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Gli Emirati rompono l'”embargo” alla Siria

Il 18 marzo si è verificato un evento a suo modo “storico” nell’ambito degli equilibri del Medio Oriente: il presidente siriano Bashar al Assad si è recato in visita ufficiale negli Emirati Arabi Uniti dove è stato accolto dal primo ministro Mohammed bin Zayed.

Quando da poco sono scoccati gli 11 anni dall’inizio del conflitto, per la prima volta Assad viene ricevuto da un altro paese arabo e, in generale, da un paese diverso rispetto agli “alleati di ferro” (Russia e Iran); si tratta, oltretutto, di una petromonarchia del Golfo, all’epoca in prima fila nel tentativo di destabilizzarne il governo e farlo cadere.

Già da tempo è in atto un sotterraneo lavorio diplomatico atto a determinare l’uscita dall’isolamento della Siria rispetto ai vicini arabi e la sua riammissione a tutti i consessi internazionali, con annesso riconoscimento ufficiale della sovranità su tutto il territorio siriano. Oramai, quasi tutti i governi dell’area hanno preso atto che è impossibile rovesciare Assad in maniera violenta.

Nelle dichiarazioni di rito, Mohammed bin Zayed ha apertamente chiesto il ritiro di tutte le forze straniere presenti illegittimamente in Siria. Quindi anche gli USA. Petizione di principio impensabile fino a qualche anno fa.

Non si è fatta attendere la risposta nordamericana: per bocca di Ned Price, portavoce per il Dipartimento di Stato, Washington si è detta “profondamente delusa e preoccupata per questo tentativo di legittimare Assad” da parte dell’alleato.

Si tratta, è bene rimarcarlo, del secondo schiaffo in pochi giorni che arrivo sul muso di Biden dal Golfo Persico, dopo che nelle scorse settimane gli stessi Emirati Arabi Uniti e l’Arabia Saudita hanno respinto le pressioni ad aumentare la produzione di petrolio per arginare l’inflazione.

Gli Emiratini, dunque, tentano di ritagliarsi un ruolo autonomo ponendosi come ago della bilancia nell’ambito degli equilibri dell’area: il sovrano Al Nayah bin Zayed, infatti, vanta buoni rapporti contemporaneamente con Israele, con cui ha firmato gli “accordi di Abramo” riconoscendo ufficialmente lo stato sionista, e con l’”asse di resistenza”.

Sul fronte siriano, questo ennesimo punto diplomatico segnato a proprio favore viene in un momento le cose, sul terreno, non sono messe benissimo.

A causa della crisi ucraina, infatti, la Russia non può impegnarsi più di tanto sia dal punto di vista militare, che su quello diplomatico; anzi, sono molti gli ex-soldati dell’esercito di Damasco che in queste ore stanno partendo alla volta dell’Ucraina in appoggio all’alleato.

Nel mentre, alcuni fronti rimasti “freddi” nel mesi scorsi stanno conoscendo un’escalation: parliamo della provincia meridionale di Daraa, dove, a causa del lavoro sporco di Israele e dei suoi continui raid aerei, alcuni gruppi armati che si erano riconciliati con Damasco stanno riprendendo le armi; e delle aree nord orientali, in cui i gruppi jihadisti filo-turchi tengono continuamente sotto tiro le aree cogestite dall’esercito siriano e dalle Ypg curde, probabilmente in attesa di una nuova invasione di Ankara.

Sul fronte di Idlib, infine, si continua a mordere il freno in attesa del disco verde da parte di Mosca, che in questa fase appare abbastanza remoto.

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