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Le Elezioni di metà mandato negli Stati Uniti

Martedì 8 novembre i cittadini statunitensi sono chiamati alle urne per rinnovare integralmente i 435 membri del Congresso, ed un terzo dei senatori.

Ad inizio di novembre più di 30 milioni di persone avevano già votato per via postale o in presenza.

A decidere le sorti di queste elezioni, come a quelle precedenti, sarà una manciata di voti di indecisi che sceglieranno all’ultimo momento in maniera piuttosto singolare, senza che gli strateghi della comunicazione e gli istituti di sondaggi ne riescano a comprendere in anticipo le invenzioni di voto.

Le elezioni statunitensi”, afferma il politologo Lee Drutman, del gruppo di ricerca New America, “sono soprattutto – come è più o meno il caso da dieci anni – una lotta accanita per questo pugno di voti. Quasi tutti gli elettori hanno fatto la loro scelta da anni: hanno scelto un partito”.

Le elezioni mid-term arrivano dopo due anni dalle “contestate” elezioni presidenziali in un clima estremamente polarizzato – quasi da guerra civile strisciante -; allora fu vincitore Joe Biden, mentre il presidente uscente Donald Trump gridava ai “brogli” e incitava i suoi mentre assaltavano, il 6 febbraio, Capitol Hill.

Un atteggiamento – quello di The Orange man – che non è mutato nel tempo, e che è stato recentemente confermato, nonostante le varie autorità competenti in un comunicato congiunto avessero affermato che le elezioni del 3 novembre fossero state “le più sicure della storia Americana”.

L’attuale clima non è certo meno rovente visto l’atteggiamento di delegittimazione reciproca tra democratici e repubblicani, che hanno dismesso da tempo i panni dei competitor elettorali per indossare quelli degli antagonisti, in un clima di violenza non solo verbale che caratterizza la vita politica statunitense, come dimostra l’aggressione in casa al marito della speaker Nancy Pelosi, nella notte tra il 27 ed il 28 ottobre.

In più, va considerato che l’inflazione pesa come un macigno in una tornata elettorale che, storicamente, dagli Anni Trenta – tranne che in due soli casi – penalizza la formazione del presidente in carica; e che alle urne, per questa tipo di competizione elettorale, gli statunitensi tendono a “votare con il portafoglio”.

Se stiamo ai sondaggi, poi, il tasso di disapprovazione nei confronti del presidente democratico è largamente superiore al 50% degli intervistati.

É perciò molto probabile che i democratici perdano sia il Congresso, doveva avevano una maggioranza risicata, che il Senato, dove la maggioranza relativa era assicurata solo dal voto della vicepresidente, Kamala Harris.

Il Senato è diviso equamente tra 25 esponenti democratici e 25 repubblicani – ogni Stato esprime un senatore – ed occorre una maggioranza qualificata per far passare una buona parte delle leggi che vengono prodotte dal Congresso.

Se i dem perdessero Camera e Senato verrebbe minata la loro già “azzoppata” capacità legislativa, e sarebbe spianata la strada alla – quasi annunciata – ricandidatura di Trump per le prossime elezioni presidenziali.

É più che una ipotesi, vista l’intatta egemonia esercitata all’interno del Partito Repubblicano, ed il fatto che una buona parte dei candidati repubblicani sono stati diventati tali grazie all’ex presidente.

Oltre a questo, bisogna ricordare che il partito repubblicano – tra l’altro nella sua versione più oltranzista – ha la maggioranza dei membri della Corte Suprema, terzo pilastro dell’architettura politica nord-americana, le cui cariche sono “a vita”.

Il peso di questa istituzione è tutt’altro che trascurabile, come ha dimostrato la sentenza che a giugno ha invalidato il diritto d’interruzione di gravidanza a livello costituzionale, ribaltando la sentenza conosciuta come “Poe versus Wade” del 1973, che ha aperto la strada ad una nuova criminalizzazione dell’aborto in circa metà degli Stati.

Ma in queste elezioni di “metà mandato” non si rinnova solo il Congresso e 1/3 del Senato, ma si decidono una serie di cariche dei singoli stati: governatori, segretari di Stato, assemblee legislative.

Procediamo con ordine e diamo un quadro complessivo, e dettagliato.

Per cosa si vota?

Come scrivevamo sopra, sono totalmente rinnovati i 435 membri della Camera – attualmente 220 democratici, 212 repubblicani, 3 vacanti – mentre al Senato si tratta di 35 senatori su 100 seggi, 14 appartenenti per ora ai democratici e 21 ai repubblicani.

Questo vuol dire che se i democratici perdessero anche solo un Senatore, ed i repubblicani confermassero tutti i propri, non avrebbero più la maggioranza.

L’Arizona è uno Stato chiave, stato conquistato due anni fa da Biden con uno scarto inferiore agli 11 mila voti. Nei sondaggi il democratico Mike Kelly è davanti al repubblicano Blake Masters, che ha ricevuto l’endorsementi di Trump alle primarie, per poi moderare le sue posizioni.

Il voto latino, qui, come in altri stati sarà decisivo.

I latinos sono circa 1/5 degli elettori dello Stato, e nel 2020 avevano votato al 61% per Biden e solo al 37% per Trump.

Altro stato chiave è la Georgia, dove Biden aveva vinto, come in precedenza Bill Cinton nel 1992.

La tradizionalmente democratica Pennsylvania aveva cambiato per Trump nel 2016, per poi tornare ad essere un “Blue State” nel 2020.

La sfida è tra il chirurgo e star televisiva di origine turca, Mehmet Oz, ed il democratico ed ex star del football americano John Fetterman.

Il Nevada è un altro swing State in cui il voto latino ha un peso importante, che potrebbe diventare “rosso” (il colore improbabile dei repubblicani).

Il repubblicano Adam Laxalt sfida l’attuale senatrice Catherine Cortez Masto.

Gli abitanti di 27 Stati eleggeranno inoltre il rispettivo Segretario di Stato (attualmente 13 sono democratici e 14  repubblicani).

La carica di Segretario di Stato – da non confondersi con quella omonima a livello federale – ha prerogative diverse a seconda dei differenti Stati, ma ha assunto un sempre maggior peso considerato il suo potere per ciò che concerne le sue funzioni rispetto al monitoraggio del processo elettorale.

La maggior parte degli Stati eleggeranno in effetti sia il loro governatore che il loro segretario di stato, il cui operato sarà fondamentale in vista delle prossime elezioni presidenziali.

Si designeranno anche 6.279 rappresentanti dei poteri esecutivi e legislativi locali. Tra cui 36 dei 50 Stati che eleggono i nuovi governatori: California, Stato di New York, Florida e Texas sono i più importanti.

Completano il quadro i 133 referendum locali, che spaziano dall’educazione alle imposte, dalle infrastrutture all’interruzione di gravidanza, dalla salute all’uso della marijuana a fini ricreativi.

Per dare una idea di queste elezioni monstre, basti pensare che nella città di San Francisco, gli elettori dovranno barrare 55 caselle, 34 concernenti i candidati e 21 riguardo ai referendum.

Chi vota e come?

Schematicamente, per votare bisogna essere cittadino statunitense, avere almeno 18 anni ed essere iscritto alle liste elettorali.

Ma il quadro è estremamente frammentato perché il processo elettorale è estremamente decentralizzato e la legislazione assai poco omogenea.

Gli scrutini sono gestiti dagli Stati, che ne delegano le modalità alle Contee (3.142) ed ai comuni.

In ogni Stato sono il governatore, il Procuratore Generale ed il Segretario di Stato ad essere incaricati a monitorare che le elezioni siano “libere, eque e sicure”.

Le date utili per l’iscrizione alle liste elettorali variano alquanto: in Nord Dakota non ce ne sono, mentre una ventina di altri Stati l’elettore viene autorizzato ad iscriversi fino all’ultimo giorno.

California, Nevada, Virginia – per esempio permettono – la same-day voter registration.

Sono esclusi dalle elezioni federali e da buona parte di quelle locali dal voto i non-cittadini, compresi i residenti permanenti, come le persone che hanno commesso reati e scontano la propria pena in prigione. oppure soffrano di patologie psichiche.

In 46 Stati è permesso il voto anticipato, un dispositivo in vigore dalla Guerra di Secessione, a cominciare dalle elezioni presidenziali del 1864, in cui 150 mila soldati dell’Unione – su un milione – riuscirono a votare dalle trincee.

Appare così paradossale che, un secolo e mezzo dopo, questa pratica crei polemiche strumentali da parte dell’ala trumpiana del Grand Old Party.

Già nel 2016 Trump si diceva “scettico” dal vote by mail, ed ha sempre invitato i suoi a recarsi di persona alle urne.

Nel caso in cui i risultati non premino la sua formazione come vorrebbe non sono da escludersi manifestazioni anche violente, sul tipo del 6 febbraio 2020.

Nel Dakota del Sud, in Virginia e nel Wyoming gli elettori si sono già potuti pronunciare dalla fine di settembre, mentre nella maggioranza degli Stati questa opportunità è praticabile dalla fine di Ottobre.

In alcuni Stati le date del voto anticipato variano da Contea a Contea, come in Alaska ed in Pennsylvania, mentre in Alabama o in Connecticut gli elettori non possono recarsi fisicamente in un seggio.

Nel 2020 Il voto anticipato e a distanza aveva raggiunto il record, per evitare gli affollamenti fuori dagli uffici di voto a causa del Covid-19.

Alle presidenziali i 50 milioni di voti per posta  rappresentarono più di un terzo delle schede complessive rispetto alla tornata elettorale precedente del 2016: 35 per corrispondenza, e 15 in presenza.

Una tendenza che si conferma anche oggi: 21 milioni di voti postali, secondo il US Election Project, che fanno presagire una partecipazione elevata.

E proprio dalle Midterm del 2018 che incominciano ad essere registrati tassi di partecipazione inediti, sintomo di una politicizzazione crescente della sfida elettorale.

Alle elezioni di “metà mandato” sotto la presidenza Trump avevano votato più di 117 milioni di statunitensi, cioè circa il 50%, contro il 36,7% del 2014, il più tasso più elevato dal 1978.

Questa tendenza si è confermata, ed anzi si è ampliata nelle elezioni presidenziali del 2020: più di 158,4 milioni di elettori si sono recati alle urne, secondo una ricerca del Pew Research Center, ccon un tasso di partecipazione del 62,8%.

Una percentuale di votanti, quindi, che comincia ad essere simile a quelli registrati in Europa (dove sono invece in calo):  poco sopra i livelli di Italia e Spagna, leggermente sotto Portogallo, Austria o Grecia.

Una recente indagine ha rilevato che tra gli iscritti alle liste elettorali un 72% è “estremamente” o “molto” motivato a votare quest’anno, ed un buon 65% afferma che “conta davvero” chi avrà il controllo del Congresso.

Uno dei fattori chiave è come il mutamento delle leggi di ogni singolo stato impatterà il tasso di voto. In alcuni Stati dal 2020 le modalità di voto “anticipato” sono state ristrette, in altre sono state estese. La forbice è destinata ad allargarsi.

Il rebus elettorale è complicato ulteriormente, visti i differenti orari di apertura dei seggi, a seconda degli Stati, e i diversi fusi orari, le differenti modalità dello spoglio. In alcuni Stati è permesso di iniziare anche giorni prima dell’apertura dei seggi per le verifiche burocratiche del caso (verifica dei registri elettorali, delle copie delle carte d’identità, le firme); in altri è obbligatorio il conteggio il giorno stesso dello scrutinio.

É chiaro che in queste circostante, come ha spiegaato l’Associated Press – un benchmark per quanto concerne i risultati elettorali riportati dai media, insieme a Edison Research che fornisce dati ai canali ABC, CBS, CNN e NBC -, i risultati “in tempo reale” dei fluttuanti bollettini elettorali dopo la chiusura dei seggi hanno un grosso margine di errore e saranno a lungo ufficiosi nell’interminabile “notte elettorale”.

In una campagna elettorale in cui i temi “repubblicani” sull’economia e la sicurezza (in termine di law and order) hanno dominato il dibattito, ed i cui i democratici hanno visto i loro “cavalli di battaglia” sui diritti civili – in primis l’interruzione di gravidanza – scendere nella lista delle priorità percepite dagli elettori, la batosta per Joe Biden potrebbe essere piuttosto grossa, e la sconfitta tramutarsi in vera e propria disfatta.

Da tempo andiamo sostenendo che il processo di decomposizione del sistema politico statunitense è in fase avanzata e difficilmente reversibile.

La “ruota di scorta” Biden – tardiva ed improvvisata exit strategy dell’establishment “democratico”, due anni fa, per sbarrare la strada al “socialista” Bernie Sanders – ha marciato per molto poco e piuttosto male.

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