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Frontiere umanitarie e “società civili” nel Sahel

Le frontiere, in questo mondo finto-globalizzato, giocano vari ruoli e cambiano di aspetto a seconda delle circostanze e degli interessi del momento. Sono simboli e confini determinati della sovranità nazionale così come concepita e interpretata da qualche decennio a questa parte. Respingono, filtrano, facilitano, selezionano, giudicano, oppongono, interpretano e, non raramente, si armano e uccidono.

Nel Sahel, come ricordano opportunamente alcuni ricercatori, le nostre frontiere sono ‘umanitarie’. Infatti è per il bene vitale dei migranti, rifugiati, mendicanti o semplici avventurieri, che le frontiere si chiudono e il diritto alla mobilità è puramente e semplicemente confiscato.

L’Europa, ad esempio, ha elargito milioni di euro al governo del Niger con lo scopo, neppure troppo nascosto, di fermare o ridurre il movimento migratorio verso il Nord Africa e dintorni. Si rendono praticamente impossibili i visti di ingresso nello spazio Schengen, vengono ‘criminalizzati’ i viaggiatori, sono sotto controllo militare le vie d’accesso più comuni e, infine, si costruisce la retorica umanitaria di salvare le vittime dei lager in Libia, creati e finanziati dall’Europa stessa.

Per condurre e, se possibile, portare a termine questa operazione altamente ‘umanitaria’, cioè salvare dalla perdizione chi cerca legittimamente un futuro differente, i poteri costituiti, da una parte e dall’altra del Mediterraneo, si affidano alle ‘società civili’.

Queste ultime, cresciute a dismisura in questi ultimi decenni, sono per così dire il ‘braccio armato’ di ogni sorta di politiche volte a modellare la società secondo i dettami del potere. Sia esso il famigerato cambiamento climatico, la gestione delle migrazioni, l’uso delle risorse minerarie, la partecipazione politica dei cittadini e, ciliegina sulla torta, i ‘diritti umani’, le società civili sono come la cinghia di trasmissioni dei politici.

Le associazioni, le ONG nazionali, regionali,. Internazionali e globali sono là per arrivare dove partiti e istituzioni ‘normali’, compresi i parlamenti, non possono o vogliono arrivare. Possiedono una relativa libertà di manovra, non rendono conto a nessuno del loro operato e maneggiano cospicui capitali umani e finanziari.

Formano come un esercito di contrattuali o ditte di appalto a cui demandare politiche, valori e strategie di intervento ‘democraticamente partecipativo’.

Le società civili, specie se radicate nel tessuto locale malgrado i finanziamenti esteriori, si presentano con un viso autoctono e dunque come una garanzia di fedeltà a pratiche certificate.

Tutto ciò i politici lo sanno e per questo, con sagacia operativa, infiltrano le società civili con stile mafioso e creano realtà parallele alle esistenti impegnate nel cambiamento. Con le società civili ci troviamo dunque di fronte allo stesso mondo alieno che di civile ha molto poco.

Le associazioni o ONG che intraprendono cammini alternativi di pensiero e di pratica vengono tenute d’occhio dal sistema e i leader delle stesse non raramente conoscono il colore e il sapore delle prigioni di stato. Spesso, a parte i militanti più seri, il transito in questi luoghi di ‘redenzione e rieducazione’, chi ne esce vivo sarà tenuto a comportarsi come conviene al sistema.

Dividere per imperare è una pratica che ha dato i suoi frutti e, anche per questo, le società civili sono da tempo un bottino privilegiato per i cacciatori di potere. Distinguere i venduti e i collaborazionisti col sistema dai veri trasformatori non è troppo difficile.

Dimmi chi escludi e ti dirò chi sei’, ricordava il buon don Andrea Gallo di Genova. Parafrasandolo potremmo dire, ‘dimmi chi ti finanzia e ti dirò chi sei’.

 Niamey, 6 novembre 2022

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