Bestie “umanitarie”, potremmo chiamarle. Una superpotenza allo sbando, che ha gestito gli ultimi 30 anni di guerre sempre come “ingerenza umanitaria”, per “portare la democrazia” o “liberare le donne” (stranamente, aiutando chi voleva riportarle allo stato di prigioniere degli uomini), mentre fuggiva dall’Afghanistan in modo così vergognoso da ricordare un’altra sconfitta storica, ha pensato bene di scaricare un po’ di bombe a casaccio su Kabul “garantendo” che stava solo eliminando una “inaccia terroristica”.
Il tutto dopo un attentato effettivamente riuscito all’aeroporto di Kabul, realizzato dall’Isis ma amplificato – con certezza, viste le innumerevoli testimonianze qualificate, tra cui molti giornalisti occidentali – dai fucili mitragliatori dei soldati Usa, che avevano preso a sparare sulla folla e persino sui propri commilitoni.
Avevamo come tanti sospettato che dietro la “brillante operazione” col drone ci fosse in realtà qualche pasticcio. Ma neanche noi eravamo arrivati a immaginare che la “cellula terroristica” fatta a pezzi con la “guerra a distanza” (che è arrivata molto prima della Dad) fosse in realtà un operatore umanitario vero di quelli senza divisa e senza armi.
Per non vole neanche apparire vendicativi, vi consegniamo direttamente il dispaccio di agenzia diramato dall’Agi – insospettabile di simpatie col comunismo o i talebani, visto che è di proprietà dell’Eni – che rende noto al mondo l’ultimo crimine delle bestie che governano da Washington e sparano dal Nevada.
L’ultimo per ora, purtroppo, perché un padrone in crisi non rinuncia mai spontaneamente al suo dominio.
Ah, dimenticavamo. Se per caso i “professionisti dell’informazione” (Rai, Mediaset, Repubblica, Corriere, Stampa, ecc) dovessero evitare di dare questa notizia, capite da soli perché…
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Il drone su Kabul uccise la famiglia di un cooperante, non una cellula terroristica
“Minaccia imminente” od operatore umanitario: nel raid Usa del 29 agosto è stata uccisa la persona sbagliata? Il New York Times e il Washington Post, sulla base di immagini esclusive delle telecamere di sicurezza e testimonianze hanno dimostrato che gli Usa hanno sferrato l’attacco in cui sono rimaste uccise 10 persone, tra cui sette bambini, senza sapere veramente chi stessero colpendo.
L’auto presa di mira era parcheggiata nel cortile di una casa e tra le vittime c’era il 43enne operatore umanitario Zemari Ahmadi, secondo quanto denunciato dalla sua famiglia. Per il Pentagono invece l’obiettivo era una persone legata all’Isis, la sua auto era piena di esplosivo ed era una minaccia imminente per le truppe statunitensi coinvolte nelle evacuazioni all’aeroporto di Kabul.
Ma a quanto pare, sottolineano i due giornali americani, quello che i militari non sapevano era che Ahmadi era un operatore umanitario di lunga data, che secondo le testimonianze di colleghi e familiari ha trascorso le sue ultime ore a fare commissioni e ha concluso la sua giornata a casa sua.
Poco dopo, la sua Toyota è stata colpita da un missile. Il sospetto è che, quelle che sono state interpretate come le mosse sospette di un terrorista, potrebbero essere stati solo i movimenti di una giornata tipo di Ahmadi. E le “taniche” potrebbero essere solo dei rifornimenti d’acqua per le famiglie in difficoltà e non esplosivi destinati a un attentato.
Chi era Zemari Ahmadi
Secondo quanto emerge dai due articoli si tratta di un ingegnere elettrico che per 14 anni ha lavorato per l’ufficio di Kabul della Nutrition and Education International, Ong con sede in California che combatte la malnutrizione. Ad esempio ha dato vita a 11 impianti di lavorazione della soia in Afghanistan per sopperire alla mancanza di cibo in vaste aree del Paese causata soprattutto dalla guerriglia con i talebani. Q
uasi tutti i giorni, l’uomo guidava una delle corolle bianche Toyota della compagnia, portando i suoi colleghi da e verso la sede di lavoro e distribuendo cibo agli afghani sfollati.
La ricostruzione dell’attacco
I filmati analizzati dai due quotidiani ricostruiscono i movimenti della giornata dell’ingegnere.
Alle 14:35, Ahmadi tira fuori un tubo e con l’aiuto di un collega riempie i contenitori vuoti di plastica che poi caricherà in macchina insieme ad alcuni pacchetti. Il motivo è semplice: nel quartiere c’era carenza d’acqua per cui l’uomo la portava regolarmente dall’ufficio per distribuirla a chi ne ha bisogno.
Intorno alle 15:38, un collega sposta l’auto di Ahmadi nel vialetto. Poco dopo i militari affermeranno di aver visto l’auto di Ahmadi entrare in un ‘complesso sconosciuto’ (probabilmente la sede della Ong) a 8-12 chilometri a sud-ovest dell’aeroporto. Qui le immagini finiscono perché la giornata di lavoro si conclude.
Non ci sono quindi filmati successivi ma lo scenario probabile è che nell’attacco con il drone l’auto dell’operatore umanitario sia stata vista come una potenziale minaccia, le taniche d’acqua siano state scambiate per esplosivo. A quel punto Ahmadi è tornato a casa.
Secondo il fratello, i suoi bambini hanno circondato la macchina accogliendolo dopo un’altra giornata faticosa di lavoro. Un funzionario americano ha detto che i militari temevano che l’auto sarebbe potuta ripartire e poi usata per un attentato in una strada ancora più affollata o all’aeroporto stesso.
Gli operatori del drone hanno rapidamente esaminato il cortile riportando di aver visto solo un altro maschio adulto che parlava con l’autista dell’auto e nessun bambino. E hanno deciso che era il momento di colpire. L’auto di Ahmadi è stata colpita da un drone MQ-9 Reaper che ha lanciato un singolo missile Hellfire con una testata da 9 chilogrami.
Secondo il Washington Post il missile ha impiegato circa mezzo minuto per raggiungere la berlina bianca. Il quotidiano inoltre specifica che la casa “non era precedentemente nota agli analisti militari e di intelligence”.
La versione del Pentagono
Nei giorni successivi il Pentagono ha ripetutamente affermato che l’attacco missilistico ha provocato altre esplosioni, e che queste hanno probabilmente ucciso i civili nel cortile. “Significative esplosioni secondarie provenienti dal veicolo preso di mira hanno indicato la presenza di una notevole quantità di materiale esplosivo“, si legge.
“Poiché c’erano esplosioni secondarie, si può ragionevolmente concludere che c’erano esplosivi in quel veicolo“. Affermazioni che secondo il New York Times non sono il frutto di certezze, ma solo di ipotesi.
“Abbiamo raccolto foto e video della scena scattati da giornalisti arrivati sul posto e visitato il cortile più volte. Abbiamo condiviso le prove con tre esperti di armi che hanno detto che il danno era coerente solo con l’impatto di un missile Hellfire. Hanno indicato il piccolo cratere sotto l’auto di Ahmadi e i danni dei frammenti di metallo della testata. Tutti e tre gli esperti hanno anche sottolineato ciò che mancava: qualsiasi prova delle grandi esplosioni secondarie descritte dal Pentagono“.
A questo si aggiunge il ritrovamento di elementi che possono essere riconducibili ai contenitori in plastica che trasportavano i rifornimenti d’acqua. Il Pentagono, aggiunge ancora il New York Times, “non ha fornito le prove di esplosivi nel veicolo di Ahmadi o ha condiviso collegamenti dell’uomo allo Stato Islamico”.
Il Washington Post, in più, riporta le parole di Steven Kwon, presidente di Nutrition and Education International (NEI), che ha confermato come la berlina bianca di Ahmadi appartenesse all’ente benefico americano: “Stiamo cercando di aiutare le persone. Perché dovremmo usare esplosivi per ucciderle?”. Il Pentagono ha aperto un’indagine per capire come siano andate realmente le cose ma il sospetto è che “la ragionevole certezza” con cui è stato condotto l’attacco possa essere stato il frutto di un tragico e grave errore di valutazione.
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