Menu

L’embargo occidentale sul petrolio non sembra impensierire Mosca

Oltre ad “aggredire la democratica Ucraina”; oltre a mandare in crisi governi guidati dalle “migliori” competenze (anti-operaie e atlantiste) qua e là per un’Europa a marchio UE; oltre a spedire uomini in Cirenaica per “spingere in Italia i barconi coi migranti”; oltre ad “affamare” e mettere al freddo (o al caldo, dipende dalle stagioni politiche) la “libera” Europa, la Russia si dedicherebbe anche ad altro.

Non parliamo dei circa 750.000 rubli (al cambio attuale, appena 12.000 euro; ma chissà che l’idea non venga ripresa da catto-reazionari “europeisti”, anche nostrani) spesi dall’Istituto di filosofia dell’Accademia delle scienze nella ricerca se «L’esistenza dell’inferno costituisca una malvagità».

No; parliamo di qualcosa che sta, sì, sottoterra, e anche molto in profondità, ma che può rappresentare, a seconda dei casi, sia un male che un bene. Proprio come recitava il bandito-contrabbandiere di un film cult tardo-sovietico: «Il pugnale è buono, per chi ce l’ha; ma è cattivo per chi se ne trovi sprovvisto al momento del bisogno».

Ora, per non farla troppo lunga, è di pochissimi giorni fa l’annuncio di Rosneft dell’avvio, nella penisola di Tajmyr (la più estesa e più settentrionale tra le penisole della Russia, racchiusa tra la baia del Enisej, nel mare di Kara, e la baia del Khatanga, nel mare di Laptev) dello sfruttamento dei giacimenti lungo il corso del Pajakha, nel quadro del progetto “Vostok Ojl”, in cui sono impegnate qualcosa come 400.000 persone.

Si tratta, secondo gli osservatori della conservatrice Tsargrad.tv, di un’opera che potrebbe capovolgere le linee energetiche mondiali. Con una capacità di sollevamento che supera le 400 tonnellate e una profondità di perforazione di 6 km, parte dell’infrastruttura è già stata costruita ed è in allestimento il terminale petrolifero “Bukhta Sever”, prossimo all’agglomerato urbano di Dikson.

La lunghezza totale degli ormeggi per il carico di merci e petrolio si avvicina al chilometro e mezzo, con, in una prima fase, 27 serbatoi da 30.000 mc ciascuno, che diventeranno 102 entro il 2030.

Sono inoltre in allestimento speciali petroliere artiche, che seguiranno la rotta del mare del Nord, con maggiore flessibilità logistica, «mettendo il progetto al sicuro da qualsiasi diktat di prezzo e normativo dei consumatori», dichiara l’economista Leonid Krutakov.

Con le riserve di carbone che vanno prosciugandosi; con l’alt a nuove gigantesche centrali idroelettriche; con le centrali nucleari – nota Tsargrad.tv – che «hanno i loro limiti legati alla sicurezza del funzionamento… gas e petrolio rappresentano oggi il nucleo dell’energia mondiale e lo rimarranno ancora a lungo».

Già da tempo Rosneft si occupa dell’estrazione di gas e petrolio nella penisola di Tajmyr; ora che l’era del petrolio della Siberia occidentale sta volgendo al termine, osserva l’economista Valerij Andrianov, l’avvio di “Vostok Ojl” dà il via a un «nuovo distretto di petrolio e gas. Nonostante lo sviluppo delle fonti di energia rinnovabile, la domanda di petrolio continuerà a crescere per molti anni a venire.

Nel contesto dei ridotti investimenti nello sviluppo del settore petrolifero e del gas, che abbiamo visto negli ultimi anni, “Vostok Ojl” è l’unico progetto al mondo in grado di avere un effetto stabilizzante sui mercati degli idrocarburi», con una base di risorse di 6,2 miliardi di tonnellate di petrolio.

Tra l’altro, ricorda il direttore dell’Unione degli industriali gas-petroliferi, Rustam Tankaev, le «tre più grandi regioni di petrolio e gas sul territorio russo vantano riserve che costituiscono il 70% di tutte le risorse del pianeta. Le maggiori riserve, circa la metà del volume globale, sono concentrate sulla piattaforma e sulla costa del mar di Kara, e “Vostok Ojl” rappresenta circa il 15% di queste risorse».

Significativo, dice ancora Leonid Krutakov, che i «fattori economici esteri dovuti alla politica aggressiva dei paesi occidentali nei confronti della Russia, non abbiano influito in alcun modo sul progetto».

Questo perché, quando ad esempio Joe Biden chiede ai petrolieri americani di aumentare la produzione, quelli rispondono che è impossibile, a causa delle scelte dell’Amministrazione USA: «l’industria gas-petrolifera non funziona “a comando”», afferma Krutakov; «servono investimenti, tempo per avviare nuovi progetti e ampliare quelli esistenti. Questa volta l’Occidente ha, nel senso letterale, “sputato nel pozzo”».

Così che, da qui al 2030, la Russia non rivestirà più lo status di “superpotenza energetica”: semplicemente, sarà l’unica potenza energetica.

Sarcasticamente, di nuovo Tsargrad.tv osserva che “Vostok Ojl” è il progetto «più importante non solo per la Russia, ma per il mondo intero (tranne, ovviamente, quei paesi che cercheranno di sopravvivere senza idrocarburi russi). La base di risorse del progetto supera i sei miliardi di tonnellate di petrolio a basso contenuto di zolfo Premium, quasi una tonnellata per ogni abitante dei paesi che non hanno aderito alle sanzioni».

E, però, in conseguenza dell’embargo deciso dalla UE il 31 maggio sull’export di petrolio russo via mare (l’embargo non riguarda le forniture via oleodotto per quei paesi, come ad esempio l’Ungheria, che non hanno sbocchi sul mare), da metà luglio, l’export di petrolio russo per nave si è ridotto di 480.000 barili al giorno, scrive il canale telegram Gaz-batjuška.

Tra l’11 e il 15 luglio tre petroliere in meno sono salpate dal terminale di Primorsk e due in meno da Ust’-Luga (da qui, con 5-6 petroliere al mese, transita anche parte del petrolio del Kazakhstan), sul Baltico, rispetto alla settimana precedente.

Diminuiti i carichi anche dal Baltico verso l’Asia e dai terminali di Novorossijsk, sul mar Nero. Sceso a 840.000 barili al giorno il carico dai tre terminal petroliferi orientali di Kozmyno, De-Kastri e Prigorodnoe. Di contro, i volumi di carico nei terminali baltici con destinazioni nel nord Europa sono saliti al livello più alto dal marzo scorso.

Per la UE, scrive IARex.ru, sarà presto all’ordine del giorno la questione delle raffinerie di proprietà russa, che ora possono ricevere petrolio solo dalle società madri, comprese Rosneft e Lukojl. Con l’embargo sulle forniture via mare, è serio il rischio che quelle debbano fermare il lavoro, aggravando ulteriormente la crisi dei combustibili nella UE; e lasciando a casa migliaia di lavoratori, aggiungiamo noi.

In questa cornice si inquadra anche la questione del trasporto del petrolio kazakho, attraverso il KTK (Consorzio dell’oleodotto del Caspio) da cui passa circa l’80% del petrolio dai campi di Tengis al terminale russo di Novorossijsk-2.

Dopo gli avvenimenti del gennaio scorso, con gli estesi scioperi dei lavoratori gas-petroliferi, in Kazakhstan si amplificano le voci sulla ricerca di vie alternative (passando pur sempre dal territorio russo) per la principale merce d’esportazione kazakha. Nel 2021, per il KTK sono transitate 53 milioni di tonnellate di petrolio, con il 70% del greggio kazakho destinato all’Europa.

Una alternativa al KTK potrebbe essere rappresentata dall’oleodotto “Družba”. Se dal 1 gennaio la UE ridurrà a zero le forniture di petrolio russo, si arriverebbe alla chiusura del ramo settentrionale dell’oleodotto.

Dal momento però che l’embargo non si applica al petrolio kazakho, stando a Deutsche Welle, Rosneft sta proponendo alla Germania di organizzare il pompaggio di petrolio kazakho attraverso il “Družba” fino alla raffineria PCK Schwedt, di cui è il maggior azionista, insieme a Shell e ENI. Per ora, però, Berlino tace.

Incertezze anche per il ramo sud del “Družba”, che rifornisce Ungheria Re. Ceca e Slovacchia; mentre il tragitto del petrolio kazakho fino ai terminali baltici di Primorsk e Ust’-Luga aumenta i costi di trasporto dai 38 $/tonnellata del KTK, ai 63-68 $. Poco significative le varianti verso Baku (Azerbajdžan)-Tbilisi (Georgia)-Ceyhan (Turchia), oppure verso Makhačkala (Daghestan)-Novorossijsk.

Teoricamente, un’alternativa potrebbe essere rappresentata dall’invio di greggio alle raffinerie nel nord iraniano attraverso il porto di Neka, sul Caspio; giungere quindi fino al Golfo Persico, per essere quindi diretto ai mercati asiatici più promettenti, principalmente India e Cina, ma anche Corea del Sud, Taiwan, Giappone, oltre a Grecia, Turchia e Italia a ovest. Una variante, questa, cui potrebbe essere interessata la stessa Russia, dopo aver sviluppato i propri corridoi nord-sud, verso Makhačkala e Astrakhan, sul Caspio.

Altra alternativa è quella dell’oleodotto Kazakhstan-China, controllato alla pari da KazMunayGaz JSC e CNODC (China National Oil and Gas Exploration and Development Corporation), lungo i rami Kenkijak-Kumkol (10 milioni di tonnellate/anno con prospettiva fino a 20 milioni) e Atasu-Alašankou (20 milioni di tonn/anno).

Da notare che nel 2021, dei 10,9 milioni pompati attraverso il Atasu-Alašankou, quasi 10 milioni provenivano da Rosneft e circa 1 milione erano davvero petrolio kazakho e lo scorso febbraio Putin e Xi hanno prorogato tale accordo per altri 10 anni.

Allora, come la mettiamo con le sanzioni? Vediamo se l’“impero del male” finirà all’inferno o ci finiranno le “democrazie in lotta con la dittatura” dei paesi nemici?

- © Riproduzione possibile DIETRO ESPLICITO CONSENSO della REDAZIONE di CONTROPIANO

Ultima modifica: stampa

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *