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Afghanistan: la sconfitta occidentale non è solo sul campo

Lo scorso 24 agosto, all’ennesima riunione della Organizzazione del trattato per la sicurezza collettiva (Organizatsija Dogovora o Kollektivnoj bezopasnosti – ODKB: Tadžikistan, Kazakhstan, Armenia, Bielorussia, Kyrgyzstan, Russia), era già data per assodata una salda permanenza al potere dei Talebani, notando però che, almeno in questa fase, difficilmente essi si avventureranno in una politica espansiva in Asia centrale.

Altro discorso, invece, per cui tutti i rappresentanti della ODKB avevano espresso timori, per quanto riguarda la probabilità di narcotraffico, contrabbando di armi, arruolamento di adepti, penetrazione di gruppi terroristici; i Talebani, si era detto, potrebbero anche iniziare a diffondere la propria ideologia nei paesi dell’Asia centrale, tanto più se «determinate forze occidentali» li promuovessero a «destabilizzatori ideologici» per l’Asia centrale e la Regione autonoma cinese dello Xinjiang-Ujgur.

E il Ministro della difesa russo Sergej Šojgù aveva aggiunto che gli USA «si preoccupano non dell’Afghanistan, ma solo di aprire nuove rotte di transito e strutture logistiche negli stati dell’Asia centrale, dispiegandovi proprie basi militari».

Questo, nello specifico dell’area centro-asiatica. Intanto, però, Vladimir Pavlenko nota su iarex.ru, come lo “spartiacque afgano” abbia già spaccato in due i membri permanenti del Consiglio di sicurezza ONU: USA, Gran Bretagna e Francia da una parte, Russia e Cina dall’altra.

Ciò non foss’altro che per la diversità di comportamento a Kabul, con la precipitosa fuga di diplomatici e specialisti yankee e i «satelliti UE della NATO che tenevano un urgente vertice straordinario dei ministri degli Esteri, concentrandosi sull’evacuazione del proprio personale diplomatico», mentre le ambasciate «russa e cinese, come anche i diplomatici di Pakistan e Iran, continuavano a operare» (quasi) normalmente.

D’altronde, come ha scritto The Times, se Boris Johnson «invitava gli alleati occidentali a non affrettarsi a riconoscere i talebani», Russia e Cina non hanno ritenuto di fare una «tale promessa, dato che avevano già stabilito rapporti» con essi.

Ma il gioco europeo, dice Pavlenko, è stato scoperto da Josep Borrell che, dopo il vertice dei Ministri degli esteri UE del 17 agosto, ha spiattellato che «l’Unione europea non dovrebbe consentire a Russia e Cina di prendere il controllo della situazione in Afghanistan e diventare i principali sponsor di Kabul».

Dopo il ritiro forzato dal paese e il catastrofico rapido fiasco del loro regime fantoccio, sembra che gli USA incoraggino gli “alleati” europei a togliere le castagne dal fuoco per loro: ecco allora che Borrell parla di “competizione” nella partecipazione alla ricostruzione dell’Afghanistan.

Ma sono gli stessi Talebani, continua Pavlenko, a illustrare bene quanto questo non sia pane per i denti europei: il loro portavoce, Suhail Shaheen, ha dichiarato che gli altri Paesi dovrebbero non solo rispettare la scelta degli afgani, ma anche aiutare il Paese nella ricostruzione; parole, nota Pavlenko, che «somigliano molto a un “trolling” dell’Occidente, ora che l’iniziativa è chiaramente passata a Russia e Cina».

E se l’Occidente farà qualcosa in Afghanistan nel futuro prossimo, sarà solo per «impegnarsi in attività sovversive: se, naturalmente, gli riuscirà». Dunque, ecco le piroette di Borrell, il quale dichiara che l’Unione Europea deve “cooperare strettamente” con gli USA, e contemporaneamente invita i paesi UE, pur senza riconoscere legittimità ai Talebani, a condurre il dialogo con loro e con tutti gli «Stati che abbiano influenza in Afghanistan».

Quindi, ecco la TASS scrivere che fonti diplomatiche britanniche, sicure della possibilità di Mosca e Pechino a influire su Kabul, ammettono la necessità di un lavoro comune sull’Afghanistan, dato il «comune interesse a combattere il terrorismo e la diffusione della droga, a prevenire la crisi dei rifugiati e l’ulteriore collasso economico», così che Londra opera perché i cinque membri permanenti del Consiglio di sicurezza ONU adottino una posizione univoca sull’Afghanistan.

Il massimo però che USA e “alleati” sono riusciti a ottenere è stata l’astensione russo-cinese su una risoluzione adottata in perfetto stile liberal-nulladicente, dopo che Mosca e Pechino avevano chiesto un rinvio del voto per consentire l’introduzione nel testo di proprie specifiche osservazioni.

Dunque, come ci si posiziona nei confronti del nuovo regime di Kabul? Il politologo militare Alksandr Perendžiev ha dichiarato a Pravda.ru che ci sono dei segnali secondo cui gli odierni Talebani non siano esattamente gli stessi di 20 anni fa.

Per prima cosa, nota Perendžiev, sono in molti ad aver notato la non piccola quantità di armi di produzione cinese in mano ai Talebani; ma, probabilmente, non tutto è riconducibile alle voci secondo cui fosse Pechino, insieme agli USA, a rifornire i mujaheddin contro le forze sovietiche negli anni ’80.

Una tesi, questa, che circola tra alcuni analisti russi e che sembra fondarsi sull’attribuzione ai Talebani di una matrice “nazional-oscurantista”, di opposizione a qualsiasi ingerenza straniera nel paese: matrice che, si dice, potrebbe essere utilizzata dalla Cina nella disputa con gli Stati Uniti per il primato commerciale mondiale. Tesi rigettata però da altri osservatori russi, che la attribuiscono a quanti brigano per portare la Russia sul fronte anti-cinese e pro-americano.

La questione non sembra però così semplice. Ai colloqui di Mosca sull’Afghanistan, insieme ai Paesi della Organizzazione per la cooperazione di Shanghai (SCO: Cina, Kazakhstan, Kyrgyzstan, Tadžikistan, Russia, Uzbekistan, India, Pakistan come Stati membri, più altri Osservatori e Partner), avevano preso parte come Osservatori non solo l’Iran e la Kabul ufficiale, ma anche rappresentanti dei Talebani.

Oggi dice Perendžiev, vediamo che si sta realizzando il piano USA di lasciare dietro di sé un Paese instabile, «per tormentare Russia e Cina».

Dal 2011 Mosca si stava preparando a questo, da quando cioè Obama parlò di ritiro delle truppe americane; si tenne allora una conferenza a Mosca, cui parteciparono anche rappresentanti americani e in quella sede fu detto che 1) coi Talebani ci si può accordare; 2) è possibile eliminare dal Paese “l’economia della droga” per trasferirla su binari industriali.

E «cosa abbiamo oggi? Non appena i Talebani sono entrati a Kabul, è subito iniziata la discussione su chi e come avrebbe sfruttato le risorse minerali afgane. Con la Cina che sta organizzando il progetto del “One Belt and One Road”, è utile che le varie vie di comunicazioni passino per l’Afghanistan, che costituisce un bivio per l’Asia. E si presti attenzione che il tutto è calibrato sul fatto che i Talebani siano al potere.

Dunque, i talebani di oggi sono un po’ diversi da prima: hanno compreso che è necessario sviluppare l’economia, perché da lì otterranno i profitti. A metà settembre si riunirà a Dušanbe il prossimo vertice SCO ed è già programmato l’invito ai Talebani a partecipare: dopotutto, l’Afghanistan non ha perso lo status di Osservatore» ha concluso Perendžiev.

È così che la presa del potere talebana non sembra aver destato particolare preoccupazione né a Mosca né nelle Repubbliche ex sovietiche dell’Asia centrale, osserva il redattore-capo del Centro moscovita “Carnegie”, Alexander Baunov, non esattamente quello che si dice un comunista.

E si chiede: quanto è giustificata tale tranquillità? Si può dire che gli odierni Talebani si riveleranno partner più disponibilei al negoziato di quelli che dominarono in Afghanistan a fine anni ’90? Come si svilupperanno le relazioni con i Paesi vicini? Quali minacce e quali opportunità per la Russia e i paesi dell’Asia centrale?

Ecco come rispondono i giornalisti Galija Ibragimova e Kirill Krivošeev.

Baunov ricorda come, a inizi anni ’90, Russia, Repubbliche centro-asiatiche e India sostenessero l’Alleanza del Nord contro i Talebani, mentre ora no. Da un lato, si sono avviati rapporti coi Talebani e dall’altro si sostengono Tadžikistan e Uzbekistan, che hanno cominciato a opporre loro resistenza, e se all’epoca il Tadžikistan teneva aperta la frontiera per rifornire i reparti di Ahmad Masud, oggi tale confine è stato uno dei primi a essere occupato dai Talebani.

Certamente non a caso, osserva Kirill Krivošeev, ragion per cui la resistenza anti-talebana, senza sostegno materiale, avrà breve durata, data la significativa lontananza del confine tadžiko-afgano dalla gola del Panjshir, dove opera Masud-figlio.

A parere di Galija Ibragimova, oggi non ci sarebbe il caos che regnava negli anni ’90, quando i paesi dell’Asia centrale, senza disporre di veri eserciti, non sapevano come rispondere alle minacce. Oggi, per molti, l’Afghanistan non è solo un fattore di rischio, ma anche un campo di opportunità, afferma.

L’Asia centrale è tornata a interessare il mondo a causa di queste minacce afgane. Ma in tutto questo tempo, si sono intanto formate delle vere Forze armate e il confine è sufficientemente controllato. Ciò non significa che non ci siano minacce. Il Tadžikitan spera che sia ancora possibile organizzare la resistenza in Panjshir, ma prevede che prima o poi dovrà fare i conti con i Talebani.

Credo però, dice Ibragimova, che questi capi della resistenza, in vent’anni, siano diventati parte del sistema afgano corrotto e anche l’età di molti di essi non è certo un incentivo a resistere: «ci sono seri rischi, e i paesi dell’Asia centrale sono attenti; ma non c’è il panico degli anni ’90».

In fin dei conti, nota Krivošeev, si tratta di paesi confinanti e tra paesi vicini si tenta di intendersi: si dice che l’Uzbekistan abbia già cominciato a commerciare, poi l’Iran ha preso a rifornire il petrolio e la frontiera uzbeka è ora aperta.

E però, nota Ibragimova, le capitali centro-asiatiche sembrano per ora piuttosto guardinghe, in attesa dell’evolversi della situazione e della futura condotta dei Talebani. In fondo, tali capitali già da tempo intrattengono rapporti con le autorità di Kabul, che ora sono i Talebani: anche nel 1996 il Presidente uzbeko Islom Karimov diceva che si debbano avere rapporti con quel potere, qualunque esso sia, che ci garantisce dalle minacce di penetrazione nel nostro paese.

L’Asia centrale e meridionale, dice Ibragimova, hanno sempre «guardato all’Afghanistan come a un corridoio di transito per i loro enormi progetti, e se i Talebani manterranno le promesse, possiamo presumere che in qualche modo inizieranno a interagire con il mondo esterno e, forse, verrà il momento per un qualche tipo di economia razionale e per un’interazione con il mondo esterno».

Intanto, sono i Talebani ad accusare USA e loro “alleati” di mancanza di umanità: «Non dovrebbero interferire negli affari del nostro paese e portar via risorse umane: medici, insegnanti, altre persone necessarie… In America essi possono diventare lavapiatti o cuochi. Questo è disumano», ha dichiarato al New York Times il rappresentante talebano Zabiullah Mujahid.

Per questo, i Talebani esortano le persone istruite a rimanere e hanno detto all’Occidente di «non spingerle ad andarsene con l’evacuazione, altrimenti tutti i migliori dottori se ne andranno, e poi direte che non c’è nessuno a curare le donne, perché tutti se ne sono andati».

Ibragimova ricorda anche come, a inizi anni ’90 USA, Cina e Russia avessero presentato vari progetti attorno all’Afghanistan: «Gli americani furono i primi a proporre il progetto della Nuova Via della Seta, per corridoi di trasporto, ferrovie e linee elettriche. Poi è stata la Cina, con l’iniziativa “One Belt – One Road”, e anche la Russia ha cercato di partecipare in qualche modo a diversi tipi di iniziative di pace e infrastrutturali.

Ma tutti hanno capito che è rischioso creare qualcosa quando non c’è sicurezza. Dunque, nonostante che l’Afghanistan possa unire tutti in termini di sviluppo delle infrastrutture, investimenti e questioni di sicurezza, oggi non è ancora del tutto così.

Anche seguendo i negoziati tra Talebani e Cina, mi sembra che per ora Pechino non sia pronta a seri investimenti, finché non ci saranno garanzie di sicurezza e pace.

Vorrei aggiungere che anche l’Asia centrale interessa il mondo esterno, dal quale però viene associata spesso proprio al contesto delle minacce afgane. Dunque, molto dipenderà dalla condotta dei Talebani: quali iniziative, quale sviluppo, quali nuove rotte, quali gasdotti e condutture… credo che dovrà passare un po’ di tempo».

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