In una conversazione con “Interferencia” in un fondo a Coi Coi, nella profonda Araucanía, il portavoce della CAM parla delle possibilità di dialogo con le autorità e del perché il suo gruppo si sente alienato dall’attuale processo costituente.
Lo scorso sabato 16 luglio siamo andati a Coi Coi, nella comunità mapuche situata a sud di Tirúa, dove Pablo Marchant, membro del CAM, è morto l’anno scorso per mano dei Carabineros. Da allora quei fondi delle imprese forestali sono stati “recuperati” dalle comunità Mapuche, che quel giorno hanno seminato grano su due colline situate al centro di un immenso fondo piantato a pineta, appartenenti all’impresa forestale Mininco della famiglia Matte.
In una giornata fredda, con abbondanti piogge intermittenti, i nostri media hanno parlato per diverse ore con Héctor Llaitul, il portavoce ufficiale della Coordinadora [n.d.t.:Coordinamento] Arauco Malleco (CAM), che in questi giorni festeggia i 25 anni dalla sua nascita nel 1997. Di seguito gli estratti principali di quell’intervista.
Pochi giorni fa, il Ministero dell’Interno è stato escluso come parte nel caso dell’Operación Huracán, un montaggio dei Carabineros che l’ha tenuta in detenzione preventiva per più di un mese. Cosa ne pensa?
Ebbene, il caso Huracán è uno dei più emblematici per quanto riguarda l’azione e la posizione che lo Stato ha in relazione al conflitto con il nostro popolo. In effetti, quando sono stato invitato alla Commissione per i diritti umani delle Nazioni Unite [alla fine del 2018], erano molto interessati che io facessi riferimento al caso Huracán.
Perché, vediamo, qui bisogna chiarire un punto. Il caso Huracán è entrato nella stampa e nell’immaginario collettivo come un’operazione di intelligence della polizia orchestrata ai massimi livelli dalle autorità dell’epoca, dal governo del momento, in questo caso quello della signora Bachelet e dall’intero apparato statale. È stata un’operazione in cui il governo, in un modo o nell’altro, è stato coinvolto politicamente.
È stata presa una decisione politica ed è stato dato mandato ai funzionari dei Carabineros di eseguirla. E così il generale Bruno Villalobos fu destituito per questo motivo.
Però non è stato destituito, si è dimesso.
Naturalmente, a causa della pressione e di altri precedenti della sua cattiva gestione in queste questioni. Ma è stato processato, cosa inedita in questi casi, specialmente in questioni come la causa mapuche.
Quindi questo dimostra che lo Stato nel suo insieme è coinvolto qui e, quindi, è un fatto molto grave. Un’operazione in cui sono stati utilizzati strumenti dello Stato, da parte di agenti dello Stato, per accusare, con prove false, dei membri della comunità del movimento mapuche.
Oggi il caso Huracán ha un’altra versione, è presentato in un altro modo, perché ora quelli che vengono perseguiti e assicurati alla giustizia sono i carabinieros che sono stati responsabili di questa operazione e che si sono resi conto che qui c’era un’azione illegale e criminale, perché le azioni compiute sono tali da consentire che siano condannati a pene lunghe, compreso il carcere, secondo la stessa legislazione dello Stato.
Il montaggio in fondo è qualcosa di molto grave e quindi le istituzioni dovrebbero agire di conseguenza. Il fatto che l’attuale governo, attraverso il Ministero dell’Interno, sia stato escluso come denunciante è un precedente molto nefasto per questa amministrazione, perché darebbe il via libera al non luogo a procedere per le persone coinvolte e che il caso finisca praticamente nel nulla.
Perché pensa che questa possibile impunità abbia a che fare con il fatto che il governo non sia più querelante?
Perché dovrebbero perseguire i crimini indipendentemente da chi li commette. È questo lo stato di diritto che pretendono di difendere? Se agenti dello Stato hanno commesso atti illeciti molto gravi, come utilizzare prove false per incriminare i membri della comunità, non è semplicemente una questione di trasgressione o mancanza di fiducia nel funzionamento delle istituzioni, ma piuttosto si tratta di commettere un reato o di commettere un reato penale grave. In altre parole, si tratta di violazioni non solo dei diritti umani, ma di un’azione molto spregevole, nel senso che lo Stato utilizza l’istituzione non solo come repressiva in sé, ma è anche in qualche modo al di fuori della legge. Questo è ciò che intendiamo.
È rimasto sorpreso dal fatto che, a causa di piccoli errori amministrativi, il governo sia stato escluso dal caso?
È che un governo che afferma di essere, tra virgolette, di sinistra o di pseudo-sinistra per noi, che proclama di essere per la difesa dei diritti dei cittadini, non dovrebbe far finta di niente rispetto a questo processo e dovrebbe invece presentarsi come querelante, perché qui sono stati commessi dei crimini.
La ministra Izkia Siches ha rimosso i responsabili legali di questo errore e lo stesso presidente Gabriel Boric ha qualificato come inaccettabile quanto accaduto.
Il problema è che le istituzioni, a seconda dei tribunali, dicono il contrario. Qui c’è stato un vizio, un errore e, quindi, sono rimasti fuori dal caso e questo è piuttosto strano. Perché, come si è capito, gli studi legali del Ministero dell’Interno non hanno fatto il loro lavoro. C’è, per così dire, una gatta da pelare.
Nella CAM pensiamo che ancora una volta questi eventi rimarranno impuniti, nonostante siano estremamente gravi.
La nostra lettura è che sembra che qui ci sia una sorta di collusione a sostegno dell’azione dei Carabineros e, inoltre, la criminalizzazione del movimento autonomista, in particolare di quello che, come noi, si scontra con gli interessi del grande capitale che si è incistato nel nostro territorio ancestrale. .
Per noi, la lotta è, in definitiva, contro questo Stato di tipo capitalista, di formato coloniale ed è per questo che riteniamo valida il tipo di lotta che non deve necessariamente passare attraverso questa istituzione oppressiva. La nostra posizione, e il caso Huracán lo riafferma, è che le trasformazioni avvengono al di fuori del quadro istituzionale.
Ma all’inizio dello scorso anno, la CAM non era chiusa all’idea di sedersi a dialogare con il governo, allora guidato da Sebastián Piñera. Sono state chieste determinate condizioni, come avere osservatori internazionali. Cosa è successo nell’ultimo anno e mezzo, visto che le cose apparentemente sono più stagnanti?
A rigor di termini, noi siamo espressione di un’organizzazione autonomista mapuche, siamo un’espressione legittimata dai fatti stessi. Perché se ci fosse la volontà politica di cercare una soluzione attraverso mezzi legali, noi staremmo già partecipando.
Siamo disposti a parlare, ma ciò che conta qui è che ci sia una politica che prenda il conflitto per quello che è veramente. Cosa sta succedendo? Ci impongono costantemente uno Stato di eccezione e questa repressione ha avuto conseguenze nefaste. Quello che sta succedendo in fondo, e né questo né alcun governo ha osato affrontarlo, è che ci sono comunità che vivono in mezzo a enormi proprietà di grandi imprese forestali. E nessuno osa confrontarsi con questi interessi. Quindi, un primo passo per instaurare un dialogo non è solo la restituzione del territorio, ma anche mettere un freno alla devastazione dei territori da parte di politiche estrattive che vanno anche al di là del nostro popolo.
In questo governo ci sono stati segnali per quanto riguarda le imprese forestali?
No, questo è il problema. Le imprese forestali oggi come industria rimangono intatte, i progetti di monocultura sono stati mantenuti e altre aziende costruiscono dighe, centrali idroelettriche e altri tipi di investimenti che stanno devastando la territorialità ancestrale, occupando le risorse di terra e acqua, che sono fondamentali per il mondo mapuche.
In questo contesto, qual è la posizione che ha la CAM rispetto al processo costituente? Pensate che ci siano progressi rispetto a questi temi?
Come parte del movimento autonomista mapuche, entriamo in contrasto con questo modo di fare politica, che crediamo sia imposto dall’alto dalle élite di sempre.
Per noi è una contraddizione portare avanti un processo di indipendenza del nostro popolo e, allo stesso tempo, partecipare al quadro istituzionale. La nuova Costituzione propone la plurinazionalità, ovvero che più popoli coesistano nello stesso Stato-nazione. Per noi è una contraddizione, perché significa che dovremmo ignorare che il popolo mapuche ha la sua propria autonomia, la sua cultura, la sua struttura sociale. Il concetto di nazione per noi è fondamentale, perché lo sfondo della lotta mapuche è territorio e autonomia.
Insisto, la nostra lotta è sul territorio e abbiamo visto dei progressi. Le imprese forestali sono sempre più sotto pressione, e stiamo parlando delle famiglie Matte e Angelini, altrimenti la regione non sarebbe stata militarizzata.
Cosa sta succedendo da diversi anni a questa parte? Lo Stato ha preso la decisione di militarizzare il Wallmapu, indipendentemente dall’amministrazione al potere. Piñera è stato colui che ha messo in opera questa idea, e la classe politica dirigente, non solo i partiti di destra, ma tutti quelli che sono coinvolti nel mantenimento del sistema neoliberista, in difesa degli interessi dei potenti, hanno continuato sulla stessa strada .
La militarizzazione del Wallmapu, l’applicazione delle leggi di eccezione, la criminalizzazione e la persecuzione del movimento autonomista si esprime negli scontri, principalmente con le imprese forestali, con i grandi investitori o capitalisti che operano indiscriminatamente nel nostro territorio ancestrale. Loro agiscono in difesa dei propri interessi.
Ho potuto osservare qui centinaia di ettari di piantagioni forestali, ma nulla indica che i loro proprietari – l’impresa forestale Mininco del Gruppo Matte – siano effettivamente presenti.
Certo, infatti la CAM e altre organizzazioni stiamo recuperando territorio, stiamo recuperando fondi che sono in mano alle imprese forestali, come questo posto e altri. E li stiamo trasformando. Questa pratica si è diffusa e sembra che sia un’alternativa reale per le comunità. Questo recupero territoriale si sta estendendo. Di fatto, nella zona di Arauco, da Cañete verso il sud fino a questa zona, non esiste praticamente alcuna industria forestale. Se fai un giro, non c’è presenza dei cantieri, dell’industria né della custodia.
In altre parole, le imprese forestali di fatto hanno consegnato i territori?
Non è che li abbiano consegnati, ma piuttosto che, per la forza dei fatti, si è verificato un sostanziale avanzamento nella domanda territoriale di fatto. In altre parole, il controllo dei territori è nelle mani delle comunità e del movimento mapuche autonomista.
Le imprese forestali non si sono mai avvicinate o hanno aperto un canale di comunicazione con gruppi come quelli che lei rappresenta?
Nei governi precedenti ci sono stati tentativi di avvicinamento da parte delle imprese forestali attraverso agenti che intervenivano, come interlocutori, e l’idea era quella di considerare una tregua. Una tregua. Ebbene, il governo in qualche modo dice di voler stabilire la possibilità del dialogo o un tavolo per le trattative del conflitto. La prima cosa che ci chiedono è che smettiamo di compiere azioni, che deponiamo le armi. Ma anche noi mettiamo determinate condizioni. Una è che ci sia lo sgombero delle aziende forestali e della loro industria, e la fine della militarizzazione. Il che è praticamente impossibile perché, per definizione, questo è uno Stato capitalista e queste politiche estrattiviste sono installate nel suo DNA. Quindi abbiamo abbassato le condizioni per instaurare un dialogo e ad un certo punto abbiamo detto che saremmo stati disponibili per un dialogo.
Quando è successo questo?
Nei due governi precedenti lo abbiamo detto a suo tempo. Ma questo avrebbe dovuto essere un dialogo ai massimi livelli e con garanzie. E quali garanzie vorremmo noi? È che [questo dialogo] sia fatto con il movimento mapuche in resistenza e non con altri attori che approfittano della causa mapuche e finiscono per essere, o sono, in sintonia con le politiche statali. Cioè, gli amici dei governi di turno. E, naturalmente, lì si riproducono le politiche sociali, i progetti e la politica statale.
Quindi, una garanzia è che si parli con i rappresentanti della resistenza o che ci siano garanti che rendano possibile un dialogo, dove noi potessimo porre come rivendicazioni fondamentali il territorio e l’autonomia. Come risolvere la questione territoriale per sbloccare un conflitto che sta già diventando cruento nel senso della lotta e che implica affrontarlo in una prospettiva politico-militare, perché questo è già un confronto a quel livello.
Questo non è un conflitto che abbiamo instaurato noi, bensì lo Stato che ha assunto la difesa e la resistenza degli interessi del grande capitale da quella prospettiva violenta, criminale e con gli agenti dello Stato che stanno militarizzando Wallmapu. Quindi, le garanzie degli osservatori internazionali, ad esempio, sono un minimo da richiedere.
Cioè, è l’idea dell’anno scorso, quando a fine marzo il giornalista della TVN Iván Núñez stava andando a intervistarlo, e non ha potuto farlo a causa dell’imboscata che ha subito insieme al suo cameraman.
Certo. Perché quella è stata la prima volta che tutto questo è stato preso molto sul serio dagli organismi internazionali ed è stata l’ONU a sollevare [la questione]. Quindi era una notizia sapere quale risposta avremmo dato noi. Perché ovviamente il governo poteva sottomettersi a un ordinamento sovranazionale, come l’ONU o organismi internazionali, ma doveva anche avere una risposta da parte nostra e noi saremmo stati senz’altro d’accordo se queste garanzie fossero esistite. E, inoltre, avremmo messo come piattaforma la discussione di temi molto potenti per la causa mapuche, come la restituzione dei territori e la possibilità di ricostruirci per l’autonomia.
In questo senso, l’imboscata all’equipe di TVN ha posto fine a quei negoziati?
Non necessariamente. Ma è stata un’azione che ha generato confusione e inizialmente hanno persino incolpato la CAM o altri gruppi di resistenza mapuche per questo. Era un modo volgare per comunicare all’opinione pubblica che alcuni gruppi mapuche siamo intransigenti. Pertanto, quell’azione ha chiuso per un certo tempo la possibilità del dialogo.
Alla fine quell’intervista non è mai avvenuta e, non potendo esprimerci, la nostra voce è stata messa a tacere ed è stata trasmessa l’idea che non eravamo più disponibili al dialogo. Penso che questo sia stato uno dei motivi per cui quel giornalismo è stato attaccato. E l’altro motivo era cercare di minare la possibilità che la nostra posizione avesse un’eco a livello internazionale. Perché se questi dialoghi fossero stati tenuti con osservatori internazionali, il movimento autonomista mapuche aveva la possibilità concreta di esporre i fondamenti propria lotta mapuche e di legittimarla a livello internazionale.
Il CAM e altri gruppi mapuche cercano di recuperare territori e ottenere autonomia. In tal senso, hai in mente esempi di altri paesi che potrebbero fungere da guida?
Ogni lotta per l’indipendenza ha le proprie basi ideologiche, culturali e storiche. I Paesi Baschi, per esempio, oppressi da due Stati; anche la lotta dei curdi può essere intesa anche in questo modo. Ci sono molti popoli che si sentono oppressi dagli Stati-nazione. Noi crediamo che la lotta di uomini e donne sia contro lo sfruttamento di altri uomini, è una forma della concezione di sinistra marxista, più tradizionale, ma crediamo anche nella lotta dei popoli quando sono oppressi da altri popoli o paesi o Stati . E hanno tutto il diritto di lottare per la loro autonomia e autodeterminazione. Nel caso mapuche noi affermiamo che il popolo nazione mapuche era sovrano, indipendente, fino a quando non fu occupato da due nazioni e privato del suo territorio e di tutti i suoi diritti inerenti a quella realtà di autonomia e territorio ancestrale. Oggi pensiamo che non sia strano o folle pensare alla ricostruzione di una nazione con territorio e autonomia.
Cioè come un altro paese?
Certo.
Questo calza molto bene con il copione dei settori più conservatori del Cile che iniziano a parlare di privilegio indigenista.
Non è questo il problema. Ecco perché stiamo accumulando la forza necessaria in tutti gli ambiti affinché esista questa possibilità politica di autonomia. Oggi siamo solo all’inizio, nella fase di sensibilizzazione su questa esigenza, che sta prendendo sempre più forza nei movimenti autonomisti.
Voi andrete a votare per il plebiscito di uscita il 4 settembre?
No, no, noi non partecipiamo all’istituzionalità. La CAM non partecipa al quadro istituzionale, questo è già chiaro alla maggior parte della stampa, della classe politica.
Ma c’è una ridicolizzazione, una caricaturizzazione del perché noi combattiamo e del modo in cui lo facciamo. Tuttavia, noi cerchiamo sempre di chiarire nelle nostre comunicazioni che la proposta di liberazione nazionale, che è la proposta definitiva che ha la CAM, è assolutamente in contraddizione con la proposta di chi partecipa all’istituzionalità al fine di avanzare verso uno Stato plurinazionale o un realtà di plurinazionalità. Per noi è una proposta vuota, senza molto significato, perché in fondo sarebbe come spogliare il popolo mapuche di ogni suo bagaglio ideologico e culturale.
Quella posizione del tutto o niente non mette la CAM con le spalle al muro? Credete di avere la forza necessaria, insieme ad altri gruppi, per portare avanti questo progetto?
È che sono espressioni molto legittime. C’è una parte del popolo mapuche che ha assunto di essere cileno, per così dire, e di essere l’indigeno cileno. C’è anche un settore mapuche che prende in considerazione l’autodeterminazione all’interno di uno Stato che li riconosce come diversi, ma sempre facenti parte di quello Stato, cioè, è il concetto di plurinazionalità. E la nostra posizione è più radicale, cerca la ricostruzione della nazione mapuche, come esisteva in passato.
A mucha gente se le olvida que el pueblo mapuche fue soberano e independiente. El pueblo nación mapuche es originario de acá, del territorio ancestral, hace cientos de años. En estas tierras se forjó una nación mapuche, que tenía su Futalmapu, su Wallmapu, que vendría siendo como el país mapuche. Gran parte de la historia de resistencia de nuestro pueblo es que defendimos esos límites, defendimos esa realidad que nos unía, en los lingüístico, en lo cultural, etc.
Molte persone dimenticano che il popolo mapuche era sovrano e indipendente. Il popolo-nazione Mapuche è originario di qua, del suo territorio ancestrale, da centinaia di anni fa. In queste terre si forgiò una nazione mapuche, che aveva il suo Futalmapu, il suo Wallmapu, che sarebbe diventato il Paese mapuche. Gran parte della storia di resistenza del nostro popolo è che abbiamo difeso quei confini, abbiamo difeso quella realtà che ci univa, linguisticamente, culturalmente, ecc.
Gli spagnoli hanno riconosciuto questi confini per decenni, come il fiume Bío Bío.
Certo, infatti, con gli spagnoli c’è sempre stato un riconoscimento della nazione mapuche attraverso i parlamenti. Ciò inizia a essere minato quando viene costruito lo Stato-nazione, sia cileno che argentino. L’unione di queste due forze per occupare il nostro territorio nazionale e annetterlo a queste nuove nazioni generò, nella parte argentina, la campagna del deserto, e in Cile, la cosiddetta pacificazione dell’Araucanía.
Il fatto storico centrale per noi è che questa offensiva politico-militare è stata determinata dallo Stato. Per questo diciamo che è un problema con lo Stato, perché questo in un certo momento decide di occupare questi territori, e dal 95% al 98% dei territori sono occupati a ferro e fuoco, cioè con la guerra.
Fa parte della storia del 19° secolo in gran parte del nostro continente, dal Canada al Cile.
Certo. Nel caso della nazione mapuche, quell’occupazione de facto è avvenuta negli anni 80 del 19° secolo. È stato allora che abbiamo perso la nostra autonomia. E da quel momento in poi siamo diventati il popolo mapuche oppresso, ridotto in comunità, in un’organizzazione politica, legale e istituzionale che ci nega tutti i diritti fondamentali, con una cilenizzazione forzata. Ecco perché diciamo che il popolo mapuche vive ancora in un’epoca coloniale. Questa è la situazione.
Quanto pensi che sia consapevole la popolazione mapuche di questa regione su questi temi storici e sul recupero territoriale? Glielo chiedo perché, se si guarda alla partecipazione elettorale in Araucanía, è bassa e vince quasi sempre la destra, che ha una visione molto diversa dalla sua.
La CAM segna un punto di svolta in questo processo di presa di coscienza. Con la sua entrata in scena nel 1997 con l’atto simbolico di bruciare camion e un appello ad affrontare direttamente il nemico storico, che è la borghesia, che in qualche modo è quella che occupava i territori, perché i territori non erano necessariamente occupati da logiche di costruzione statale, ma dall’oligarchia e dalla borghesia che finanziarono questa occupazione e si suddivisero tra loro i territori. Se ci sono territori nelle mani della proprietà forestale, è perché i gruppi economici che vi stanno dietro sono discendenti di quegli usurpatori. E anche il sistema del latifondo viene forgiato da quel momento. Pertanto, c’è una casta di potere che viene da allora.
È vero, ci sono persone nel Wallmapu che votano per la destra, perché c’è una forte influenza dovuta al fatto che tutto viene determinato dal potere che è installato da sempre. Tu sai che il razzismo arriva con l’arrivo degli spagnoli e si è riprodotto stabilmente nel discorso ufficiale, nell’educazione, nell’ordinamento politico-giuridico istituzionale, che ci relega sempre ad essere gli oppressi, i subalterni o il popolo occupato.
Siamo un popolo occupato, ecco perché oggi possiamo chiaramente dire che questo è un conflitto politico-militare. E l’analisi che deve essere fatta è all’interno di quel quadro; cioè se da un lato hai organi di resistenza territoriale, dall’altro hai la militarizzazione del Wallmapu. I militari, l’esercito, non vengono qui in difesa dei diritti dei cileni comuni o della cittadinanza e dei loro interessi. No. Qui vengono in difesa degli interessi del capitale, perché sono interessati all’industria forestale. Qui non ci sono soldi che arrivano alle masse in generale o alle politiche sociali, perché loro neanche pagano le imposte o i tributi. Qui c’è una concentrazione di ricchezza che è stata ampiamente studiata, una catena produttiva del mercato dei potenti, non del mercato in generale, ecco perché c’è molta disuguaglianza sociale, molte contraddizioni tra le classi sociali.
La CAM definisce il conflitto come politico-militare, ma a tutti gli effetti sembra essere una gara impari, una guerra che non riusciranno a vincere.
È sempre stata una lotta impari, dal momento dell’occupazione e ora nella resistenza. Credo che il popolo mapuche a un certo punto abbia avuto una forte capacità politico-militare. Infatti un esempio è quello dei tempi del Pelantaro, quando ha resistito sulla linea di frontiera e ha mantenuto il confine con il Cile per 170 anni. Quei territori sono stati difesi militarmente, questa è stata la risposta. Se oggi ci chiedete chi ha stabilito che la causa mapuche sia definita con una componente di violenza politica, è perché lo Stato ha deciso di essere violento con la causa mapuche. Ogni volta che si facevano dei recuperi di terre, la risposta era la persecuzione, la criminalizzazione e la militarizzazione e, quindi, l’uso di questi meccanismi coercitivi e punitivi, come la legge antiterrorismo, la legge sulla sicurezza interna dello Stato o i montaggi ai massimi livelli che attaccavano direttamente la resistenza. Oggi nel governo Boric accade la stessa cosa con l’estensione degli stati di eccezione schierando le forze armate, sia la marina che l’esercito, teoricamente per difendere gli interessi dello Stato, ma in realtà è a difesa degli interessi delle imprese.
L’ideologia della CAM ha forti radici marxiste tradizionali. Ma negli ultimi anni sono emersi anche gruppi mapuche che sembrano essere in una posizione più radicale di voi. Come convivono?
Il movimento autonomista è diventato più diversificato. Ci sono diverse posizioni. Noi nella CAM seguiamo la nostra linea, lasciata in eredità dai nostri antenati, sulla base che la lotta è principalmente per il recupero territoriale e la ricostruzione nazionale,
Pertanto, non possiamo esercitare una violenza indiscriminata. In 25 anni la CAM non ha ucciso nessuno, questo lo dico categoricamente. Quello che facciamo è sabotaggio, nell’ambito del controllo territoriale, resistenza in questioni di ogni genere, come il recupero della lingua mapuche, il ripristino dell’identità della nostra gente, che l’ha perduta a causa di tutto ciò che si dice sul razzismo, intolleranza, ecc.
E ha anche a che fare con il lavoro produttivo. Noi non possiamo aspettare che arrivi lo Stato, abbiamo già atteso a lungo, per recuperare l’acqua o avere una vita più dignitosa rispetto al cibo, all’alimentazione, alla produzione. Qui [indica le piantagioni di pini] tutto era estrattivismo, e ora è diventato seminato; questo si chiama trasformazione del territorio.
Quando un processo di trasformazione va contro il capitale e a favore degli oppressi, noi lo intendiamo come un processo rivoluzionario.
Questa la chiamiamo autonomia rivoluzionaria, un’autonomia di fatto, perché è un territorio in più per noi. Ed è una soluzione molto concreta di terreno. Credo che questo sia uno dei fattori che ha portato all’acutizzarsi del conflitto, perché questo percorso di autonomia di fatto ha avuto molto più successo di tutte le istituzioni in cui sono stati coinvolti i mapuche.
La restituzione dei territori da parte delle istituzioni attraverso la compravendita, che è un meccanismo della Conadi, è un cavillo di marketing che serve a riprodurre il capitale. Assolutamente diverso è il recupero basato sul controllo del territorio, che è una riproduzione trasformatrice, perché noi non facciamo parte dell’istituzione che dice: “Questa è la terra e ora voi dovete usare questi meccanismi per produrre” attraverso l’Indap, la Conadi, e tutte le istituzioni. Qui è autonomia pura e semplice. Qui [indica le colline] gli orientamenti statali non vengono imposti. È così che si fa di fronte allo Stato capitalista e allo Stato coloniale. Cioè, il mapuche non dipende più da queste logiche di dominio, né nella sua struttura né nella sua sovrastruttura, ma da definizioni, da deliberazioni e da concetti propriamente mapuche. Qui la gente sa che piantando in questo modo otterrà il cibo che riprodurrà un mondo mapuche più dignitoso, più giusto e più corrispondente alle esigenze concrete.
Da quello che vedo in questa piantagione e in queste famiglie riunite, sembra anche essere una risposta più ecologica all’uso del suolo.
È che la lotta mapuche non guardiamo da una prospettiva ecologica o ambientalista o di una società migliore secondo le logiche occidentali, ma piuttosto la troviamo molto più mapuche. Ed ecco che arriva il concetto Itrofill Mongen. Cosa significa? Significa che ci sono molte vite qui e tutte hanno il diritto di esistere e fare cose, di riprodursi come tali. In altre parole, il Mapuche non è l’unico che vive qui. Qui vive una biodiversità di vite. E spiegarlo è molto complesso, perché non significa solo la flora, la fauna, o gli alberi o le zone umide, e tutto ciò che è coinvolto, che ha radici, piante, medicine e quant’altro. Ma ha anche a che fare con le energie, ha a che fare con la spiritualità, ha a che fare con gli ngen [spiriti], con i newen [n.d.t.: forze] che sono nella natura. E questo era ben compreso dagli antichi.
Ma non ha risposto alla mia domanda su cosa pensa dei gruppi mapuche che si stanno radicalizzando ancor più della CAM. A quale logica pensa che corrispondano? Sono ragazzi più giovani, più impazienti, fa parte di una radicalizzazione?
Penso che faccia parte della diversità di posizioni che sono, non so se dire naturali o spontanee, perché ci sono stati secoli di sottomissione, di razzismo, di maltrattamento del nostro popolo. Quindi, come si incarna tutto questo nella nostra gente? Ad esempio, vedono il nemico nella scuola, vedono il nemico nella chiesa, protestante o evangelica, perché stanno trasgredendo un’intera cultura e un intero modo di essere e questo è molto violento. Dire a qualcuno che le machi o i lonkos* non dovrebbero essere rispettati, che il mapudungun non è una lingua, tutto questo è molto violento. Quindi, l’azione politica intrapresa da certi gruppi è quella di attaccare scuole, chiese, sedi. La CAM non lo fa, non perché non ci creda, anche noi capiamo che l’ideologia e la sovrastruttura ideologica, in definitiva sono molto violente contro i mapuche. Noi pratichiamo il pragmatismo politico e diciamo: “beh, dobbiamo saper incanalare la violenza politica e lo faremo contro il nostro nemico più potente, che in questo caso sono le imprese forestali, e non attaccheremo altre espressioni perché non ci consentono la necessaria accumulazione di forze”.
Quindi ci distanziamo, facciamo una separazione, una dissociazione categorica dalle altre posizioni che lo fanno. Per noi, l’accumulazione delle forze si basa sul controllo territoriale. Preferiamo fare questo piuttosto che attaccare degli obiettivi o attaccare gli agricoltori, perché non li consideriamo il nostro principale nemico per ora; Pensiamo che il nostro nemico sia sostenuto nel grande capitale, nella riproduzione del capitale, e per questo ci impegniamo a sfrattare quella riproduzione del grande capitale o della borghesia o della concezione statale accentratrice. E stiamo trasformando il terreno, il territorio e le mentalità con questi sforzi principali. Abbiamo differenze, abbiamo scontri con altri gruppi mapuche, ma non li critichiamo apertamente perché la cosa si risolverà. Questa è una discussione ideologica all’interno del movimento mapuche su come portare avanti la lotta. Ecco perché le nostre parole d’ordine nella CAM e i nostri comunicati sono sempre per riaffermare l’unità nel sabotaggio, per riaffermare gli approcci politico-strategici basati su ciò che i nostri antenati ci hanno lasciato in eredità, dove la difesa del territorio e la ricostruzione dei territori sono centrali insieme alla lotta per l’autonomia. Ed è per questo che quando sosteniamo l’autonomia, ci separiamo da queste posizioni a nostro avviso così vacillanti o quelle che cercano il compromesso, rappresentate dai convenzionali**. Ecco perché abbiamo, ad esempio, posizioni molto contrastanti e molto distanti da quelle dei convenzionali.
Avete avuto scontri con l’Apra***?
No, non abbiamo avuto scontri con l’Apra. Loro ci hanno criticato, anzi hanno assunto una posizione molto insultante nei nostri confronti, ma noi non rispondiamo perché, come i mezzi di comunicazione che sono al servizio del potere e che riproducono la voce ufficiale, non ce li filiamo. Non li consideriamo un obiettivo centrale oggi. Per noi la cosa principale è la lotta sul campo e, come vi dicevo, lo sviluppo dell’autonomia dello spazio.
Raggruppamenti come l’APRA non potrebbero evolversi in gruppi paramilitari come quelli che esistevano in Colombia?
Può essere, ma in realtà oggi l’APRA non rappresenta direttamente le imprese forestali. In qualche modo sono funzionali, perché attaccano il movimento mapuche in modo piuttosto insultante e persino volgare. Quello che vediamo è che c’è una sorta di costruzione del paramilitarismo che emana direttamente dalle imprese forestali.
Mi viene in mente Santos Reinao.
Certo, Galvarino Reiman e Santos Reinao sono emblematici in questo, perché sono stati assunti dalle imprese forestali e si sono messi in gioco pensando di poter accumulare forza lì, ma finiscono per essere membri di partito e poi virano a destra e finiscono pure a fare il lavoro sporco non solo nello sfruttamento, ma anche nella forma della penetrazione nel mondo mapuche fino a entrare in contraddizione con la causa. Ed è per questo che diventano yanaconas [ndt: traditori]. Alcuni sono addirittura armati oggi con mezzi e direttive dalle imprese forestali.
Come è successo con l’attacco a Iván Núñez. Al di là del fatto che la TVN avesse l’intenzione di coprire la nostra disponibilità al dialogo, metterci a tacere è sempre stata un’idea che viene dalle imprese forestali. In altre parole, mostrare la vera lotta non è nell’interesse delle imprese forestali. Vorranno sempre dimostrare che nel film siamo noi i cattivi, i mapuche cattivi, i mapuche delinquenti, i criminali. E hanno installato questa idea che il mapuche oggi è un narcoterrorista.
Quindi, quando fanno questa costruzione del mapuche cattivo che agisce nel crimine, cercano l’atomizzazione e il contenimento della causa mapuche, perché non vogliono perdere i loro interessi. Lo fanno con il discorso ufficiale, lo fanno con questa possibilità di offrire proposte di interculturalità che arrivano anche dal mondo imprenditoriale. E ci sono mapuche che diventano appaltatori di quella logica, mettono la bandiera mapuche sui loro camion. E lo fanno anche credendo nelle risposte dei convenzionali, perché i convenzionali, se li guardi oggettivamente, sono legate ai partiti politici: il PPD, il PS e tutti questi partiti che, in fondo, vanno d’accordo con la grande imprenditoria.
* Machi e Lonkos. Machi: donne, per lo più anziane, che detengono e tramandano saperi medici tradizionali. Lonkos: uomini a capo delle singole comunità mapuche.
**Convenzionales: membri della Convenzione Costituzionale.
***APRA: acronimo di “Asociación para la Paz y la Reconciliación en La Araucanía”. È un movimento civile e paramilitare di estrema destra nato nel 2019 in Araucanía.
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