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Dove va la Bielorussia de “l’ultimo dittatore d’Europa”?

Lo scorso 8 agosto, il Ministro degli esteri bielorusso, Vladimir Makej ha ricordato come, nel 2019, a Minsk, l’ex Consigliere per la sicurezza nazionale di Donald Trump, John Bolton, avesse parlato della necessità di eliminare “zone grige” tra Russia e NATO e, dunque, dell’esigenza di inglobare Ucraina e Bielorussia nell’Alleanza atlantica.

Lo stesso giorno, in una dichiarazione del Partito popolare europeo firmata dal capogruppo, il tedesco Manfred Weber, dalla lettone Sandra Kalniete e dal lituano Andrius Kubilius (in questi tre nomi, c’è tutto un programma) si invita a prepararsi a una rivoluzione in Bielorussia, che porterà a un inevitabile cambio di potere, nonostante il sostegno russo.

«Il regime cadrà» si afferma, «e la vittoria del popolo bielorusso è inevitabile; è solo questione di tempo. L’Unione Europea deve prepararsi alla vittoria della rivoluzione democratica». In questo vero e proprio editto, si ricorda anche che «Il parlamento europeo ha già adottato una “Piattaforma per la lotta all’impunità in Bielorussia”. Lukašenko e alti funzionari del regime, come pure i loro scagnozzi, dovranno essere giudicati per i loro crimini».

Il giorno successivo, nel corso di una “Grande conversazione” coi giornalisti, in occasione dell’anniversario delle elezioni presidenziali dell’agosto 2020, e delle successive ondate di protesta, bats’ka Lukašenko stesso ha dichiarato che «molto presto» lascerà il posto di Presidente. Non è del tutto chiaro se si riferisse alla prossima tornata elettorale, prevista per il 2025, o alludesse invece a proprie dimissioni, o a qualcos’altro.

A parere del politologo bielorusso Dmitrij Bolkunets, non solo Bruxelles, ma anche Mosca e Pechino ritengono che «il tempo di Lukašenko sia ormai passato e stanno tenendo il conto alla rovescia»: il Presidente e la sua cerchia hanno tentato di «spegnere gli incendi», ha dichiarato Bolkunets a Lenta.ru, «ma a tutt’oggi questi non sono spenti».

Inoltre, l’opposizione qualcosa «ha ottenuto: mai prima d’ora una crisi politica era durata così a lungo, al massimo alcuni mesi» e il Presidente «può solo ritardare il momento» dell’uscita di scena.

Il politologo russo Andrej Perla, intervenendo su IA Realist, afferma d’altra parte che «per fronteggiare una “rivoluzione colorata” sono sufficienti due cose: la consapevolezza della propria legittimità da parte delle autorità e la coscienza della legittimità delle autorità in carica da parte della maggioranza del popolo. In Bielorussia ci sono state entrambe le cose. In più, gli insorti hanno avuto sfortuna col Presidente: si è rivelato un uomo coraggioso e non ha mai avuto intenzione di arrendersi… Naturalmente, rimane la possibilità di destabilizzazione della situazione; ma questo è un problema della polizia e dei servizi di sicurezza».

Quest’ultima considerazione sembra sottintendere un fattore tutt’altro che secondario nelle “rivoluzioni colorate” in generale, e nella situazione bielorussa nel caso specifico: l’agente esterno, sia economico, che più strettamente politico.

Per limitarsi alle ultime esternazioni, ecco che Vilnius rifiuta di riconoscere legittimità agli accordi internazionali della Bielorussia (così come non riconosce Lukašenko presidente): lo ha dichiarato il Ministro degli esteri lituano Gabriel Landsbergis nel corso di una conferenza stampa comune con Svetlana Tikhanovskaja.

La quale Tikhanovskaja ha detto di sapere cosa occorra per far cambiare condotta a Lukašenko: «una nuova ondata di sanzioni di tutti i paesi democratici: USA, Gran Bretagna, Canada, Unione Europea e altri»… e ho detto tutto, avrebbe commentato Peppino De Filippo.

Sappiamo «che le sanzioni non sono pallottole d’argento» che, evidentemente, a parere della “leader dell’opposizione”, dovrebbero esser impiegate contro quel lupo mannaro del Presidente bielorusso, «ma contribuiscono a fermare le repressioni».

A proposito di sanzioni, Kommersant (il Sole 24 ore russo) calcola che dal momento della rielezione di bats’ka, un anno fa, contro la Bielorussia siano state attivate sanzioni, tra finanziarie e commerciali, per 1,7 miliardi di dollari (il 2,9% del PIL) e avviate 4.600 cause penali.

Nell’aprile scorso, altre sanzioni contro 9 tra le maggiori imprese bielorusse, tra cui “Belneftkhim”, “Grodno azot” e “Naftan”; a maggio, anche la UE ha attivato sanzioni contro i principali settori export bielorussi. Il tutto, giustificato con i calcoli degli exit-pool europeisti, secondo cui Lukašenko avrebbe ottenuto non l’80,1% dei voti, bensì il 10,09%, contro il 71,28% di Svetlana Tikhanovskaja; così che, a scrutini avvenuti, l’insieme dei “paesi democratici” aveva definito il voto «non libero e ingiusto» e non lo riconobbe.

Insieme alle “sanzioni democratiche” e per convincere i bielorussi della loro democraticità, l’americana USAID mette a concorso un posto, riservato a cittadini USA, per Consigliere senior per i rapporti con la società civile ucraina e bielorussa.

Secondo la russa RT, il budget annuale della rappresentanza USAID in Ucraina e Bielorussia è di circa 200 milioni di dollari e, dato che si tratta di una regione di «importanza strategica» per gli USA, la rappresentanza opererà «in stretta collaborazione» con le strutture governative del paese ospitante e coi rappresentanti della società civile. Particolare importanza avrà l’attività di illustrazione «delle priorità del governo USA».

Già nel 2017, RT scriveva che il “piano quinquennale” 2017-2022 per la democrazia nella ex repubblica sovietica prevedeva che circa 300 attivisti e funzionari statali avrebbero seguito corsi periodici di formazione in USA su «l’avanzamento della democrazia», secondo «un programma interdisciplinare di scambio della Community Connections per l’assistenza agli stati stranieri» che, tra il 2005 e il 2016, aveva già “istruito” 600 attivisti bielorussi.

RT ricordava come la USAID sia attiva in Bielorussia sin dal 1999, ma, per le restrizioni imposte da Minsk, alcune organizzazioni di opposizione locali abbiano trasferito le proprie sedi in Polonia o nei Paesi baltici, da dove coordinano le attività in territorio bielorusso.

Si arriva così a un nodo critico della questione bielorussa.

«C’è stata una “rivoluzione colorata” in Bielorussia?» Si chiedeva in questi giorni il politologo bielorusso Vsevolod Šimov su Rubaltic.ru, e rispondeva che la Minsk ufficiale definisce quanto accaduto dopo il 9 agosto 2020 un tentativo di rivoluzione colorata, una rivolta e persino un blitzkrieg, alimentato dall’esterno, volendo l’Occidente eliminare lo sgradito regime politico bielorusso, per indebolire ulteriormente la Russia.

Dunque, se per “rivoluzione colorata” si intendono «le agitazioni ispirate dalla rete di influenza occidentale con l’obiettivo di rovesciare il regime, allora è difficile non vedere elementi di una “rivoluzione colorata” negli eventi bielorussi».

Ma il punto è: com’è che in Bielorussia ci sono tutte queste ONG, fondazioni, iniziative, “media indipendenti”? Non è un mistero che «tutti questi soggetti abbiano operato con il tacito consenso delle autorità bielorusse, nel quadro di una politica estera multivettoriale e di contenimento dell’influenza russa nella repubblica».

Il regime bielorusso, scrive Šimov, «contava sul fatto che la società civile filo-occidentale non sarebbe andata oltre il quadro assegnatole, e l’Occidente stesso fosse sufficientemente soddisfatto di una Bielorussia multivettoriale guidata da Lukašenko, quale strumento per contenere la Russia».

Alla vigilia del voto del 2020, con la vicenda dei 33 militari della società privata russa “Wagner” arrestati a Minsk, spavaldamente Lukašenko aveva detto: «Non c’è bisogno di spaventarci con gli americani o la NATO». Né gli uni né l’altra «hanno inviato qui 33 persone». Anche se poi, appena un paio di settimane dopo, truppe bielorusse venivano dispiegate ai confini occidentali.

Sta di fatto, sostiene Šimov, che a Minsk non si erano del tutto sbagliati: l’Occidente, preso nella propria crisi, nella pandemia, impegnato nelle presidenziali USA, non aveva pianificato un cambio di regime in Bielorussia: almeno, non nel 2020. «Può darsi che la “rete sociale” abbia agito autonomamente»: una sorta di vertigine da successo, con la rete filo-occidentale che, sopravvalutando le proprie forze, aveva deciso che il «regime bielorusso fosse abbastanza marcio da poter essere abbattuto».

Il calcolo, però, non era preciso. Una “rivoluzione colorata” raggiunge il «successo quando riesce a ottenere l’appoggio di una parte dell’apparato statale e almeno la neutralità delle forze di sicurezza. Il che non si è verificato».

Ma non ha completamente vinto nemmeno Lukašenko: Minsk ha «perso la sua carta vincente preferita: il bilanciamento tra Occidente e Oriente, che le ha sinora permesso di ricevere vantaggi in entrambe le direzioni». Mosca ha iniziato da tempo a ridurre sistematicamente i sussidi all’economia del suo alleato “multivettore” e il deterioramento dei rapporti Minsk-Mosca potrebbe rafforzare «la fiducia della rete filo-occidentale nelle proprie forze».

In effetti, non sembrano esserci progressi nella realizzazione dello “Stato Unitario” russo-bielorusso, mentre l’opposizione filo-occidentale, «comunque la si giudichi, offre per molti un’immagine attraente: “fuga da Mosca” e costruzione di uno stato sovrano sotto gli auspici dell’Occidente».

Al contrario, «l’approccio multivettoriale di una Bielorussia come “centro d’Europa”, neutrale, amica di tutti, che fino a un certo punto ha anche funzionato, è del tutto esaurito».

Minsk continua a «eludere un’alleanza a tutti gli effetti con la Russia, sostituendola con vaghe speculazioni su una sorta di “grande Eurasia”, il cui avamposto occidentale dovrebbe essere la Bielorussia».

Bats’ka lo ha ribadito anche nella “Grande conversazione” del 9 agosto: la Bielorussia non ha bisogno di unirsi alla Russia per sviluppare l’integrazione e Mosca «non ha bisogno di un’altra bega», ha detto; la situazione potrebbe cambiare, ma «ora non si può pensare a distruggere lo stato bielorusso».

Il mondo è cambiato, ha detto Lukašenko: per «sviluppare l’integrazione economica, non è necessario includere qualcuno nella propria compagine». La Bielorussia è uno Stato sovrano e indipendente, e «quando sento accenni del tipo “nella compagine della Russia” e simili, penso sempre con la testa di Putin: la Russia ha davvero bisogno di un altro rompicapo? No».

D’altra parte, ha detto, «la Russia non ha nessun altro come alleato» tranne la Bielorussia; forse, «ovviamente, sarebbe meglio se fosse la Cina a essere vostro alleato», ha detto rispondendo a un giornalista russo; e questo «potrebbe essere anche meglio per il mondo, ma ahimè», non è così.

E non ha mancato di ribadire, come aveva fatto alla vigilia del voto di un anno fa e anche in altre occasioni, il forte disappunto per le «interferenze di certi “oligarchi russi” negli affari della Bielorussia».

Per la verità, a partire dal voto del 9 agosto 2020, Minsk ha notevolmente ridotto i rimbrotti all’indirizzo di Mosca, così come in Russia hanno preso campo discorsi secondo cui, dato che bats’ka non ha nessun altro su cui fare affidamento, il processo di integrazione dei due stati è destinato ad accelerare.

Ma il Presidente bielorusso non mostra alcuna fretta, anzi. Sempre nel corso della “Grande conversazione”, ad esempio, toccando il tema del riconoscimento della Crimea russa, ha dichiarato: «Quand’è che Lukašenko riconoscerà la Crimea? … Quando l’ultimo oligarca in Russia riconoscerà la Crimea e inizierà a rifornirla di merci, allora anche per me la questione non avrà tempo di arrugginire».

A Mosca non scordano certo gli abbracci di bats’ka con Petro Porošenko e le sue simpatie per la «fraterna Ucraina», ribadite più di una volta anche dopo il 2014; ma, l’alternativa, al momento, appare quantomeno pericolosa.

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