Gli attentati a Kabul la sera del 26 agosto che hanno mietuto circa cento vittime, rivendicato dalla branca afghana dell’ISIS, segnano un “ritorno” dello jihadismo nel palcoscenico più attenzionato della politica mondiale.
Avevamo identificato, alcuni giorni prima che venisse ampiamente ipotizzato dall’intelligence britannica, la possibile azione dell’ISIS come uno dei fattori di possibile destabilizzazione del “nuovo ordine talebano” e così è stato.
Non era una profezia, ma l’ordine delle cose di un Paese in cui la guerra è la cornice in cui sono nati la maggioranza dei suoi abitanti e lo scontro di interessi assume strutturalmente il profilo bellico.
Gli Usa con i loro interventi militari destabilizzano, disgregano e lasciano spazi vuoti, terre di nessuno in cui, per evitare che altri se ne avvantaggino, scatenano le milizie mercenarie della guerra sporca: in questi caso gruppi jihadisti disposti a tutto per di consolidare le proprie posizioni, le proprie risorse economiche e il potere negoziale nei confronti anche delle altre organizzazioni islamiche, siano essi governi definiti “apostati” o milizie senza Stato disponibili ad ogni sorta di alleanza.
Ma quella in Afghanistan non sarà l’ultima scia di sangue che un quarantennale conflitto si porterà dietro, soprattutto se la dialettica azione e reazione sarà quella dettata dalla pistola fumante di un imperialismo che ragiona come un cowboy da film di infima categoria e che procede ancora impumente a vere e proprie esecuzioni extragiudiziarie.
E Biden ed i suoi consiglieri sono dentro questo humus culturale ed in preda alla peste emotiva che scatenerà nell’America Profonda che chiede gli scalpi di questi, fino a ieri “sconosciuti terroristi”. Una tesi che contrasta con il fatto che solo due giorni dopo gli attentati di Kabul dichiarino di averne ucciso l’organizzatore.
Una ammissione del fatto che o lo conoscevano bene già da prima o che hanno millantato credito per accontentare la voglia di vendetta della propria opinione pubblica.
Quella in Afghanistan è stata una guerra iniziata contro il legittimo governo insediatosi dopo la “Rivoluzione Saur” dell’aprile 1978, appoggiato militarmente dal dicembre dell’anno successivo dall’URSS con cui aveva firmato un Trattato di amicizia, nonostante le notevoli perplessità iniziali della dirigenza sovietica e la spaccatura dentro l’allora Partito Democratico del Popolo Afghano.
Il governo afghano in carica dopo il ritiro delle truppe sovietiche resistette fino al 1992. I gruppi di mojahedin vincitori cominciarono però a combattere furiosamente tra loro subito dopo.
Questa fase terminò con la vittoria temporanea dei Talebani dopo circa 4 anni di guerra civile senza che la situazione fosse completamente pacificata e con l’eccidio dei comunisti afghani, non molto diversamente da come era avvenuto in Indonesia a metà Anni Sessanta o in America Latina con il “Piano Condor” .
L’Occidente, USA in primis, si appoggiarono alla parte più reazionaria e sanguinaria della popolazione afghana a fine Anni Settanta, tra cui gli studenti afghani delle madrasse pachistane in esilio, per rovesciare (con l’aiuto dei servizi segreti pachistani e dell’Arabia Saudita) un Paese che, con non poche difficoltà aveva iniziato un processo di transizione al socialismo.
Tutto questo l’ha spiegato in un minuto Hilary Clinton in un audizione istituzionale dieci anni fa, e qualche anno prima – con dovizia di particolari – George Crile. Da quel “ventre immondo” nacque la global jihad.
I mujaheddin volontari che avevano combattuto in Afghanistan tornarono nei loro Paesi, o vennero usati in quella che con il tempo diventerà una, anzi più, succursali del terrore divenute con il tempo una sorta di agenzie interinali transnazionali con un business notevole, capaci di attrarre l’eccedenza metropolitana – gli immigrati – anche nel vecchio continente.
La prima a farne le spese fu nel 1992 l’Algeria con una decennale guerra civile che l’ha isolata dal mondo e che contrappose lo Stato algerino ai jiahdisti della Gia. La subì anche la Francia, che conobbe vari attentati ed una recrudescenza razzista che aprì le porte al Front National, alimentando una mai spenta arabofobia. Qualcuno si ricorda che lungo la Senna nella “Notte Nera” nel culmine delle lotte per l’indipendenza degli immigrati algerini in Francia, apparse la scritta: “qui si annegano gli algerini”. Questa è la civiltà europea.
Ma l’Occidente, alleato con le Petromonarchie del Golfo, non imparò la lezione. E gli jihadisti vennero usati nel processo di disintegrazione della ex Jugoslavia facendo attecchire il “cancro fondamentalista” nella multi-etnica e multi-confessionale Bosnia, ora giustapposizione di enclave etnico-confessionali, e nel Kossovo, dove tra l’altro un gruppuscolo di guerriglieri, come l’UCK, divenne un vero e proprio esercito filo-NATO e di cui gli ex criminali di guerra dominano la vita politica.
Non a caso Bosnia e Kossovo sono diventati territori di reclutamento ed addestramento per le future avventure jihadiste, su cui tutti hanno voluto chiudere un occhio nonostante le evidenze empiriche.
Un altro fronte fu quello della Cecenia, dove giunsero centinaia di jihadisti da moltissimi paesi finanziati dall’Arabia Saudita e sostenuti dagli Usa che intendevano far saltare i corridoi energetici della Russia verso ovest e spianare la strada ai propri.
Ma è con la Libia e poi con la Siria che è stato fatto un salto di qualità nell’assecondare la costruzione di queste “holding del terrore”.
Chi ha iniziato l’insorgenza contro Gheddafi, con un ruolo attivo anglo-francese sul campo e la No Fly Zone imposta, erano proprio i tagliagole islamici di Bengasi che avevano contribuito a tramutare la resistenza irachena successiva all’invasione aglo-americana del 2003 in una “guerra civile settaria”.
Secondo l’intelligence statunitense la Libia era uno dei Paesi da cui provenivano combattenti stranieri sul suolo iracheno. E Gheddafi lo sapeva bene tanto che ne consegnò l’elenco ai servizi statunitensi come “gesto distensivo”. Risultato: con la fine della Jahamiria libica nel 2011 si è aperto il “vaso di pandora” e lo jihadismo é esondato nel Sahel in cui la Francia (insieme a Germania soprattutto, e Italia, tra le altre) è impegnata nella sua più impegnativa missione militare dopo la Guerra d’Algeria (1954-1962).
Ma la strategia del caos degli USA aveva creato anche un’altra “terra di nessuno”, uno spazio vuoto tra l’Iraq e la Siria che venne improvvisamente riempito dal misterioso Isis, comparso dal nulla e rapidamente estesosi e consolidatosi in questo “spazio” lasciato vuoto dalle conseguenze dell’aggressione all’Iraq e dalla destabilizzazione della Siria. In questo spazio l’Isis ha dovuto convivere e confliggere anche con il network di Al Qaida rappresentato dal gruppo Al Nusra.
Il prossimo Afghanistan vede agire – oltre i locali Talebani – anche gruppi affiliati ad Al Queda e all’Isis.
Non sarà un problema solo per gli Usa o per Russia e Cina. Lo sarà anche per la UE. Parigi deve ormai fronteggiare lo jihadismo anche fuori dai suoi tradizionali confini di espansione neo-coloniale nel Sahel e nell’Africa Centrale, come ad esempio in Mozambico o nel Corno D’Africa.
Ci hanno provato anche in Siria, rischiando di “esondare” in Libano, ma gli é andata male. Bashar figlio non è stato abbattuto, Erdogan non ha pregato a Damasco come aveva promesso e l’Asse della Resistenza della Mezza Luna sciita si è rafforzato con a capofila l’Iran a capo, oltre a conferire alla Federazione Russa (intervenuta in forze) un certo prestigio. Certo ci sono stati gli effetti boomerang dell’ISIS in Iraq e degli attentati in Occidente…
Dopo tutto si è ignorato lo jihadismo quando colpiva la Federazione Russa in Cecenia o nelle Repubbliche post-sovietiche, fino a che non ha prodotto un effetto boomerang. E lo si è ignorato in Africa fino a quando non colpisce direttamente gli interessi economici, politici e militari dell’Occidente.
Alla fine le “spade di Allah” si rivelano più figlie dell’Occidente che un prodotto delle società in cui agiscono, ed in generale sono un “prodotto d’importazione” rispetto alle culture religiose islamiche presenti nei vari paesi musulmani, generalmente incubato nelle Petromonarchie del Golfo come strumenti di influenza politico-culturale a cui si affiancano con alleanze a geometria variabile.
I network wahabita (Arabia Saudita, Emirati) e quello dei Fratelli Musulmani (Qatar ma anche Turchia) si combattono, si contendono, si ostacolano e si incrociano in tutti i teatri di crisi del Medio Oriente: dalla Libia all’Afghanistan, passando per Palestina, Libano, Siria, Iraq e lo stesso Golfo.
Ora come un circolo non chiuso, in una sorta di “esplosione narrativa” tutto torna dov’era cominciato. Se volete cercare i responsabili ultimi di ciò che è successo a Kabul guardate nell’album di famiglia degli statisti occidentali ed in quella moltitudine di intellettuali che anche a sinistra hanno legittimato – trattandola come guerra per la libertà – la controrivoluzione che avanzava in Afghanistan.
Hanno pensato di poter utilizzare milizie e network jihadisti diversi per i propri scopi. Di poterli prima sostenere e poi abbandonare quando non più utili o perché il lavoro sporco era ormai concluso (vedi Jugoslavia o Libia). E magari tornare ad usarli (Iraq, Siria) e poi bombardarli a secondo delle opportunità e delle necessità degli interessi occidentali. E adesso affidargli il compito di condizionare gli assetti nella “terra di nessuno” lasciata in Afghanistan dopo venti anni di occupazione militare Usa e Nato.
Ed in ultima analisi sono le condizioni di esistenza in questi paesi determinate da rapina delle risorse, crisi ecologica “imposta”, occupazione militare, sudditanza politica e dipendenza economica, che permettono alla jihad globale di fiorire.
Senza sradicare queste cause – non ultimo la circolazione di armi, droga ed esseri umani – attori politici differenti troveranno sempre il modo di sfruttarle con i feed-back negativi che conosciamo. E la guerra al terrorismo che è stata combattuta con il corollario di militarizzazione interna, con le Guantanamo sparse per il mondo e le uccisioni extra-giudiziali, è simile a quell’operazione matematica in cui 10 meno 2 fa 20.
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