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Le ricerche sabotate per vendere la terza dose

I ricercatori di Pfizer e BioNTech hanno pubblicato i dati aggiornati a marzo 2021 sull’efficacia del vaccino anti-Covid a mRNA più usato nel mondo. Le cifre mostrano un declino della protezione del vaccino dal Covid-19, che da un iniziale 96% scende all’83% nei primi 4-6 mesi dopo la somministrazione.

Un valore comunque elevato, e che rimane vicino al 100% se si esamina la capacità di evitare le forme più gravi della malattia.

I dati provengono da uno studio clinico su circa 44 mila partecipanti (metà dei quali avevano ricevuto un placebo), lo stesso che fornì alle agenzie regolatorie di tutto il mondo i dati a supporto dell’autorizzazione di emergenza del vaccino. Si tratta di uno studio realizzato secondo gli standard scientifici più rigorosi: il campione statistico è ampio e bilanciato per fasce di età, genere e condizioni di salute.

Inoltre, né i volontari né i ricercatori erano al corrente di chi avesse ricevuto il placebo, per evitare distorsioni dei dati nello svolgimento dello studio al momento dell’analisi dei dati – un sistema detto «doppio cieco».

Lo studio, iniziato nel luglio 2020, è ancora in corso: oltre a valutare la protezione del vaccino, un suo obiettivo è rilevare l’eventuale calo dell’immunità e stabilire la necessità di una terza dose. La documentazione presentata dall’azienda prevedeva che il monitoraggio durasse fino a maggio 2023.

Secondo la comunità scientifica, solo questi studi «randomizzati e controllati» permettono di stabilire se un farmaco o un vaccino è davvero efficace e rappresentano la bussola su cui pianificare eventuali campagne vaccinali di richiamo e le relative tempistiche.

A un anno dall’inizio del test, ormai i ricercatori dovrebbero avere dati in grado di stabilire se le campagne vaccinali avviate in Europa e Usa coprano la popolazione almeno fino alla fine del 2021. Invece, come scrivono le stesse aziende, lo studio «randomizzato e controllato» si concluderà anzitempo e questi saranno gli ultimi dati affidabili sulla durata dell’immunità.

Dei 44 mila partecipanti, la gran parte ha scelto di conoscere il proprio status di vaccinazione, ed eventualmente vaccinarsi secondo le regole stabilite localmente dai Paesi in cui si è svolto lo studio. I dati relativi alla copertura a sei mesi di distanza dalla vaccinazione riguardano solo il 7% dei partecipanti iniziali, e ormai la percentuale di volontari ancora arruolati nello studio in «doppio cieco» è vicina allo zero.

Pfizer e BioNTech giustificano la conclusione anticipata dello studio con «la necessità etica e pratica di immunizzare chi aveva ricevuto il placebo in base all’autorizzazione all’uso di emergenza e alle raccomandazioni delle autorità di sanità pubblica». In altre parole: sarebbe antietico negare un vaccino disponibile mettendo a rischio la vita di migliaia di volontari per sole ragioni di ricerca.

Nel dicembre del 2020, durante il processo di autorizzazione di emergenza, la Food and Drug Administration (l’agenzia regolatoria statunitense) aveva chiesto all’azienda di prolungare lo studio randomizzato salvaguardando allo stesso tempo la tutela dei partecipanti con l’adozione della strategia di «cross-over»: ottenuta l’autorizzazione, chi inizialmente era nel gruppo placebo sarebbe stato vaccinato, e a chi aveva ricevuto il vaccino sarebbe stato somministrato il placebo, senza svelare gli status dei due gruppi.

In questo modo, tutti sarebbero stati vaccinati, il rigore scientifico sarebbe stato preservato ma esaminando la differenza di protezione nei due gruppi si sarebbe potuta misurare la durata dell’immunità.

L’azienda aveva rifiutato di adeguarsi alla richiesta dell’agenzia regolatoria. E anche Moderna aveva comunicato la stessa indisponibilità. ritenuta «troppo onerosa» dal punto di vista organizzativo.

Le aziende si erano tuttavia impegnate a spingere i volontari a non abbandonare lo studio. 18 esperti, tra cui uno della Fda, avevano scritto un appello in cui l’ipotesi di fermare il trial dopo soli sei mesi era ritenuta «disastrosa».

Secondo un altro articolo sul New England Journal of Medicine firmato dalla task force vaccinale dell’Oms «l’opportunità di ottenere evidenze affidabili sugli effetti a lungo termine verrebbero cancellate da una vaccinazione immediata dei partecipanti e dalla rivelazione del loro status di vaccinati o meno».

Come poi hanno rivelato i volontari in numerose testimonianze, nonostante le promesse pubbliche le aziende avevano già proposto ai volontari di abbandonare il gruppo del placebo per ricevere il vaccino, sabotando le loro stesse ricerche.

La Pfizer ora promette di continuare a monitorare i partecipanti anche in questa fase. «L’osservazione dei partecipanti per due anni all’interno dello studio, insieme ai dati sull’efficacia provenienti dalla campagna vaccinale, stabiliranno il beneficio di un richiamo dopo un periodo più lungo».

Ma si tratta di dati spuri, raccolti in modo meno rigoroso, senza «doppio cieco» e quindi maggiormente esposti a distorsioni. Sapere di essere vaccinati da poco o da diversi mesi, per un vaccino di cui si conosce un calo di protezione, può indurre a tenere comportamenti diversi e a influenzare l’esposizione al rischio tra un gruppo e l’altro, ad esempio.

Per avere evidenze solide dai dati delle campagne vaccinali serviranno tempi più lunghi, perdendo il vantaggio acquisito da studi clinici partiti già un anno fa.

Le decisioni politiche sulla terza dose però devono essere fatte in questi mesi, e non potranno aspettare più di tanto. Senza dati raccolti in maniera rigorosa, la necessità di un richiamo sarà affidata a scelte più influenzabili da fattori emotivi e suggestioni collettive.

Di questa incertezza sulla reale efficacia del vaccino approfitteranno le aziende, che ai propri investitori hanno già parlato della terza dose come di un’«opportunità significativa» per alzare il prezzo del prodotto. Gli effetti sono già visibili. In Israele, la somministrazione della terza dose è già iniziata.

L’Unione europea ha prenotato 900 milioni di dosi per i richiami del 2022 (più un’opzione di pari valore). Al prezzo di 19,5 euro a dose, noto solo grazie a indiscrezioni visto che i contratti sono segreti, si tratterebbe di quasi 20 miliardi di euro: un incasso gigantesco, che da solo vale oltre la metà dell’intero ricavo dell’azienda nel 2020 (35 miliardi di euro).

In teoria, le agenzie regolatorie avrebbero i mezzi per opporsi a queste strategie, che hanno più a che fare con il marketing che con la scienza. Le linee-guida della FDA prevedono testualmente che «la FDA non ritiene che la disponibilità di un vaccino anti-Covid19 in base a un’autorizzazione di emergenza rappresentino una ragione sufficiente per fermare la prosecuzione in doppio cieco di uno studio clinico in corso».

Perciò l’agenzia potrebbe, almeno sulla carta, revocare l’autorizzazione per la violazione delle norme da parte delle aziende.

Ma è impensabile che ciò accada, perché priverebbe interi continenti dei vaccini anti-Covid attualmente più efficaci in circolazione per mere ragioni di accuratezza scientifica. In tempo di emergenza le aziende hanno il coltello dalla parte del manico e sanno approfittarne.

La casa farmaceutica Gilead, ad esempio, ha ottenuto un’autorizzazione per l’antivirale sperimentale remdesivir dopo un trial su pochi pazienti svolto durante la prima ondata di Covid negli Usa e interrotto anzitempo quando i risultati preliminari si erano dimostrati positivi.

Uno studio più ampio svolto dall’Oms ha dimostrato poi che il remdesivir è sostanzialmente inefficace. Ma ormai gli ordinativi del remdesivir sono saliti alle stelle. Il farmaco ha fruttato oltre due miliardi di dollari di ricavi nel 2020, spingendo i ricavi dell’azienda a oltre 24 miliardi di dollari per il 2020. Secondo gli analisti, anche il bilancio 2021 dovrebbe condurre a risultati simili.

È quello che avviene quando lo sviluppo farmaceutico è integralmente subappaltato alle aziende private, che dalle ricerche fino ai brevetti hanno conquistato il potere di imporre ai governi le regole più vantaggiose per sé.

  * da il manifesto

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