Le elezioni per la Camera Bassa tedesca, il Bundestag, tenutesi domenica 26 settembre, sono state un test importante in cui sono emerse tendenze che andavano da tempo manifestandosi.
Iniziamo dalla disomogeneità territoriale del voto.
Persiste una netta divisione tra Est ed Ovest, frutto di una integrazione mancata tra l’ex Repubblica Federale Tedesca e la Repubblica Democratica Tedesca.
Potremmo dire che la Germania ovest ha annesso l’Est (si veda il libro Anschluss), ma non l’ha integrata se non per ciò che concerne le filiere produttive nelle fasce basse della catena del valore. Una dinamica riscontrabile in buona parte dell’Europa Orientale, nonché l’Italia Settentrionale.
Basta guardare qualsiasi indicatore economico significativo, dai diversi tassi di disoccupazione alla media salariale, per rendersi conto del persistere della marcata differenza tra le due Germanie.
L’output politico più evidente di questa marginalizzazione è che l’estrema destra dell’AFD è il secondo partito più votato nei cinque Land dell’Est. In alcune regioni orientali è al di sopra del 20%, si afferma come primo partito in Sassonia ed in Turingia, rispettivamente con il 24,3% ed il 24%, cioè quasi una volta e mezzo la percentuale a livello nazionale.
Con 4,8 milioni di votanti, cioè il 10,3%, un milione di voti in meno del 2017 – in cui ottenne il 12,6% entrando per la prima volta in Parlamento – si conferma comunque un pericoloso attore politico di primo piano.
Certamente perde in Baviera, dove aveva per un periodo fortemente influenzato l’ala conservatrice della “sorella minore” bavarese della CDU della Merkel, la CSU, ma guadagna in tutto l’est in particolare in Turingia.
Passiamo al lato opposto dello spettro parlamentare, Die Linke, che deve la sua rappresentanza parlamentare grazie alla sua molto relativa capacità di tenuta all’Est.
Come l’AFD, Die Linke è presente soprattutto all’Est e deve alla vittoria in tre circoscrizioni la sua rappresentanza parlamentare di 39 deputati, considerato che con un magro 4,9% non ha superato la soglia di sbarramento del 5%.
Vince infatti in due circoscrizioni a Berlino ed una a Lipsia.
Con 2,3 milioni di voti, in queste elezioni, ne perde due rispetto al 2017 ed è in vistoso calo in tutto l’Est, con una percentuale che va dal 5,4 punti a 8,7 punti.
Il travaso di voti più grossi, stando ai sondaggi, l’ha avuto verso la SPD (quasi 600 mila), considerata probabilmente come l’opzione migliore per il “voto utile” – e che infatti aumenta in tutto l’Est – e con una dinamica non dissimile nei confronti dei Verdi: 470 mila ex votanti della Linke hanno preferito i Grünen,.
Un’emorragia che ha alimentato in dose minore anche le altre formazioni: una parte di suoi ex elettori si sono detti “indecisi”. Un dato, quello dell’indecisione, che rispetta una volatilità generale del voto e una ridotta fidelizzazione dei votanti in genere.
È chiaro che la formazione di Hennig-Wellsow e Janine Wissler deve il suo scarso risultato principalmente a due fattori: il tendenziale esaurirsi della sua rendita politica, come erede della SED, e l’incapacità di saper rappresentare le istanze dei subordinati, come da tempo va sostenendo Sahra Wagenknecht.
In sintesi, le due polarità opposte dello spettro della rappresentanza politica si affermano ad Est, ma saranno entrambe escluse nel processo di creazione della coalizione di governo.
Mentre l’AFD infatti è esclusa a priori da qualsiasi alleanza politica, anche se le sue tematiche sono poi ripresa dalla destra dello schieramento conservatore, la Die Linke avrebbe teoricamente potuto contribuire a formare un governo con una coalizione “Rosso-Rosso-Verde”. Ma i numeri escludono brutalmente anche questa ipotesi.
Un altro dato importante per capire la disomogeneità territoriale del voto, è la situazione bavarese.
Nei distretti sud-orientali la CSU, alleata con la CDU, ha il suo tradizionale bastione di consenso, un dato che viene confermato in queste elezioni.
Certamente la CSU perde molto terreno (-7 punti rispetto al 2001), ma il partito di Markus Söder limita l’arretramento molto di più dei Cristiano Democratici, ottenendo il 31,7% dei suffragi e perdendo un solo seggio, contro una voto nazionale CDU/CSU al minimo del 24,1%.
Un dato quasi in controtendenza, quindi, considerato il drastico calo della CDU in tutto l’Est e soprattutto la sconfitta di tre fedelissimi della Merkel nelle rispettive circoscrizioni.
Questo si rifletterà sui rapporti di forza all’interno dei conservatori, aumentando la difficoltà a trovare un punto di equilibrio; quello che era assicurato finora dal ruolo svolto dalla Merkel, soprattutto se – come sembra – dopo decenni si ritroveranno all’opposizione.
L’altro dato evidente è la differenza nel voto tra centri urbani e zone rurali.
I Verdi, che hanno avuto un ottimo risultato, anche se inferiore a quello attribuitogli in precedenza dai sondaggi, hanno vinto in 25 circoscrizioni di grandi città o in zone universitarie, tutte all’Ovest tranne una a Berlino: Colonia, Bonn, Aix-la-Chapelle, Münster, Friburgo, Karlsruhe, Heidelberg, Stoccarda, Francoforte o Monaco.
Migliorano ovunque il loro risultato, in particolare nelle regioni nord-occidentali. Nelle zone più rurali dell’Ovest si afferma invece la CDU/CSU.
Un altro aspetto importante è la divisione anagrafica.
È interessante notare che il partito più votato tra le persone che si sono recate per la prima volta alle urne è la formazione liberale e liberista della FDP – la più coerente sostenitrice dell’ordo-liberismo -, che migliora la sua prestazione di 300 mila voti, rispetto ai 5 milioni del 2017 e sarà decisiva, insieme ai Verdi, per la formazione della futura coalizione governativa.
Quasi un nuovo elettore su quattro ha scelto la formazione di Christian Lindner, mentre uno su cinque ha votato per i verdi, secondo uno studio pubblicato da Tagesschau.
L’elettorato più anziano ha invece votato in massa per la CDU e la SPD.
Uno degli aspetti solitamente poco considerati, rispetto al calo di consensi delle due formazioni che hanno fino a qui dominato la politica tedesca, è il fatto che la diminuzione dei voti è dovuta anche alla scomparsa fisica dei loro elettori più anziani: 700 mila circa rispetto al 2017.
Se la SPD ha guadagnato 5 punti percentuali rispetto alle elezioni del 2017, ha però perso elettori nelle fasce sotto i 30 anni di età, guadagnandone più di dieci punti tra gli ultrasessantenni. In generale, la formazione di Olaf Scholz guadagna sopra i 34 anni; più l’elettore è anziano, più ha indirizzato il suo voto verso i social-democratici.
Quasi il 35% degli ultrasessantenni ha fatto questa scelta.
Vi è quindi una più acuta “frattura generazionale”.
Un ultimo aspetto da analizzare è perciò di che natura sia il “successo” della SPD.
Oltre agli aspetti che abbiamo citato, ci sono buone ragioni per credere che non si possa parlare di vera e propria “rinascita” per un partito che è in crisi dal 2005 e che, da allora, ha cambiato 7 segretari generali durante l’era Merkel.
Certo, hanno recuperato rispetto alle previsioni dei sondaggi di inizio estate che li davano poco sopra il 15%, e di fatto Scholz ha mostrato maggiore credibilità degli avversari durante la campagna elettorale – più per demerito dei suoi avversari, però, che per meriti propri – ma questo dimostra ulteriormente lo sfarinamento di un sistema che era dominato da due soli partiti e dalle logiche di fedeltà tipiche della vita pubblica tedesca.
L’Spd non è solo lontana dai suoi fasti dei primi anni Settanta – nel 1972 arrivò al suo migliore risultato storico, con il 45,8% dei voti – ma anche dall’era Schröder; è in calo da anni ed è ora semplicemente tornata al livello del 2017, ossia della peggior performance elettorale di tutti i tempi.
Più che un successo si dovrebbe parlare di un rimbalzo piatto, insomma.
In secondo luogo, la formazione non è più la principale catalizzatrice del voto “a sinistra”, di cui vent’anni fa captava i tre quarti dei voti. Ora se ne aggiudica solo la metà e non è stata certo capace di vincere la “battaglia delle idee”, offrendo in fondo solo una traduzione politica più “centrista” delle formulazioni elaborate dalla destra.
Il terzo aspetto, che abbiamo già citato, è l’invecchiamento del voto ai socialdemocratici, per cui “fisiologicamente” il proprio elettorato non può fungere da “spinta propulsiva”, a differenza di quello ambientalista ed ordo-liberista “strong”.
Pascal Delwit, politologo, in un articolo citato da Mediapart afferma che non vede “i germi di una risalita strutturale” nei risultati di domenica scorsa.
I “socialisti” tedeschi – come i loro omologhi continentali, a parte rare eccezioni – sono a corto d’idee, considerata la loro cronica subordinazione ai diktat neo-liberisti che hanno sposato e portato avanti, e su cui hanno fatto solo parzialissime auto-critiche.
Certamente, come dimostra la “sterzata a sinistra” di Scholz su alcuni temi sociali, per ora solo a parole – legata ad un gioco di equilibri interni e ai classici slogan da campagna elettorale – possono forse intervenire su alcuni aspetti congiunturali, ma senza mettere in discussione l’ortodossia budgetaria.
La lunga fase che si apre, di trattative per la formazione di una coalizione, è minata dal fatto che alcuni temi rilevanti “la linea rossa” che proporranno i liberali dell’FDP in materia fiscale e di bilancio sarà difficilmente valicabile; così come sarà più forte la tendenza a voler scaricare sul resto della UE – in particolare le sue aree periferiche – i costi della crisi che sta affrontando questo modello di sviluppo, specie ora che è diventata palese la necessità della sua ristrutturazione mentre diventa sempre più accesa la competizione internazionale.
Esaurita l’esperienza della “Grande Coalizione”, scartata l’ipotesi astratta di un governo in cui Die Linke potesse avere un ruolo, le alchimie della politica tedesca dovranno trovare – anche su pressione del quadro internazionale in mutamento e del ruolo che svolge nella nelle scelte della UE – un governo che traghetti la Germania del dopo Merkel verso un profilo più definito, condizionato dalle istanze dei settori sociali rappresentate dai partiti che guideranno la Coalizione.
Una sintesi politica difficile, quindi, anche perché strutturalmente mancante di uomini e donne con un profilo da veri statisti, senza un peso politico riconosciuto a livello internazionale, ma soprattutto senza una visione organica in grado di proiettare il Paese fuori dai fallimenti di cui è stato artefice, per sé e per gli altri.
Per una parte non irrilevante dei ceti subalterni dell’Unione Europea la Germania, qualsiasi sarà la coalizione che uscirà dalle estenuanti trattative, continuerà ad essere quella pallida madre autoritaria ma non autorevole dipinta nel famoso componimento di Brecht: “chi ti vede va con la mano al coltello, come alla vista d’un bandito”.
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