Quando crollò l’Unione Sovietica, una delle zone che più si trovò a dover gestire le lacune di potere che si formarono in conseguenza a questo avvenimento fu l’Asia centrale.
Si formarono le cosiddette repubbliche centro-asiatiche che dovettero affrontare, all’interno di un quadro internazionale caratterizzato dall’unipolarismo rampante degli Stati Uniti, la gestione dei territori e delle relative risorse di loro competenza.
Nacque così, in questo contesto, l’idea di usufruire delle consistenti riserve di gas del Turkmenistan, che fino a poco tempo prima erano sotto la vigilanza delle autorità di Mosca.
L’attore internazionale che più si spese per questa “idea” furono gli Stati Uniti, attraverso uno degli innumerevoli strumenti che erano stati formati nell’area dal loro operare: l’Asian Development Bank.
Al tempo l’obiettivo strategico statunitense, e delle società più maggiormente coinvolte in questo disegno, si concentrava sul dirottamento dei flussi energetici turkmeni al di fuori dei corridoi che comprendevano la Russia e l’Iran.
Per questa ragione, nell’ottobre del 1995 una cordata di società statunitensi e saudite, guidate dalla UNOCAL, varò un progetto relativo ad un oleodotto che avrebbe dovuto collegare il Turkmenistan al Pakistan.
Un progetto del genere, che rappresentava plasticamente quelli che erano i rapporti di forza del tempo nella regione, in materia di influenza dei grandi attori della scena internazionale, doveva comunque fare i conti con delle situazioni regionali dinamiche, cosa che accadde immediatamente quando venne il momento, per i soggetti coinvolti, di confrontarsi con lo stato all’interno del quale il passaggio di questo fatidico oleodotto era obbligato: l’Afghanistan.
Al momento, siamo a cavallo tra 1995 e 1996 a Kabul i talebani, pur essendo variegati nel proprio fronte interno, si apprestavano a prendere il potere e ad instaurare per la prima volta il loro emirato.
Un qualcosa che di per sé, inizialmente, non costituì un problema relativamente a questo progetto, tanto che nel gennaio del ‘98 venne firmato un accordo tra la CentGas (cioè il consorzio delle società energetiche guidato dalla UNOCAL) e i rappresentati talebani.
Ma quando sembrò che i giochi diplomatici fossero chiusi e si potesse così finalmente partire con i lavori, nell’agosto dello stesso anno le ambasciate statunitensi vennero bombardate e l’azione venne rivendicata dai talebani facendo saltare il progetto.
Già da questa introduzione, che cerca didascalicamente di inquadrare ciò che sta avvenendo oggi da una prospettiva storica, si capiscono i termini generali della situazione e la dinamicità di questo teatro, due elementi di cui ogni potenza, regionale o sovraregionale che si confronta per questa questione,deve obbligatoriamente tenere conto.
Il progetto Tapi dopo l’11 settembre
Come tutti sappiamo, nel 2001 gli Stati Uniti invadono l’Afghanistan e ne assumono il controllo politico, quanto meno ne occupano i principali centri urbani, iniziando a formare una nuova classe dirigente predisposta a stabilire un contatto organico con l’ingombrante padrino internazionale e, nel mentre, relegano di fatto le milizie Taliban nelle periferie del paese centro asiatico.
Dopo l’assunzione di questa posizione di forza, quel progetto che era partito alla metà degli anni 90 e al quale abbiamo fatto riferimento nell’introduzione, conosce una rinascita dovuta dalla ghiotta occasione, da parte statunitense, sia di irradiare con parte delle risorse centro asiatiche l’Asia meridionale, facendo di fatto da raccordo tra le due zone, sia di bypassare le rotte russe per garantire le stesse risorse energetiche alle zone più occidentali che si affacciano verso l’Europa.
Per questa ragione nel 2002 si arriva alla firma di un pre-accordo che comprende Turkmenistan, Afghanistan e Pakistan, e viene supportato “tecnicamente” qualche anno dopo, nel 2005, grazie all’operare della Asian Development Bank che, con la mediazione della Penspen, società petrolifera con sede a Londra, presenta per la prima volta un progetto concreto di fattibilità dell’opera.
Per la seconda volta però, quando tutto sembrava pronto per far partire finalmente i lavori, la geografia politica dell’Afghanistan giocò ancora contro la realizzazione di detto progetto, poiché l’operare delle milizie talebane presenti nel sud del paese, non ne consentivano la realizzazione, decretando così l’ennesimo stallo.
Si deve arrivare al 2010 per veder concretizzarsi un altro faticoso passo in avanti, grazie all’intesa governativa tra Turkmenistan, Afghanistan, Pakistan ed India – nel frattempo entrata a fare parte del progetto – relativa all’acquisto di gas naturale dalle riserve turkmene che si interfacciano all’affare attraverso la società nazionale energetica Türkmengaz, in accordo con le rispettive società energetiche nazionali dei paesi coinvolti: Afghan Gas Enterprise per l’Afghanistan, Inter State Gas Systems per il Pakistan e GAIL per l’India.
Prima di arrivare all’inizio effettivo della realizzazione del gasdotto c’è tempo per l’ennesimo ritardo, che fa capire ancora di più la difficoltà relativa alle dinamiche regionali tra stati, concretizzatosi tra 2011 e 2012, quando Afghanistan ed India non riescono ad accordarsi riguardo alle tariffe di passaggio, un qualcosa che spinge anche Islamabad ad entrare nella questione al fianco di Kabul.
Dobbiamo aspettare quindi il 2015 per vedere l’inizio dei lavori, lato turkmeno, ed il 2018, lato afghano.
Caratteristiche tecniche del gasdotto
Arriviamo quindi a parlare degli ultimi anni, non prima però di aver dato qualche specifica relativa al gasdotto.
Il TAPI partirebbe dalle riserve di Galkynysh,nella parte meridionale del Turkmenistan, e arriverebbe alla città di Fazilka, al confine indo-pakistano nella regione del Punjab, in India.
Percorrerebbe quindi 1814 km attraversando anche Afghanistan e Pakistan, che vedrebbero tratte nei loro territori rispettivamente di 774 e 826 km, con le rimanenti tratte turkmene e indiane di 214 km.
Strutturalmente il gasdotto avrebbe un diametro di 56 pollici e una pressione di esercizio di circa 10.000 kilopascal (kPa).
Garantirebbe l’afflusso di 11 miliardi di metri cubi all’anno con due stazioni di compressione in Turkmenistan in una prima fase di sviluppo del progetto, per poi passare ad una seconda, che dipende dalla costruzione di altre stazioni di compressione in Afghanistan e Pakistan, nella quale si arriverebbe a 33 miliardi di metri cubi all’anno.
Il progetto tra interessi contrapposti e instabilità territoriale
Come si può notare da questo veloce excursus storico, questo progetto giace su una visione strategica ben precisa da parte degli statunitensi.
Come dicevamo precedentemente, per Washington l’occasione di inserirsi nei flussi energetici della zona, entrando in competizione con le influenze russe e cinesi, caratterizza l’obiettivo primario per poter spostare gli equilibri politico economici della zona.
Contiamo anche poi quelle che sono le mire del Turkmenistan.
Ashgabat ha intenzioni di differenziare ulteriormente il proprio portfolio clienti relativo alle risorse energetiche, sia per non essere eccessivamente legata al consumo cinese, per il quale il potere contrattuale di Ashgabat sta vacillando sempre più, per via della differenziazione ulteriore in materia di fonti energetiche che la Cina sta realizzando – sia grazie al gas kazako, sia soprattutto alle riserve russe giacenti in Siberia, vero cruccio di Ashgabat in questo ambito – sia per riuscire a sfruttare nella maniera più adeguata le riserve enormi che giacciono nel campo di Galkynysh, sito da cui partirebbe il TAPI.
Ovviamente gli obiettivi di questo genere di interessi non sono solo legati al gas, ma hanno un più ampio spettro economico politico.
Lo si evince soprattutto dal fatto che Ashgabat ha mantenuto ottimi rapporti sia con il governo filo-occidentale di Kabul durante l’occupazione statunitense, sia con i talebani.
Nonostante le insicurezze relative all’instabilità della zona, il Turkmenistan è tra gli attori che più si è speso per realizzare il progetto e funge in un certo qual modo da mediatore tra i differenti interessi delle nazioni coinvolte.
Questo atteggiamento che, come prima menzionato, ha visto i turkmeni mantenere buoni rapporti con entrambi i fronti interni all’Afghanistan, lo notiamo anche sulla breve distanza, come avvenuto tra febbraio e maggio di quest’anno, quando il ministero degli esteri turkmeno ha incontrato in due tranches separate sia il governo del presidente Ghani, sia le delegazioni talebane.
Degno di nota è anche l’impegno speso dallo stato centro-asiatico nel ricercare investitori internazionali; sia con la sponda statunitense, attraverso un continuo rapporto con la banca mondiale che ha avuto il suo ultimo incontro ufficiale il 7 gennaio 2021, sia con investitori europei, in particolar modo tedeschi, come confermato dall’incontro tra il ministero degli esteri turkmeno e l’inviato speciale tedesco nelle repubbliche di Afghanistan e Pakistan, Martin Potzel.
Il traino del TAPI per il Turkmenistan rappresenta inoltre la possibilità di sviluppare ulteriori progetti infrastrutturali in Afghanistan, relativi sia alla circolazione su ferro sia alle infrastrutture elettriche, oltre che il progetto relativo alla fibra ottica, che dovrebbe accompagnare il corso del gasdotto.
Ashgabat è fortemente interessata alla logistica relativa all’Afghanistan per almeno due motivi.
Il primo è che ciò consentirebbe una maggiore fluidità nel percorso energetico e relativo a tutto l’indotto,che porterebbe le risorse turkmene negli Stati del Sud dell’Asia.
Il secondo è che questa fluidità di circolazione sarebbe propedeutica anche per arrivare ai porti pakistani, in particolar modo quello di Gwadar, che proietterebbe commercialmente la quota relativa alle merci e ai servizi turkmeni verso le rotte più occidentali.
Abbiamo però anche visto che l’instabilità della zona non ha mai consentito uno sviluppo sicuro e veloce del progetto.
Le ragioni sono ovviamente molteplici ma possiamo dividerle in tre macro questioni.
La prima ha a che fare con l’instabilità storica dell’Afghanistan, dovuta sia alla differenziazione interna delle milizie afghane – che non sempre lungo il corso degli anni hanno avuto un atteggiamento coerente tra comandi centrali e comandi periferici, soprattutto per quanto riguarda le visioni tattiche da adottare nei distretti nei quali passerebbe il gasdotto – sia col fatto che l’occupazione statunitense, che avrebbe dovuto garantire questa stabilità, si è risolta nei vent’anni di permanenza in Afghanistan.
Ma nel solito atteggiamento coloniale degli stati occidentali, quasi un pattern storico di certe occupazioni, che puntavano alla formazione di un’élite autoctona stabile nelle zone maggiormente urbanizzate, coperte da una maggiore presenza in quelle aree delle forze di occupazione, contemporaneamente ad una presenza lieve se non praticamente nulla nelle zone periferiche che nell’orografia di un paese come l’Afghanistan costituiscono la percentuale maggiore e più difficilmente controllabile del territorio.
Non a caso le zone dove i talebani, nei vent’anni di presenza USA, hanno sviluppato una presenza capillare ed organizzata, seppur tribalmente, tanto da fondare “de facto” un governo ombra, un doppione dei vari governi filo-occidentali insediati a Kabul.
La seconda questione importante da ricordare, riguardo le difficoltà relative alla realizzazione dell’opera, ha a che fare con le rivalità regionali fra gli Stati coinvolti nel progetto, e in particolar modo tra Pakistan ed India.
Se infatti entrambe entrano nella realizzazione del gasdotto per differenziare ulteriormente le proprie forniture energetiche, le stesse non rinunciano ad ostacolarsi a vicenda per spuntare migliori condizioni di approvvigionamento ai danni dei diretti competitor.
Basti pensare alla questione dei costi di passaggio prima menzionati, senza contare poi la questione relativa ai disordini interni, soprattutto relativi al Pakistan, dove sia le milizie separatiste del Baluchistan, sia quelle fondamentaliste del Tehrik-i-Taliban Pakistan, rappresentano un fattore di instabilità per qualsiasi progetto intrapreso dal governo centrale.
Soprattutto per quanto riguardo i talebani pakistani, Islamabad non perde occasione di incolparli di collusione con Nuova Delhi per le varie destabilizzazioni della zona. Al di là della veridicità di tale asserzione, vale il discorso relativo ai talebani afghani, cioè che l’autonomia della quale godono queste milizie è tale da rappresentare di per sé un pericolo per la sicurezza di qualsiasi investitore, istituzionale o privato che sia.
L’ultimo fattore di instabilità ha a che fare con la cronaca più attuale.
Dopo che gli Stati Uniti hanno deciso di evacuare l’Afghanistan, e il contemporaneo riconoscimento di Pechino e Mosca del fronte talebano, la posizione dei diretti competitor strategici di Washington si è fatta molto più forte.
Questo significa che, al di là dei problemi relativi alla stabilità della zona, e quindi alla sicurezza degli investitori (che permangono), questo progetto potrebbe – sì – realizzarsi, ma sotto una più forte egida cinese, paese che già ha confermato di voler investire nelle future infrastrutture afghane.
Questo ovviamente deteriorerebbe ulteriormente la posizione di Washington nella zona.
Ma anche per i cinesi la realizzazione potrebbe non essere facile.
Primo perché l’instabilità regionale rimane, soprattutto riguardo le tribù talebane del sud dell’Afghanistan, decretando contemporaneamente un banco di prova per il nuovo emirato e una variabile poco rassicurante per Pechino.
Secondo perché i costi dell’opera, come avremo modo di vedere successivamente, sarebbero ben più alti di quelli prospettati sin dall’inizio.
Al di là di queste obiettive difficoltà, i talebani, ben prima della riconquista del territorio afghano, hanno avuto un atteggiamento molto conciliante riguardo questo progetto.
Sembrano infatti essersi accorti fin da subito dal traino rappresentato dal TAPI, tanto che fin dal 2018 si sono spesi in incontri bilaterali, in particolar modo con Ashgabat, che come prima menzionato è lo sponsor principale del progetto, per garantire la sicurezza della realizzazione della opera.
Secondo alcuni analisti australiani, una parte degli accordi di Doha tra i talebani e l’amministrazione Trump faceva riferimento proprio alla realizzazione di questo gasdotto anche dopo la dipartita statunitense da Kabul, in modo che – nonostante la mancanza di presenza fisica delle truppe a stelle e strisce – Washington avrebbe mantenuto un solido baluardo strategico nella zona.
Una prospettiva che passava anche attraverso il coinvolgimento di società statunitensi come cofinanziartici, che avrebbe garantito una diversificazione chiara rispetto ai corridoi energetici rivali,in particolar modo quelli più agganciati a Pechino.
Una controprova di questo “rumors” starebbe proprio nell’atteggiamento talebano, che è rivolto alla massima apertura per quanto riguarda i finanziamenti del TAPI, così come lo era il governo filo occidentale di Kabul prima della sua capitolazione.
Ma ad onor del vero, la questione sembra più legata alla attuale situazione infrastrutturale dell’Afghanistan.
Il paese intero, infatti, al di là della guida politica, ha un interesse capitale per quanto riguarda questo progetto.
Le motivazioni non sono solamente relative all’approvvigionamento energetico, che senza ombra di dubbio è importante per ogni paese e che per Kabul costituirebbe un ottimo affare, soprattutto per quanto riguarda i costi di transito – che farebbero fare un salto quantitativo alle casse del governo centrale e dei vari governi provinciali, ma ha a che fare anche con tutta l’infrastrutturazione di un paese che non ha sviluppato ancora alcuna rete viaria degna di questo nome o che possa dirsi, nei fatti, moderna.
Senza contare poi che un altro problema strutturale della logistica in Afghanistan risiede nel fatto che non vi è una distribuzione sufficiente di elettricità nel paese, e un progetto del genere attirerebbe una buona mole di investitori in grado di garantire finanziamenti anche per questo genere di infrastrutture.
Come peraltro confermato dai progetti turkmeni ed indiani, che già da alcuni anni hanno iniziato a circolare prima nelle stanze del governo Ghani ed ora, almeno per quanto riguarda i turkmeni, in quelle dell’emirato talebano.
In questa maniera Kabul entrerebbe anche più organicamente nella politica degli stati della zona, avrebbe una chance ulteriore di fare parte, da una posizione migliore, degli accordi multilaterali alla base dei meeting delle potenze regionali.
Ma oltre le varie assicurazioni lato talebano e gli altri problemi relativi alla stabilità della zona, permangono altri dubbi relativi alla realizzazione dell’opera.
Innanzitutto: la decisione di mantenere un’organizzazione che comprenda tutte e 4 le società energetiche dei paesi centro asiatici, optando contro una centralizzazione dell’organizzazione e della manutenzione del gasdotto, secondo certi analisti rallenterebbe ulteriormente i lavori.
Secondo: in Occidente, alcuni osservatori fanno notare che il prezzo previsto dell’opera continua a lievitare, disincentivando gli investitori stranieri.
Se ufficialmente i costi sono previsti entro i 10 miliardi di dollari, infatti, questi potrebbero lievitare fino a raggiungere i 40.
C’è poi anche da menzionare, come ultima questione, che Ashgabat – la quale, come prima ricordavamo, produce la maggior spinta per la realizzazione – potrebbe, sotto pressione degli investitori occidentali, ed europei in particolar modo, dirottare le proprie attenzioni verso le rotte energetiche del mar Caspio.
Zona, quest’ultima, dove menzioniamo l’importante presenza turca, che entra indirettamente anche nella questione qui dibattuta ma che non sviluppiamo in questa sede.
Questa diversa rotta garantirebbe affari con l’Europa, bypassando il blocco russo, storicamente guardingo riguardo questo progetto, raggiungendo comunque l’obiettivo di diversificare il proprio portfolio, considerando anche che il Turkmenistan sta comunque varando altri progetti via Uzbekistan e Kazakistan diretti verso la Cina, garantendosi così una clientela accresciuta senza il problema storico dell’instabilità afghana e pakistana.
Conclusioni
Per concludere: il destino di questo progetto sembra segnato, se guardassimo al solo lato economico.
Ma forse l’opportunità aperta dall’uscita statunitense dall’Afghanistan potrebbe fare sì che questo progetto veda la luce, per questioni di rafforzamento politico – un obiettivo cercato sia dai player regionali, che hanno comunque la necessità energetica di spingere per la risoluzione della questione, che da quelli più propriamente impegnati su fronti internazionali, come Pechin, impegnata nella ridefinizione delle regole internazionali grazie alla spinta infrastrutturale che sta producendo nelle zone storicamente colpite dal colonialismo prima e dall’imperialismo poi.
Sicuramente attorno a questo progetto si gioca buona parte della partita inerente alle rotte energetico commerciali del centro dell’Asia.
Una zona di capitale importanza per quanto riguarda i volumi complessivi di produzione e circolazione delle materie prime dell’intero pianeta; un fattore, questo, che fa pensare che le difficoltà legate al progetto potrebbero non bastare a fare desistere i vari attori dal cercare una soluzione.
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