L’esercizio del pensiero è quella forza dei fragili che impone, alla tirannia, di togliere dalla vista della società, o meglio, di coloro che sono (ancora) liberi, i corpi dei dissidenti e rinchiuderli dentro le mura delle carceri perché restino invisibili.
Così, nell’agosto 2021, scriveva Paola Caridi riferendosi alla detenzione di ‘Alaa Abd-el-Fattah nelle prigioni egiziane ((Dalla prefazione a: Alaa Abd el-Fattah, Non siete stati ancora sconfitti. Hopelfulmonster editore, 2021)). Un accanimento nell’occultare il suo corpo che, nelle due ultime settimane di luglio 2022, ha raggiunto il parossismo. Per quindici giorni, non solo ‘Alaa non ha potuto comunicare nemmeno con i familiari, ma non è stata fatta trapelare alcuna notizia sulla sua salute, ingenerando dubbi sulla sua vita. Già, perché dal 2 aprile egli ha iniziato uno sciopero della fame a tempo determinato.
‘Alaa ‘Abd-el-Fattah non è solo uno dei circa sessantamila detenuti in Egitto ai quali vengono negati diritti primordiali; egli è, da anni, il simbolo della repressione dei regimi egiziani contro ogni voce che non si esprima in sintonia con il potere. ‘Alaa è stato in carcere sotto Mubarak, per aver manifestato, nel 2006, per l’indipendenza della magistratura. Arrestato e imprigionato nel 2011, durante il regime transitorio del Consiglio Supremo delle Forze Armate, per aver pubblicato il resoconto di una notte trascorsa in ospedale dopo l’uccisione, da parte dei militari, di ventisei manifestanti. Arrestato e fermato, per “oltraggio alla magistratura” anche durante il Governo di Mohamed Morsi (Fratelli Musulmani). Il 28 novembre 2013, tre mesi dopo il colpo di stato del Generale Al-Sisi, ‘Alaa viene arrestato per aver manifestato contro la riattivazione di una legge del regime coloniale britannico che vietava qualsiasi forma di protesta. I quasi nove anni che ci separano da quella data, a parte alcuni mesi di libertà su cauzione o libertà vigilata, ‘Alaa li ha passati nelle carceri più dure del regime.
Perché tanta spietatezza nei suoi confronti? Per il semplice fatto che ‘Alaa ‘Abd-el-Fattah, blogger, come tanti altri protagonisti della “rivoluzione” del 2011, è diventato l’icona dell’opposizione al regime di Al-Sisi. Perché, da allora, ha accompagnato la sua infaticabile attività di militante dei diritti umani e di leader del movimento, a una copiosa produzione di saggi e articoli, scritti prevalentemente in carcere, che gli sono valsi l’appellativo di “Gramsci egiziano”. Anche per questo, egli ricorda quella figura di “intellettuale organico”, da noi ormai scomparsa perché scomparsa è la lotta di classe, e che ritroviamo invece nelle periferie del mondo “sviluppato”, dove ancora il popolo lotta e soffre, con alterne fortune. Una riflessione continua che parte dagli accadimenti; i fatti diventano oggetto di analisi economica, sociale, politica; e da queste analisi emergono “pezzi” di teoria politica. Una voglia di conoscere, di capire, d’interpretare e di raccontare la realtà partendo dal conflitto, che a qualcuno di noi può ricordare quando, nei primissimi anni ’70, si faceva il cosiddetto “lavoro politico” nelle fabbriche o nelle campagne, e, dopo le animate riunioni con gli operai o con i contadini, si passavano lunghe ore notturne ad analizzare la realtà sociale e i punti di vista dei “soggetti”, passando tutto al vaglio di letture in comune dei classici del marxismo, ma anche dei “Quaderni rossi”.
Gli scritti di ‘Alaa ‘Abd-el-Fattah, dal 2011 in poi, sono stati raccolti in un libro pubblicato in Italia, alla fine del 2021, con il titolo “Non siete stati ancora sconfitti”. È una raccolta di saggi, articoli, memorie, post su Facebook, Tweet, che raccontano i molteplici aspetti della sua esperienza di militante, pensatore, ma anche di persona seviziata dal potere, nel corpo e nell’anima.(( molto interessanti sono le prime due presentazioni del libro, in Italia e in Francia)). Vi troviamo pagine di palpitanti cronache della rivoluzione del 2011, e delle vicende successive in cui emergono tutti gli ingredienti di una storia tragica: il movimento dei giovani, gli islamisti integralisti, l’esercito, la polizia, gli apparati di sicurezza, persino gli ultras del calcio. E poi, le riflessioni sulla sconfitta, una sconfitta che egli considera solo una battaglia perduta. Una sconfitta non solo egiziana: Rivoluzioni che non hanno preso il potere (…) Come quella tunisina, la nostra rivoluzione non ha preso il potere e, come in Tunisia, la controrivoluzione e il vecchio regime hanno preso in ostaggio lo Stato. ‘Alaa scriveva questo nel novembre 2011, a soli dieci mesi dall’insorgere delle “primavere arabe”.
In merito, la sua posizione è chiara, e coglie tutta la preoccupazione per la polarizzazione che ha distrutto le primavere arabe: da un lato l’asfissiante integralismo che conculca le libertà civili anche con uso della violenza di Stato, dall’altro la trappola mortale dei regimi militari.
L’esigenza di sfuggire ad ambedue poli è ironicamente rappresentata in un tweet del 17 giugno 2013: Quando la rivoluzione vincerà, metteremo in atto un piano per dividere l’Egitto. Invieremo i sostenitori della Fratellanza in uno Stato governato dai militari, e i sostenitori dei feloul (cascami del regime), dei militari e della stabilità, in uno Stato governato dalla Fratellanza.
Un “né..né” che nei paesi arabi è colloquialmente così espressa: “Perché dobbiamo sempre scegliere tra il nero degli islamisti e il grigio-verde dell’esercito? Non abbiamo diritto ad altri colori?”. Una posizione maggioritaria ma che non trova rappresentanza politica, perché, anche lì, i partiti politici (non le loro caricature) non esistono più.
A questo proposito, nell’analisi di classe che fa della società egiziana, ‘Alaa, da convinto anticapitalista, si preoccupa che la borghesia non abbia rappresentanza politica. Naturalmente il centro della sua attenzione è la situazione del proprio Paese, ma sempre con uno sguardo largo. Per esempio, cerca nella storia (e nella geografia) parallelismi con l’attualità politica egiziana, come nel racconto del “caso Lysenko”, creato da Stalin per convincere il popolo sovietico (e, soprattutto, ucraino) a sopportare la carestia e, quindi, sottomettersi al regime.
Parte dalla propria esperienza di tecnico informatico che ha creato, negli anni precedenti la rivoluzione, il primo aggregatore di blog in Egitto – nonché da quella di un’intera generazione cresciuta con i social network (senza la quale non vi sarebbe stata Piazza Tahrir), che ha creduto nel ruolo liberatorio e democratico dei social – per sviluppare una riflessione non scontata sul rapporto tra innovazione digitale e produzione di senso, e da lì un’analisi critica del ruolo delle multinazionali. Dedica un intero saggio a Uber, denunciando l’operato del Governo per creare in Egitto le condizioni per un suo sviluppo. Insomma, una riflessione politica a tutto campo, in cui trovano posto questioni disparate ma che nel suo pensiero trovano nessi e organicità, come la Palestina, il cambiamento climatico, il luddismo.
E da tutto questo, una continua riflessione sul “che fare”, sull’occupazione di tutti gli spazi, anche minimi, che il potere dispotico lascia ancora aperti, sull’apertura al dialogo con altre sensibilità con cui creare alleanze, su ciò che è stata la rivoluzione – che egli preferisce chiamare insurrezione popolare – e su come essa debba trasformarsi in una continua lotta contro l’oppressione. Perché ci sia una rivoluzione, però, devi avere una narrazione che metta insieme tutte le diverse forme di resistenza e devi avere speranza. Bisogna che le persone si mobilitino, non per disperazione, ma per la chiara sensazione che un’esistenza diversa da quella vita disperata sia possibile. Il valore universale di questa riflessione potrebbe porre molti interrogativi anche a chi non vive l’esperienza egiziana né di molti altri paesi arabi e africani.
Si capisce, infatti, che gli scritti di ‘Alaa ‘Abd-el-Fattah non parlano solo al suo popolo, ma, più o meno direttamente, anche a noi europei. Per esempio, parlano indirettamente a noi gli scritti sulla Costituzione e sul processo costituente. Non di certo, quando denuncia le nefandezze commesse nella vicenda costituzionale egiziana, ma quando prefigura un percorso di definizione della Costituzione che si discosta da quello seguito dalle democrazie europee nate nel secondo dopoguerra sulle ceneri dei regimi dittatoriali. Cioè delle Costituzioni elaborate da Assemblee Costituenti elette dal popolo (quella della Germania Federale fu eletta dai Lantag, i Parlamenti dei Länder).
Non è a questo modello di processo costituente che egli guarda ma a quello applicato nel Sudafrica di Nelson Mandela, dove la Costituzione è stata il frutto di una vasta e autentica partecipazione popolare, partita innanzi tutto nel suo Partito, l’African National Congress, poi allargata alle altre forze contrarie all’apartheid, e solo nella fase conclusiva adottata dall’Assemblea Costituente e dalla Corte Costituzionale. Infatti, cosa garantisce, in un Paese politicamente destrutturato, che dei rappresentanti del popolo, ancorché democraticamente eletti, garantiscano di produrre una buona Costituzione? E quand’anche ciò avvenisse, cosa può garantirne la tenuta nel tempo.
L’esperienza della Tunisia è tristemente esemplare. Un’Assemblea Costituente bloccata per due anni su fronti contrapposti (laici e islamisti); una Costituzione, frutto di un compromesso appena passabile, sostanzialmente imposto dal provvidenziale ruolo del Quartetto del Dialogo Nazionale, quindi dall’esterno dell’Assemblea eletta; un’indeterminatezza tra i poteri istituzionali che ha permesso all’attuale Presidente della Repubblica di sbloccare la situazione politica tunisina nel modo più autarchico: scioglimento del Parlamento, plebiscito su un nuovo testo di Costituzione (iperpresenzialista), approvato da un quarto degli elettori.
Ma perché una riflessione sulla Costituzione egiziana iniziata da ‘Alaa nel 2011, dovrebbe oggi riguardare noi europei. Perché da diverse parti si avverte la necessità di dare un assetto istituzionale diverso all’Unione Europea e una delle proposte sul terreno è quella di dare un mandato costituente al prossimo Parlamento Europeo. Certamente la destrutturazione dei sistemi politici dell’UE non è quella egiziana o tunisina, ma lo scollamento tra partiti politici e popolo è tanto importante da non garantirci che a decidere sulla Costituzione Europea possano essere eletti nel Parlamento Europeo rappresentanti anche lontanamente paragonabili a quelli dell’Assemblea Costituente italiana del 1946. Un processo alternativo potrebbe essere, quindi, quello preconizzato da ‘Alaa. La sinistra critica, insieme alle Organizzazioni della società civile, potrebbe cominciare un lavoro di discussione a livello popolare per definire i punti principali di una futura Carta costituzionale europea.
Nella critica serrata che, nel novembre 2012, egli fa all’operato dell’Assemblea Costituente egiziana e nelle proposte alternative, c’è un punto che va evidenziato per l’originale acutezza. Dice ‘Alaa: nella Costituzione italiana è evidente la preoccupazione di impedire ogni eventuale possibilità di ritorno al fascismo; analoga preoccupazione c’è nella Costituzione sudafricana per quanto riguarda l’apartheid. Le Costituzioni non possono essere avulse dal contesto storico che le ha generate. Per questo, la Costituzione egiziana avrebbe dovuto opporre un cordone sanitario alle piaghe che si erano manifestate durante la rivoluzione, in primo luogo le torture e l’ingerenza dell’esercito.
Proseguendo nel parallelismo con la nostra vicenda europea, verrebbe da chiedersi: quali sono le due o tre cose che fanno parte dell’esperienza dell’UE, che la futura Costituzione Europea dovrebbe mettere al bando? Forse è proprio da questa domanda che potrebbe partire la discussione nelle riunioni popolari della sinistra. Tra le diverse questioni affrontate da ‘Alaa in tema di Costituzione, si potrebbe, ancora segnalare la scottante attualità del rapporto tra diritti fondamentali ed evoluzione tecnologica.
In maniera più diretta, ‘Alaa si rivolge a noi, quando parla delle nostre responsabilità nei confronti di un futuro comune. Lo fa quando, nel 2017, invia dal carcere un messaggio a RightsCon, il summit mondiale dei diritti umani, al quale aveva già partecipato nel 2011. Un messaggio pieno di amarezza ma non disperato, in cui la speranza (compresa l’utopia) è riposta sui cittadini – in primo luogo i difensori dei diritti umani – dei paesi in cui c’è ancora un substrato democratico. Non a caso il titolo del messaggio è: “Non siete stati ancora sconfitti”, titolo che è stato dato all’intera raccolta degli scritti di ‘Alaa. È difficile leggere/rileggere questo messaggio senza sentirsi addosso il peso gravoso della responsabilità cui veniamo chiamati. Migliorate la vostra democrazia (…) Se i diritti umani fanno un passo indietro in un contesto in cui la democrazia ha radici profonde, ciò sarà sicuramente usato come pretesto da società in cui i diritti sono più fragili e che si sentiranno in diritto di compiere violazioni ancora peggiori (…) Non fate il gioco delle nazioni. Perdiamo molto quando permettete che il vostro operato venga utilizzato come strumento di politica estera, non importa quanto buona sia la vostra attuale coalizione di governo. Rischiamo molto quando la difesa dei diritti umani diventa un’arma in una guerra fredda (proprio come le rivoluzioni arabe sono state perse quando i rivoluzionari si sono trasformati in reclute inconsapevoli e involontarie nelle guerre per procura tra le potenze regionali). Ci rivolgiamo a voi non perché siamo alla ricerca di potenti alleati, ma perché affrontiamo gli stessi problemi globali, condividiamo valori universali e crediamo fermamente nel potere della solidarietà.
Proprio perché si rimane colpiti dalla lucidità di questo messaggio e dalla sua bruciante attualità, non si può non immaginare che se fosse stato scritto oggi, l’appello a noi “democratici” avrebbe probabilmente contenuto un richiamo a non permettere più che i nostri Governi lucrino sul baratto tra diritti umani degli egiziani (e di tanti altri popoli) e vendita delle armi. Un baratto che continua e si intensifica, imperterrito, sotto i nostri occhi distratti.
E poi, ovviamente, nel libro troviamo le annotazioni periodiche sul suo calvario giudiziario e sulla sua condizione di detenuto. Anche qui, ‘Alaa unisce il “personale” al “politico”. C’è uno scavo profondo sulla propria esistenza di persona così a lungo violentata fisicamente e psicologicamente. Una sorta di “diario dell’anima”, da cui egli parte sempre per denunciare politicamente lo stato della carcerazione, e, in particolare, i meccanismi della detenzione cautelare, che a migliaia di giovani (Patrick Zaki è stato uno di questi) viene rinnovata ogni quindici giorni senza arrivare mai al processo. Una condanna anticipata all’isolamento per prevenire qualunque contatto con il mondo esterno. Soprattutto dei detenuti che ancora pensano e, per questo, il loro pensiero non deve trapelare all’esterno del carcere; per questo, l’obiettivo diventa la loro distruzione intellettuale. Ecco perché ‘Alla ‘Abd-el-Fattah è diventato bersaglio privilegiato del potere.
Dopo tutti questi lunghi anni di detenzione, nel dicembre 2021, ‘Alaa è stato condannato a cinque anni di reclusione per “diffusione di notizie false”; in realtà per aver ritwittato un tweet. Dopo giorni di trepidazione per la sua sorte, si è appreso che è ancora vivo. Nel giorno di pubblicazione di questo articolo, egli è al 124° giorno di sciopero della fame ((Sulla vicenda giudiziaria e i suoi ultimi esiti, cfr. Paola Caridi, Egitto il lungo digiuno dei diritti umani. L’Espresso,31 luglio 2022).
L’Italia è il paese europeo in cui vi è stata la maggiore mobilitazione della società civile contro la violazione dei diritti umani in Egitto. Questo perché l’assassinio di Stato di Giulio Regeni e l’incredibile vicenda di Patrick Zaky ci hanno riguardato da vicino. Come si sa, da parte governativa non si è mostrata la determinazione necessaria. Anche per Patrick Zaky – la cui sorte è ancora appesa al filo dell’esito della prossima udienza fissata per il 27 settembre 2022 – il Governo italiano non è stato capace di rendere esecutivo il conferimento della cittadinanza italiana, votato in aprile dal Parlamento italiano, nonostante le riserve della Viceministra degli Esteri, Marina Sereni. Al contrario di quanto fatto dal Governo di Boris Johnson, che ha concesso il passaporto britannico a ‘Alaa ‘Abd-el-Fattah.
Contrariamente a quanto accaduto per Giulio Regeni e Patrick Zaky, l’opinione pubblica italiana ha pressoché ignorato la vicenda di ‘Alaa ‘Abd-el-Fattah. A parte gli appelli di Amnesty International e gli interventi del suo portavoce Riccardo Noury, va dato merito al blog di Paola Caridi di aver quotidianamente acceso il suo riflettore sulle condizioni di ‘Alaa, e sullo sciopero della fame a staffetta promosso in Italia.
Non foss’altro che per una questione di civiltà, l’attenzione in Italia su ‘Alaa ‘Abd-el-Fattah deve crescere. E, per una questione di politica, a partire dalle persone e dalle forze della sinistra critica. Anche perché, a pensarci bene, nelle carceri egiziane non c’è solo ‘Alaa ma ci siamo tutti noi. Per questo la prima cosa da fare è leggere/rileggere il suo libro.
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Oigroig
Mi è venuto in mente leggendo Cremaschi sulle bombe israeliane, ma il principio vale in generale. Esiste un piccolo devastante imperialismo italiano. L’Italia vende armi alla polizia e all’esercito egiziano, fa affari d’oro con le armi, il cemento, l’energia, sfrutta la manodopera locale a basso costo. La migliore solidarietà non sarebbe quella di cominciare col denunciare e contrastare il nostro imperialismo, la violenza che garantisce i nostri piccoli privilegi per cui ci preoccupiamo tanto…? Quando un’intera generazione è in carcere per idee e speranze (60.000 prigionieri politici alla Alaa e Zaki) sottolineare un nome non vuol dire nascondere la foresta che c’è dietro il singolo albero?