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Jamaica, l’anima persa dei Caraibi globalizzati

Vivo in Giamaica da circa un quarto di secolo, testimone oculare della metamorfosi dell’isola, assoggettata alla deregulation selvaggia che il settore privato ha portato a termine, distruggendo il welfare. Difatti servizi come scuola e sanità non appartengono più allo Stato, essendo diventati un lusso a cui solo una minoranza può accedere.

Oltretutto la pandemia ha annichilito il turismo che costituiva almeno il 30% del cash flow del Paese, aumentando le sacche di povertà di larga parte della popolazione che da tale fonte traeva la propria sopravvivenza.

Ciò sta mettendo a repentaglio anche l’identità culturale che faceva della Giamaica un’isola “sui generis” rispetto agli altri Caraibi anglofoni.

La Nuova Borghesia

Le disuguaglianze e gli abusi di potere da parte di uno Stato dominato dalla plutocrazia locale ed estera, sono cresciute in maniera esponenziale durante questi due anni di Covid, congiuntamente al costo della vita.

E non poteva essere altrimenti, in un assetto sociale sempre piú neo-liberista.

L’avanzata del ceto medio nel New Millennium, ha creato una borghesia – proveniente in gran parte dall’edilizia e dal management alberghiero e bancario – chiusa nei suoi privilegi, la cui funzione principale è quella di far da filtro tra la classe dirigente e la manodopera, tutelando così la dicotomia tra una minoranza di giamaicani ricchi o benestanti – circa il 25% della popolazione – e gli altri.

Tale status quo ricalca perfettamente il modello schiavista del periodo coloniale inglese, basato sullo sfruttamento della forza lavoro, dove la differenza è marcata dal possesso dei beni e dalla gradazione del colore della pelle: in genere, i blaka (blackers = piú neri, dal patois, lo slang locale) si collocano nei gradini piú bassi della scala sociale.

Fanno eccezione quelli che in un modo o nell’altro – legalmente o meno ha poca importanza – han fatto i quattrini, guadagnandosi così l’accesso al Gotha del consumismo che contraddistingue il cosiddetto progresso degli ultimi dieci anni – caratterizzato dal cost of living piú alto nei Caraibi riguardo al cibo e alle merci di qualità – ultimando così la trasformazione della Giamaica in una società a caste sul modello indiano.

Per costoro la pigmentazione non è più un problema, in quanto il colore delle banconote è quello che realmente conta.

Police Killings

È indubbiamente la JCF (Jamaica Constabulary Force) la polizia giamaicana, la cartina di tornasole che evidenzia il sistema repressivo, camuffato da democrazia parlamentare, che opprime nell’isola le classi sociali piú deboli, privando questi cittadini di serie B non solo dell’assistenza dello Stato, ma anche – e soprattutto – della salvaguardia dei loro diritti civili, e sovente della loro stessa vita.

A fronte di una delinquenza agguerrita e organizzata, le forze dell’ordine si accaniscono perlopiú su ladruncoli e pesci piccoli della fanteria criminale, preferibilmente uccidendoli, perpetrando il concetto di giustizia fai-da-te che poi si riflette inevitabilmente sulla popolazione civile.

Ma non basta: per via della scarsa professionalità dei suoi membri, sono frequenti gli equivoci, gli scambi di persona e gli scontri a fuoco che mietono numerose vittime anche tra gente comune che si trova casualmente coinvolta in operazioni di polizia male organizzate.

Basti dire che dal 2000 al 2021 sono state uccise 5.120 persone, una media raccapricciante di quasi 250 all’anno, molte delle quali assolutamente innocenti.

In particolare nei centri rurali, vige una sorta di Far-West in cui lo sceriffo di turno si sente depositario del diritto di vita e di morte dei suoi amministrati, sicuro di rimanere impunito anche a fronte di suoi malintesi che sfociano in omicidi gratuiti.

La strage efferata di Lionel Town nella provincia di Clarendon, che ho seguito di persona individuando i testimoni oculari coinvolti, è la prova del nove di quanto affermo: 3 ragazzi, di cui due minorenni, ammazzati come cani e altre 6 persone ferite in seguito a un’ordinaria operazione di pattuglia.

Le vittime erano i passeggeri di un taxi fermato per un controllo, e poi speronato dall’auto della polizia che lo ha mandato fuori strada, provocando lo scoppio di un pneumatico della vettura.

E fu allora che accadde l’inverosimile: gli agenti scambiarono l’esplosione della gomma per uno sparo, crivellando perciò il veicolo di colpi.

Uno dei tre ragazzi venne finito con una pistolettata dal detective capo pattuglia, in perfetto execution-style killing.

Le istituzioni avallano senza vergogna queste atrocità, malgrado gli sforzi di Indecom, la Commissione Indipendente che indaga i police killings, regolarmente sabotata dal DPP, Director of Public Prosecutions con a capo Paula Llewellyn, che fa parte del Ministero di Giustizia, la quale troppo spesso insabbia casi eclatanti di abusi giudiziari, rimettendo in libertà i criminali in uniforme prima che vadano a sentenza definitiva.

E per quei pochi che alla fine vengono condannati, la maggior parte di costoro riesce a farla franca, rimanendo anche in servizio attivo, e magari uccidendo ancora, come è già capitato.

Junk Food

É soprattutto nel cibo, che si evidenzia in maniera inequivocabile il crollo dell’identità culturale di una nazione: prima era possibile apprezzare le prelibatezze locali entrando in un ristorantino a conduzione familiare, o passeggiando lungo le bancarelle degli street food, spesso aperti anche di notte.

Oggi questo termine è circoscritto ad eventi legati a celebrazioni particolari, mentre il Covid ha dato il colpo di grazia alle trattorie, a cui le catene statunitensi di fast food, che infestano i centri commerciali del pianeta, avevano già tagliato le gambe.

In Giamaica, uno dei primi Burgers King fu inaugurato a Ocho Rios, che per via delle navi da crociera è sempre stato il centro turistico piú americanizzato.

Il Junk Food (cibo spazzatura) si è propagato come un virus su tutta l’isola, attraverso i vari marchi a stelle&strisce: Pizza Hut, Wendy’s, KFC, Popeyes, Subway, e via friggendo.

La classe media giamaicana, malata di esterofilia, ha progressivamente abbandonato le proprie abitudini, per riversarsi negli alveari del junk.

Il Box Food (cibo da asporto) ha praticamente soppiantato la mensa casalinga; le famiglie non cucinano quasi più, limitandosi a farlo durante le festività.

E i risultati si vedono: l’obesità è triplicata negli ultimi dieci anni, fino al punto che la percentuale delle persone overweight (sovrappeso) oggi in Giamaica è il 54%: piú di un individuo su due.

https://jis.gov.jm/health-minister-calls-for-behaviour-change-to-tackle-obesity/

Durante le restrizioni imposte dal governo nel periodo piú buio della pandemia, che limitava a tre giorni alla settimana la libertà di movimento, code di auto partivano dai semafori adiacenti alle piazze principali dirette a passo d’uomo verso i santuari del colesterolo, causando intasamenti mostruosi.

Sono centinaia oggi i fast food presenti nell’isola, anche nei piccoli centri rurali, dove malgrado il livello di povertà imperante, la gente riversa comunque i magri risparmi.

E i prezzi, vista la passività dei consumatori, sono saliti alle stelle: 1500 JMD (Jamaican dollars) per un quarto di pollo fritto, con bevanda gassata e patatine immerse nello stesso olio di frittura per giorni interi.

Al cambio sono piú di 10 dollari USD, cioè oltre il doppio di quanto il medesimo Combo non costi negli Stati Uniti.

Ackee and jerk chicken, my loves

La perdita della tradizione gastronomica sarebbe irreparabile: il menu dell’isola è formato da pochi piatti, ma unici nel loro genere, e alcuni sono vere e proprie icone mondiali, un mix tra cucina caraibica, indiana e africana: pietanze come il curried goat, capretto insaporito con la salsa curry, il fried chicken, pollo fritto servito con rice and peas – riso mantecato nel latte di cocco e guarnito con fagioli – e ovviamente il pesce, sia fritto che steamed, cioè cotto al vapore, accompagnato da vegetali e okra, un legume a baccello.

Come breakfast, ackee and saltfish, il piatto nazionale per eccellenza.

L’ackee è un frutto di origine africana: si estrae prima la polpa gialla dalla scorza protettiva. Una volta cotto con cipolla e saltfish – lo stoccafisso – l’ackee al primo impatto ricorda le uova strapazzate, ma con un gusto particolare, che si abbina bene anche a pasta e pizza.

https://photos.app.goo.gl/hZpZ3dn17988NUET9

Jerk chicken è la pietra miliare dello street food giamaicano: pollo alla griglia, su cui si adagiano petti e cosce, all’interno di bidoni dotati di un piccolo camino per la fuoriuscita dei fumi, che vengono poi chiusi al momento della cottura.

Una volta pronti, i tranci sono spennellati di salsa jerk, piccante al palato ma sopportabile.

È un piatto talmente saporito che non trova similari in nessun altro paese, sia per la particolarità della cottura che per il tipo di salsa, la cui ricetta è sempre stata custodita in gran segreto.

Il video, girato a Red Hills Road nella capitale Kingston – che insieme a Ocho Rios downtown e il Boulevard di Negril è uno dei tre avamposti principali della tradizione jerk – ne spiega meglio la dinamica.https://photos.app.goo.gl/XEEZhtQR8cSgu9ZNA

Fanno storia a sè i push-cart vendors, venditori ambulanti che spingono carretti strapieni di frutta, verdura e Yam, il tubero locale, lungo i mercati dell’isola.

Vita dura la loro, con margini di guadagno risicati, e tanta roba che va al macero, per la concorrenza spietata dei supermarket che vendono merce importata.

Questo status quo li rende scorbutici, e il nervosismo aumenta quando un turista scatta loro foto non autorizzate.

In Giamaica ciò è considerata mancanza di rispetto, e di solito viene richiesto un compenso riparatore.

Folklore e misticismo

Durante le feste, principalmente Boxing Day (il nostro Santo Stefano) e l’ultimo dell’anno, è facile imbattersi in gruppi di uomini coperti dalla testa ai piedi di costumi bizzarri con il volto celato da maschere inquietanti, quali teschi, streghe, o animali, che danzano in mezzo alla strada fermando le macchine per chiedere un compenso mentre si esibiscono. Sono i Junkanoo, attivi soprattutto nelle Bahamas, in Belize e Giamaica. Le danze e l’abbigliamento richiamano i riti antichi africani, il cui misticismo è tuttora attivamente praticato dai Garifuna in Belize, Honduras e Saint Vincent & Grenadine nelle Piccole Antille.

https://en.m.wikipedia.org/wiki/Garifuna

E’ interessante notare che quando le bande di Junkanoo fermano il traffico per esibirsi nelle loro danze e chiedere un contributo agli automobilisti, questi non protestano, spesso lasciando qualcosa.

Aldilà del rispetto per una delle ultime tradizioni ancestrali che essi vanno rappresentando, il giamaicano medio, imborghesito e conformista fino all’eccesso, nutre una sorta di soggezione nei loro confronti, non tanto per i costumi macabri che alcuni indossano, bensì per l’africanità che ancora difendono, all’interno di una società caraibica ormai totalmente occidentalizzata, tranne le sparute comunità dei Rastafari sempre piú emarginate dal contesto sociale.

Ma, differentemente da questi e dagli altri street people che la gente detesta e perseguita, il mistero che circonda l’identità dei componenti delle bande, è la loro forza e ancora di salvezza.

Nessuno sa chi si celi dietro quelle maschere, che non a caso sono prive di occhi, tranne le fessure dei teschi.

Né dove essi abitino, o dove si riuniscono.

Il termine Junkanoo, deriva dal nome fittizio del guerriero John Canoe – affibbiatogli dai suoi nemici – che combatté gli europei in Ghana ai primi del ‘700, per poi scomparire nel nulla.

Ed è proprio tale anonimato che consente loro di sfidare il traffico stradale ai fini della sopravvivenza, e simbolicamente le regole di una società nei cui schemi essi non si riconoscono.

  Testi, foto e video credit © F.Bacchetta – da Articolo 1

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