembra esser ancora una volta dettato non solo dalle esigenze, ma proprio dalla bocca e dalla mano del MEDEF (la Confindustria francese).

È in questo contesto che il governo ha deciso di portare a compimento la riforma della “assurance chômage”, ovvero dell’indennità di disoccupazione, prevista inizialmente per il 1° aprile dello scorso anno e temporaneamente rinviata solo a causa di una pandemia mondiale. La riforma colpirà una platea di circa 1,15 milioni di persone in cerca di lavoro, le quali vedranno ridursi il proprio sussidio di disoccupazione.

Il decreto sulla “assurance chômage” è apparso nel Journal Officiel lo scorso 31 marzo e prevede l’entrata in vigore della riforma a partire dal 1° luglio. Il rapporto elaborato dall’Unédic sull’impatto della riforma ha aggiornato la cifra di persone colpite da questo cambiamento, rispetto alle 800.000 iniziali delle stime del Ministero del Lavoro).

La riforma prevede un inasprimento dei requisiti di ammissibilità: attualmente è sufficiente aver lavorato 4 mesi sui 28 trascorsi; il governo invece prevede di condizionare l’accesso al sussidio all’aver lavorato 6 mesi sui 24 trascorsi. Circa 710.000 persone verranno immediatamente colpite da questa misura, mentre 190.000 non avranno diritto al sussidio nel primo anno dall’entrata in vigore della riforma e 285.000 persone vedranno il loro accesso posticipato in media di 5 mesi.

Inoltre, la riforma introduce anche una revisione del metodo di calcolo dell’indennità di disoccupazione. Finora erano considerati esclusivamente i giorni lavorati; ora il testo inserisce nel conteggio anche quelli non lavorati, prendendo in considerazione anche i giorni di malattia e i congedi di maternità.

Considerando la platea complessiva di 1,15 milioni di persone colpite dalla riforma, le prestazioni diminuiranno in media di circa il 17%. Inoltre, per circa 365.000 di queste, il calo potrebbe arrivare fino al 43%, ovvero passare da una media di 885 euro netti mensili a 662 euro: una significativa diminuzione delle risorse economiche per chi, già nelle condizioni attuali, fatica ad arrivare persino alla terza settimana del mese.

La riforma colpirà duramente chi (soprav)vive grazie a contratti precari, interinali o a tempo parziale. Questa massa crescente di persone, tra cui principalmente i giovani, non solo è costretta a subire una condizione di perenne precarietà economica fatta di ricatto e sfruttamento, ma sarà ulteriormente penalizzata appena il contratto di lavoro terminerà.

Ad esempio, una persona che ha già maturato il diritto all’indennità e che ha lavorato 6 mesi nell’ultimo anno riceve 1.026 euro; dopo l’entrata in vigore della riforma, riceverà solo 771 euro.

Riducendo l’importo dei sussidi per la disoccupazione, il governo punta ad un risparmio annuo di circa 2,3 miliardi di euro, vere e proprie “economie” lacrime e sangue fatte sulla pelle delle persone più fragili e sfruttate.

Questo non lo diciamo soltanto noi, fieri della nostra visione “di parte e di classe”. Ad ammettere un problema sul calcolo dell’indennità di disoccupazione è stata persino la  ministra del Lavoro, Elisabeth Borne, la quale in una lettera indirizzata all’Unédic ha riconosciuto che i lavoratori che sono stati in congedo di maternità, in malattia o in “chômage partiel” (corrispettivo della cassa integrazione, seppur con differenze sostanziali) saranno penalizzati dalla riforma e vedranno ridotto il loro sussidio.

La ministra parla di un “effetto collaterale indesiderabile” della riforma, non potendo dichiarare espressamente che questo è in realtà il vero obiettivo dell’intera impalcatura del progetto. Ha dichiarato di esser pronta a “rettificare”, ma si tratta di dichiarazioni volte a stemperare, per quanto possibile, le “polemiche” e le opposizioni da parte dei sindacati.

Se il tasso di disoccupazione nel 2020 è rimasto abbastanza stabile (8%, ovvero -0,4 punti percentuali rispetto al 2019, secondo i dati dell’INSEE), grazie al ricorso massiccio allo strumento dello “chômage partiel”, è aumentato il numero dei disoccupati – appartenenti alla categoria A del Pôle emploi – che si attesta a 3.816.700 persone alla fine del 2020 (+7,5% su base annua).

Se a queste si aggiungono anche gli appartenenti alle categorie B e C, ovvero coloro rispettivamente in attività ridotta a breve e lungo termine, il numero di persone in cerca di lavoro supera i 6 milioni.

Per avere un quadro più generale della situazione sociale in Francia, basti considerare gli effetti sulle disuguaglianze economiche e sociali delle politiche attuate negli ultimi anni e specialmente durante la pandemia.

Si stima che circa 10 milioni di francesi vivano sotto la soglia di povertà (i dati ufficiali più recenti fanno riferimenti al 2018, con 9,3 milioni persone che vivono con meno di 1.063 euro al mese) mentre 2,1 milioni di francesi hanno fatto ricorso al sostegno alimentare dall’inizio del 2021.

Allo stesso tempo, secondo l’ultima classifica di Forbes, 42 miliardari francesi possiedono 510 miliardi di dollari, un piccolo pugno di ultra-ricchi che ha continuato a guadagnare e ad accrescere il proprio patrimonio anche in piena pandemia (+175 miliardi di euro tra marzo e dicembre 2020). Inoltre, i “paperoni” francesi sono tra i più ricchi d’Europa, come riporta Lucas Chancel, economista al Laboratorio sulle disuguaglianze globali dell’École d’économie de Paris.

Ma guai a tassare chi fa profitti durante la crisi sanitaria ed economica! Il relatore generale per il bilancio, Laurent Saint-Martin (de La République En Marche, il “movimento” di Macron) ha denunciato “la violenza della proposta e l’indecenza della formulazione” della proposta di legge avanzata da Mathilde Panot, deputata de La France insoumise all’Assemblée Nationale.

La proposta de La France insoumise mira a “tassare al 50% l’eccedenza dei profitti reali realizzati durante la crisi”, introducendo una tassa calcolata tenendo conto della differenza tra i profitti realizzati per il primo esercizio finanziario che termina il 30 giugno 2020 e quelli realizzati nello stesso periodo nel 2019, solo per le aziende con un fatturato superiore a 750 milioni di euro.

Quella che da qualche testa d’uovo è considerata un’eresia indica invece il suggerimento che è arrivato anche dal Fondo Monetario Internazionale – non di certo un’avanguardia socialista – qualche settimana fa. Inoltre, secondo un recente sondaggio, il 72% dei francesi sarebbe favorevole ad una tassa sui redditi più alti.

Tuttavia, nonostante la crisi galoppante e la bomba sociale pronta ad esplodere nell’anno che precede le elezioni presidenziali, il governo ha deciso di stanziare 2,8 milioni di euro per monitorare la reputazione sui social network e per “rilevare, analizzare e misurare le preoccupazioni e le aspettative degli utenti di Internet per quanto riguarda le sue azioni in particolare e l’attualità in generale”.

Un messaggio forte e chiaro arriverà dalla giornata di mobilitazione nazionale di oggi (23 aprile) lanciata dai sindacati CGT e Union syndicale Solidaires per il ritiro della riforma della “assurance chômage”. Tra i promotori della mobilitazione, ci sono anche i precari della cultura e dello spettacolo, i quali chiedono un prolungamento dell’anno bianco per i lavoratori intermittenti del settore e la sua estensione a tutti i lavoratori precari, con la neutralizzazione del periodo di crisi sanitaria per il calcolo dei diritti d’accesso all’indennità di disoccupazione.

Questa manifestazione è “un punto d’appoggio per costruire e amplificare le mobilitazioni per creare nuove giornate d’azione tra cui l’appuntamento annuale di lotta del Primo Maggio”, scrivono le organizzazioni sindacali in un comunicato.

Riecheggia da diverse parti l’urgente necessità di una “convergence des luttes” durante i cosiddetti “venerdì della rabbia sociale” promossi dalle occupazioni di oltre 100 teatri in tutta la Francia.

Sulla riforma della “assurance chômage” si apre una nuova battaglia, l’imperativo rimane sempre lo stesso: “organizzare, lottare, contrattaccare”.

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