Il ballottaggio per elezioni presidenziali in Cile il 19 dicembre sarà l’ultimo appuntamento elettorale di quest’anno e per così dire la fine di un intenso ciclo che ha visto in questo mese i cittadini di diversi Stati Latino Americani recarsi alle urne dal 7 novembre.
Le elezioni in Nicaragua, Argentina, Cile, Venezuela ed infine Honduras, il 28 novembre, sono stati dei test importanti per verificare la capacità di tenuta e rilancio delle storiche esperienze progressiste (il Nicaragua sandinista ed il Venezuela bolivariano), per comprendere il consenso delle forze politiche che hanno inaugurato, o meglio nuovamente intrapreso, una traiettoria anti-liberista (la coalizione peronista Frente de Todos in Argentina), verificare il possibile sbocco politico di una situazione caratterizzata da un movimento sociale che sembrava la premessa per un cambiamento radicale come in Cile.
E non da ultimo comprendere il livello di delegittimazione popolare di una delle più corrotte e filostatunitensi oligarchie continentale, salite al potere durante il colpo di Stato del 2009, come l’Honduras e conseguentemente la possibilità di affermarsi di una alternativa dopo la frode elettorale del 2017 .
Un quadro complesso a cui va aggiunta la situazione cubana con il disastroso fallimento dei tentativi di destabilizzazione questo 15 novembre, gli attacchi della destra golpista e la risposta popolare al cambio radicale registrato grazie alla vittoria elettorale in Bolivia, la situazione di militarizzazione e di forte fermento sociale in Ecuador ed in Guatemala, e non ultimo la traiettoria del governo di Pedro Castillo in Perù.
Questi ed altri tasselli compongono un puzzle che restituisce un quadro complesso ed in movimento, con avanzamenti, battute d’arresto, estreme polarizzazioni e incognite di un certo rilievo, se pensiamo che i due sfidanti per la carica di Presidente in Cile sono un figlio politico di Pinochet come Kast ed un progressista relativamente moderato come Boric in cui tertium non datur.
Un contesto “in fibrillazione” che pensiamo si riaffermerà tale considerato che con ogni probabilità l’attenzione di Washington una volta risolte le questioni urgenti di politica “interna” legate alla pandemia e votati i due pacchetti -, uno per il rilancio delle infrastrutture da mille miliardi di dollari già legge ed uno sulla spesa sociale (il Build Back Better) da 1.850 miliardi passato al Congresso – si sposterà sul continente latino-americano.
A maggior ragione, questo avverrà dopo la figuraccia del ritiro dell’Afghanistan trasformatasi in una fuga disordinata, la tendenziale fine della presenza boots on the ground in Medio-Oriente, e le frizioni con due attori geo-politici rilevanti come la Russia ai confini con l’UE e la Cina nell’Indo-Pacifico.
Sul piano del cambio degli equilibri gli USA possono poco o nulla nei territori e nelle acque che Mosca e Pechino considerano strategiche, a parte aumentare le frizioni e le provocazioni, con maggiore margine d’azione – ma con una efficacia discutibile – possono muoversi in Africa, ma è proprio in ciò che considerano il proprio “cortile di casa” che con ogni probabilità dovranno cercare di riaffermare la propria declinante egemonia con più forza, anche perché altrove si scontrano direttamente con attori politici di taglia più ridotta della Repubblica Popolare Cinese e della Federazione Russa.
Negli USA la prossima fine dell’anno si svolgeranno le elezioni mid-term, in un contesto deve già da ora Biden è in drastico calo di consensi e non può rimediare altre batoste come quella afghna.
Ma questa riedizione della Dottrina Monroe si scontra comunque con processi politici che vanno, con grado ed intensità differenti, a cozzare con i suoi piani, da qui la centralità del continente latino-americano per capire i futuri assetti planetari e la necessità di dare priorità nell’agenda politica italiana alla solidarietà con le differenti esperienze di questo laboratorio politica.
Una esigenza di iniziativa anche contro le ingerenze dell’UE che fino ad ora ha giocato “di rimessa” ma che si vede costretta dalla competizione globale sempre più accesa a muoversi in maniera più incisiva.
USA e UE vogliono “spartirsi” le risorse del continente, farne uno sbocco per i propri prodotti, e legarlo alle proprie filiere produttive, tagliando la strada a Russia e Cina, e soprattutto impedendo che la cooperazione politico-economica che potrebbero sviluppare ed i coevi processi di integrazione continentali vengano annichiliti sul nascere.
La logica con cui si muovono, è semplice, quanto cinica: mors tua, vita mea, ed è frutto della crisi del modo di produzione capitalistico occidentale, mentre le oligarchie ad esse legate non possono pensare di vedere ridotta od addirittura annullata la propria rendita di posizione strutturalmente connessa all’Occidente.
In questo senso alcuni mesi fa ci eravamo fatti promotori di un appello: “L’America Latina è una speranza per l’umanità” che ha raccolto – e continua a raccogliere – circa un centinaio di firme ed una certa attenzione da chi da tempo segue da vicino le evoluzioni politiche del continente anche fuori dai tradizionali perimetri della “sinistra di classe”.
E soprattutto ci eravamo fatti promotori della necessità di organizzare differenti iniziative di varia natura che rispondessero a questa proposta, spostando l’asse dall’adesione formale all’appello all’attività politica tout court, per ora incentrata soprattutto sull’attività di sensibilizzazione.
Si sono svolte e sono in svolgimento alcune di queste iniziative in diverse città (Milano, Bologna, Napoli), altre si terranno la settimana che viene (Bussoleno il 6 dicembre alla Credenza e Roma il 9 dello stesso mese all’Intifada), altre ancora si svolgeranno a Pisa (il 16 dicembre) e poi in altri luoghi della Toscana nelle settimane successive.
Un segnale incoraggiante, anche se limitato, soprattutto perché vede la partecipazione diretta delle varie espressioni della “sinistra radicale” latino-americana con le quali è necessario creare un rapporto sempre più organico.
Un piccolo passo che esprime in potenza lo sviluppo di una coerente attività internazionalista in solidarietà con quei popoli, di rottura con i paradigmi euro-centrici della sinistra nostrana e di critica feroce a quelle narrazioni tossiche tese a screditare i tentativi di emancipazione dell’America Latina.
Narrazioni aberranti di cui sono fatte purtroppo promotrici anche alcune testate giornalistiche prese come punto di riferimento dal “popolo della sinistra”, come “Il Manifesto” o “L’Internazionale”.
Siamo sicuri che nei mesi a venire l’esigenza che abbiamo espresso diventerà una urgenza non procrastinabile con cui dovranno fare i conti un po’ tutti.
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