Ad inizio del settembre dello scorso anno, dopo poche settimane dalla conquista talebana di Kabul – avvenuta il 15 agosto – e la rovinosa fuga occidentale dal Paese, pubblicavamo un anticipazione del volume “The Afghanistan Papers” scritta da Nick Turse sul giornale d’inchiesta The Intercept.
Il libro conteneva la serie di articoli che Craig Whitelock, giornalista del Washington Post, aveva iniziato a pubblicare sul quotidiano statunitense dal 9 dicembre 2019, facendo crollare i castelli di menzogne sull’allora quasi ventennale avventura bellica occidentale nel paese asiatico.
Come scrivemmo allora: «Ciò che emergeva dal dossier non era solo la differenza tra narrazione ufficiale e realtà fattuale. Uno degli elementi più stupefacenti è il fatto che nessuno capiva il motivo del prolungarsi della guerra e nemmeno della strategia adottata e persino – per quanto sembri assurdo – chi fosse il nemico».
Sebbene il contesto ucraino sia differente, bisognerebbe porsi qualche domanda alla luce di ciò che è emerso e sta a fatica emergendo sull’Afghanistan.
L’Occidente ha voluto rimuovere troppo in fretta la sua sconfitta e la fuga scomposta dal paese, così come la guerra sporca condotta contro la popolazione afghana in più di un ventennio di disastrosa occupazione militare.
Con l’escalation del febbraio scorso in Ucraina è stata messa poi una specie di “pietra tombale” sui misfatti occidentali nel paese, così come sulla lunga serie di crimini commessi, in particolare dagli anglo-americani, nel corso della loro Storia recente.
In generale, della sconfitta strategica dell’Occidente e delle menzogne sostenute per supportare tale impresa bellica, non si è voluto più parlare nonostante – mutatis mutandis – lo scenario ucraino si stia rivelando non meno insidioso.
Nel mentre non si vuole rivangare il passato, l’Unione Europea caldeggia l’idea della creazione di un “tribunale speciale” per giudicare dell’aggressione della Federazione Russa all’Ucraina, di fatto assecondando ulteriormente le proposte formulate dall’Ucraina e finora sostenute praticamente solo da Stati Baltici e Polonia.
Proprio per questo ci sembra utile “rimettere il dito nella piaga” e proporre la traduzione di questa recente inchiesta di The Intercept, che fa in parte luce su uno dei particolari rimossi della guerra sporca statunitense: le truppe d’élite afghane che agivano di fatto sotto il diretto controllo della CIA, la cui attività “contro-insurrezionale” si risolveva spesso nell’uso di veri e propri squadroni della morte per terrorizzare la popolazione locale.
Per una sorta di nemesi storica, i componenti di queste truppe arrivati negli USA, spesso sono poi diventati parte di quell’esercito di working poor che vive negli Stati Uniti.
Come afferma l’ex corrispondente del New York Times per l’Afghanistan, Fahim Abed, autore dell’inchiesta sugli ex componenti di queste truppe: «Le mie conversazioni con Hayanuddin e altri membri della milizia hanno fornito nuovi dettagli sulla struttura di comando, sulle operazioni e sugli ultimi giorni di vita di unità oscure che, pur essendo nominalmente supervisionate dai servizi segreti afghani, erano in realtà costruite, addestrate e in molti casi completamente controllate dalla CIA.
I loro combattenti detengono indizi su molti misteri della guerra, tra cui il modo in cui l’intelligence statunitense ha progettato e supervisionato anni di incursioni notturne mortali che hanno contribuito alla vittoria finale dei Talebani e il modo in cui un accordo segreto tra nemici di lunga data potrebbe aver accelerato il crollo fulmineo delle forze di sicurezza afghane lo scorso agosto.
Celebrati come “eroi” dai loro responsabili americani e da alcuni afghani che si oppongono ai Talebani, i miliziani come Hayanuddin erano temuti e detestati da molti afghani delle zone rurali, che hanno subito il peso delle loro strazianti incursioni. Mentre centinaia di membri dell’Unità Zero e i loro parenti più stretti sono riusciti a raggiungere gli Stati Uniti, hanno lasciato dietro di sé famiglie allargate che hanno subito abusi, incarcerazioni e minacce di morte da parte del nuovo governo.»
Attraverso la traiettoria di queste milizie si può leggere il fallimento dell’impresa bellica statunitense nel Paese, ed il disperato tentativo delle autorità collaborazioniste di cercare di impedire la riconquista talebana del Paese utilizzandole come carne di cannone senza più la copertura statunitense.
Questo modus operandi non sembra essere molto differente da quello usato nel contesto ucraino, ma gli osservatori occidentali dell’informazione non sembrano farci caso, nonostante le evidenti similitudini.
Pensiamo che sia solo questione di tempo perché si ripeta lo stesso scenario, che sarà anch’esso ferocemente negato dagli apparati ideologici occidentali, fin quando l’evidenza empirica non stravolgerà la “narrazione dominante”; ed è anche per questo che legarsi mani e piedi alla follia bellicista delle élite occidentali appare l’ennesimo errore.
Buona lettura!
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GROUND ZERO
L’evacuazione dei collaboratori afghani della CIA ha aperto una delle scatole più nere della guerra
Fahim Abed – The Intercept
Un sabato mattina di maggio, Hayanuddin Afghan, ex membro di una milizia sostenuta dalla CIA, che un tempo era la più brutale ed efficace forza anti-talebana del suo paese, mi ha accolto nella sua nuova casa in un quartiere collinare di Pittsburgh.
Mi ha invitato a entrare dalla cucina, dove sua moglie, incinta del loro quarto figlio, stava preparando il tradizionale pane afghano con la farina di Aldi. Il viaggio in centro per fare la spesa era una delle sfide più grandi della nuova vita di Hayanuddin a Pittsburgh. Si trattava di trasportare pesanti borse a casa a piedi e su diversi autobus urbani, di cui non conosceva gli orari perché non parlava inglese e non aveva scaricato l’apposita app.
“È difficile scendere da una posizione molto forte a una posizione molto debole“, mi ha detto Hayanuddin. In Afghanistan, “avevamo un valore. Era il nostro Paese e stavamo dando un senso a quel Paese. Ma ora, anche i nostri generali e comandanti sono tutti nella stessa situazione“.
In Afghanistan era impossibile parlare a lungo con i membri delle forze segrete dei commando, note come Unità Zero. Davano la caccia ai talebani con raid notturni ed erano accusati di aver ucciso civili, compresi i bambini.
Ma lo scorso settembre, Hayanuddin e i suoi compagni dell’Unità Zero sono stati i beneficiari dell’aspetto più riuscito del caotico ritiro dell’amministrazione Biden dall’Afghanistan: il salvataggio delle milizie alleate da parte della CIA. Il loro arrivo negli Stati Uniti nell’ultimo anno ha aperto una delle scatole più nere della guerra.
Le mie conversazioni con Hayanuddin e altri membri della milizia hanno fornito nuovi dettagli sulla struttura di comando, sulle operazioni e sugli ultimi giorni di vita di ‘unità oscure’ che, pur essendo nominalmente supervisionate dai servizi segreti afghani, erano in realtà costruite, addestrate e in molti casi completamente controllate dalla CIA.
I loro combattenti contengono indizi su molti misteri della guerra, tra cui il modo in cui l’intelligence statunitense ha progettato e supervisionato anni di incursioni notturne mortali che hanno contribuito alla vittoria finale dei Talebani e il modo in cui un accordo segreto tra nemici di lunga data potrebbe aver accelerato il crollo fulmineo delle forze di sicurezza afghane lo scorso agosto.
Celebrati come eroi dai loro responsabili americani e da alcuni afghani che si oppongono ai Talebani, i miliziani come Hayanuddin erano temuti e detestati da molti afghani delle zone rurali, che hanno subito il peso delle loro strazianti incursioni. Mentre centinaia di membri dell’Unità Zero e i loro parenti più stretti sono riusciti a raggiungere gli Stati Uniti, hanno lasciato dietro di sé famiglie allargate che hanno subito abusi, incarcerazioni e minacce di morte da parte del nuovo governo.
La CIA non ha risposto a domande dettagliate sul suo ruolo nella supervisione, nell’evacuazione e nel reinsediamento dei membri dell’Unità Zero e se l’agenzia farà di più per aiutare i miliziani e le loro famiglie rimaste in Afghanistan.
“Gli Stati Uniti si sono impegnati con le persone che hanno lavorato per noi a creare un percorso concreto verso la cittadinanza statunitense per coloro che hanno dato tanto per assisterci nel corso degli anni”, mi ha detto un portavoce dell’agenzia in un’e-mail.
“Ci vorrà del tempo, ma non dimentichiamo mai i nostri partner e ci impegniamo ad aiutare coloro che ci hanno assistito. Continuiamo a lavorare a stretto contatto con il Dipartimento di Stato e con altre agenzie governative statunitensi in questo sforzo“.
“Per quanto riguarda le accuse di violazione dei diritti umani“, continua l’e-mail, “gli Stati Uniti prendono molto sul serio queste affermazioni e adottano misure straordinarie, al di là dei requisiti legali minimi, per ridurre le vittime civili nei conflitti armati e rafforzare la responsabilità per le azioni dei partner. Esiste una falsa narrativa su queste forze che si è protratta negli anni a causa di una sistematica campagna di propaganda da parte dei Talebani“.
Hayanuddin ha raccontato che lui e i suoi compagni si sono preoccupati di evitare di ferire i passanti durante le loro incursioni, usando persino gli altoparlanti per avvertire le donne di rimanere in casa o di ripararsi negli scantinati prima dell’inizio dei combattimenti.
“Per me era come una guerra santa“, ha detto. “Ero lì per colpire i cattivi“. Ma ha anche descritto i persistenti sentimenti di rabbia, colpa e rimorso e ha collegato la sua lotta a Pittsburgh al suo passato. A un certo punto si è chiesto ad alta voce se fosse stato punito.
“A volte non riesco a controllare la mia rabbia e la mia ansia“, mi ha detto. “Il mio cuore è così triste, come se qualcuno lo stesse stringendo con forza. Non so perché. Forse per quello che è successo a casa o per quello che sta succedendo qui“.
La fortuna cambia
Ho conosciuto Hayanuddin la scorsa primavera, in occasione di una festa di capodanno afghano in un parco di Pittsburgh, dove entrambi ci eravamo recentemente stabiliti come rifugiati. Ho lavorato per il New York Times a Kabul per cinque anni e ho fatto molti viaggi in prima linea per raccontare le forze di sicurezza afghane, anche nei giorni prima che i talebani conquistassero la capitale afghana lo scorso agosto.
Sono stato evacuato con altri dipendenti del Times a Houston, dove ho vissuto in un hotel per diversi mesi prima di ottenere un lavoro come giornalista visivo presso il Pittsburgh Tribune-Review e trasferirmi a nord.
All’inizio Hayanuddin non voleva parlarmi. Ma dopo diversi tentativi, si sentì più a suo agio, in parte perché pensava di parlare di un episodio della guerra ormai chiuso e in parte perché eravamo entrambi esuli dallo stesso luogo, che cercavano di iniziare una nuova vita a Pittsburgh pur desiderando la propria casa.
Hayanuddin aveva prestato servizio per sei anni con un’unità nota come 03, che combatteva i talebani nei deserti meridionali dell’Afghanistan dalla sua base in un complesso precedentemente occupato dall’ex leader talebano con un occhio solo, il Mullah Mohammed Omar.
Gli operatori speciali statunitensi avevano requisito la proprietà al loro arrivo a Kandahar nel 2001 e l’avevano trasformata in una ridotta per le forze di intelligence americane e afghane. Con centinaia di altri combattenti dell’Unità Zero, Hayanuddin attraversò le linee del fronte negli ultimi giorni di guerra per raggiungere la Base Eagle di Kabul, controllata dalla CIA.
Da lì, è stato trasportato in aereo all’aeroporto internazionale Hamid Karzai, dove ha lavorato brevemente alla sicurezza prima di ricevere 8.000 dollari in contanti – metà dello stipendio di un anno – e volare con la moglie e i tre figli piccoli a Fort Dix.
A 37 anni, con un’istruzione di seconda media, Hayanuddin, insieme ai suoi compagni, sta affrontando un rovescio di fortuna umiliante, esasperante e assolutamente inaccettabile.
Dopo quasi due decenni trascorsi come proxy americano – dalla guardia alle basi statunitensi all’uccisione di afghani in collaborazione con l’agenzia di intelligence più potente del mondo – è approdato, come rifugiato povero e vulnerabile, in un appartamento con tre camere da letto e tende a fiori che ha dovuto far installare dall’agenzia di reinsediamento in conformità con la cultura pashtun, che prevede che una donna debba essere protetta dagli occhi degli estranei di passaggio.
Le Unità Zero, note anche come Counterterrorism Pursuit Teams, sono nate subito dopo l’arrivo dei primi agenti militari e di intelligence statunitensi in Afghanistan, in seguito agli attacchi dell’11 settembre. Formate nel 2002, hanno operato interamente sotto il controllo degli Stati Uniti fino al 2012, come mi ha raccontato ad agosto da Londra il Gen. Yasin Zia, ex capo di stato maggiore dell’esercito afghano, dove guida una forza di resistenza anti-talebana.
“Il governo afghano non ha avuto alcuna interferenza in queste unità“, ha detto Zia, che ha ricoperto per molti anni ruoli di alto livello nel governo afghano sostenuto dagli Stati Uniti, tra cui quello di vicedirettore del servizio di intelligence afghano, il Direttorato Nazionale della Sicurezza, che negli ultimi anni ha avuto nominalmente la supervisione delle unità.
La prima di quelle che sarebbero diventate le Unità Zero operava nell’Afghanistan orientale, in un’area montuosa lungo il confine con il Pakistan dove i Talebani e altri militanti spesso si rifugiavano tra un attacco e l’altro alle forze governative statunitensi, della NATO e afghane. Questa milizia, nota come Khost Protection Force o KPF, copriva la regione sud-orientale del paese.
In seguito, la CIA creò e addestrò almeno altre tre unità: la 01, che operava nelle province di Kabul, Logar e Wardak nell’Afghanistan centrale; la 02, con sede a Jalalabad, che combatteva nella parte orientale; e l’unità di Hayanuddin, la 03, con sede a Kandahar e che combatteva nel sud del Paese.
Nel 2010, su pressione dell’allora presidente afghano Hamid Karzai, i funzionari statunitensi accettarono di trasferire la supervisione delle Unità Zero all’NDS “fisicamente, ma non tecnicamente“, ha detto Zia. “Avevamo i nomi e i gradi dei membri delle Unità Zero“, mi ha detto. “Ma il loro stipendio era pagato dagli americani, i loro obiettivi erano forniti dagli americani e fino alla fine gli americani erano con queste unità“.
Con la transizione dell’amministrazione Obama dalle operazioni di combattimento a una missione di consulenza e antiterrorismo in Afghanistan, dopo il 2011, gli Stati Uniti hanno ceduto il controllo di alcune Unità Zero al governo di Karzai, ha dichiarato Zia. Ma la CIA ha mantenuto il controllo di altre unità chiave, tra cui la 01 con sede a Kabul, la KPF e la 03 di Hayanuddin.
Le unità avevano come obiettivo i Talebani, la Rete Haqqani e Al Qaeda, ma non dovevano rendere conto al governo afghano, nemmeno al presidente. Nel 2019, l’allora consigliere per la sicurezza nazionale dell’Afghanistan, Hamdullah Mohib, rispose alle accuse di uccisioni extragiudiziali da parte della 01 – compresi i massacri di bambini nelle madrasse – osservando che l’unità operava “in collaborazione con la CIA“.
Hayanuddin ha assistito in prima fila al disastroso ritiro americano dall’Afghanistan e ora può descrivere ciò che ha visto e sentito negli ultimi mesi di guerra.
Le Unità Zero erano state costruite per lavorare in tandem con il supporto aereo degli Stati Uniti, ma nell’agosto del 2020, un anno prima del crollo del governo del presidente afghano Ashraf Ghani, le forze statunitensi hanno iniziato a ridurre radicalmente il supporto aereo per la sua unità, racconta Hayanuddin.
“I nostri consiglieri americani lasciarono le nostre basi per Kabul e gli elicotteri che aspettavano nella nostra base ai margini di Kandahar City partirono con loro“, ha ricordato. “I nostri comandanti riferivano agli americani solo delle nostre operazioni e gli americani dicevano solo: ‘Andate avanti’. Non lavoravamo più a stretto contatto come prima“.
Quando gli americani hanno tolto loro gli aerei, le missioni degli afghani sono diventate molto più insidiose. “Gli aerei di sorveglianza americani ci dicevano quante persone c’erano all’interno di un edificio, quante erano armate e quali armi avevano“, ha detto Hayanuddin. “Ma questi dettagli all’improvviso non c’erano più“.
Senza il supporto aereo degli Stati Uniti e con la neonata aeronautica afghana incapace di fornire informazioni comparabili, altri membri dell’Unità Zero sono rimasti feriti. Anche gli aerei che un tempo li trasportavano in pochi minuti negli ospedali da campo non c’erano più.
Nel febbraio 2020, quando i droni e gli altri velivoli statunitensi sorvolavano le loro operazioni, uno dei compagni di Hayanuddin, Akmal, fu fatto saltare in aria da una bomba sul ciglio della strada. Gli americani lo hanno trasportato in aereo in un ospedale militare e lui è sopravvissuto, dice Hayanuddin, anche se ha perso entrambe le gambe.
Otto mesi dopo, un altro membro dell’unità, Shahidullah, fu colpito due volte all’addome. Questa volta non c’era un ponte aereo e l’unità di Hayanuddin rimase bloccata in territorio nemico. Shahidullah morì sul posto.
Dopo l’insediamento del presidente Joe Biden nel gennaio 2021, la CIA ha dato all’NDS un anno di budget per le Unità Zero e ha detto che l’agenzia non le avrebbe più supportate, ha dichiarato Zia a The Intercept da Londra. Ma le ultime Unità Zero sono state trasferite al controllo afghano solo dopo che Biden ha annunciato il ritiro completo degli Stati Uniti nell’aprile 2021 e le ultime forze americane e gli operatori dell’intelligence hanno iniziato a partire.
“Come suicidarsi”
Le Unità Zero sono state progettate per catturare e uccidere in raid mirati, non per combattere sui campi di battaglia. Erano ampiamente conosciute come le unità d’élite più efficaci delle forze di sicurezza afghane e la scorsa estate, quando l’esercito americano si è ritirato e i talebani sono avanzati, molti nel governo Ghani e nelle forze armate afghane hanno guardato a loro come a una salvezza.
“Non sono sicuro che i nostri comandanti abbiano ricevuto tangenti dai funzionari provinciali o dal governo di Kabul“, ha detto Hayanuddin. “Ma hanno iniziato a chiudere un occhio sui nostri standard e a mandarci in diverse missioni al giorno facendoci subire pesanti perdite“.
Ad un certo punto sette o otto membri dell’unità venivano uccisi ogni mese, ha detto, una percentuale senza precedenti per l’unità d’élite. “Una volta, ricordo che tutti i membri della nostra unità si misero a piangere e a protestare per il sovrautilizzo. I nostri comandanti non ci hanno mai ascoltato. Ci costringevano comunque a partecipare a operazioni in tutto il sud“.
Con l’aumento delle perdite e l’intensificarsi della guerra, il morale dei membri dell’Unità Zero crollò, come mi ha raccontato un medico afghano che ha combattuto per la 02. Come Hayanuddin, il medico è stato evacuato la scorsa estate; mi ha chiesto di non usare il suo nome per paura di ripercussioni, ora che lui e la sua famiglia sono negli Stati Uniti.
Quando il suo comandante chiedeva ai membri della milizia di andare in missione, mi ha detto il medico, alcuni svenivano. Dicevano che “andare in un’operazione è come suicidarsi“, ha ricordato, “perché non c’è supporto aereo e non ci sono abbastanza armi e attrezzature“.
Le voci secondo cui i colloqui di pace tra gli Stati Uniti e i Talebani in Qatar avrebbero portato a un accordo per consegnare l’Afghanistan ai Talebani non hanno aiutato. “I Talebani inviavano gli anziani delle tribù alle varie forze di sicurezza e dicevano loro che a Doha era stato deciso che la provincia in cui si trovavano sarebbe stata consegnata ai Talebani, quindi era meglio non combattere ed evitare le perdite“, ha detto il medico. “Le forze di sicurezza avrebbero accettato e rinunciato a combattere“.
Le forze di sicurezza afghane non sono riuscite a far fronte alle perdite. Solo nel maggio del 2021 sono state uccise più di 400 uomini delle forze filogovernative. Gli afghani non erano più disposti a entrare nelle forze di sicurezza perché il lavoro era diventato troppo pericoloso.
“Avevamo persone molto intelligenti nella nostra unità“, ha detto Hayanuddin. “Ricordo che in un solo giorno uno dei nostri ragazzi, senza un equipaggiamento adeguato, ha eliminato quasi 30 bombe stradali” nel distretto di Maiwand, una roccaforte talebana a ovest di Kandahar.
Nella primavera del 2021, i combattenti con 03 hanno ripetutamente costretto i talebani a lasciare il distretto di Arghandab a Kandahar, ma quando l’esercito e la polizia afghana hanno preso il controllo, i talebani sono tornati indietro.
Sia Hayanuddin che il medico di 02 sospettano che le forze di sicurezza afghane abbiano ceduto il sud non perché sconfitte sul campo di battaglia, ma come parte di un accordo politico. Non erano i soli a pensarlo. Nell’estate del 2021, i Talebani hanno preso il controllo di decine di avamposti della polizia afghana nei distretti che circondano Kandahar.
“La leadership delle forze di sicurezza afghane ha chiesto alle forze di terra in molte province del paese di smettere di combattere. Abbiamo visto sui social media video in cui i soldati piangevano quando gli veniva detto di lasciare gli avamposti e di gettare le armi“, mi ha detto Mirza Mohammad Yarmand, ex vice ministro degli Interni afghano e analista militare.
“Questo significa che si è trattato di un accordo politico che ha portato a un’ondata di crolli di centinaia di avamposti, prima di tutto nel sud del paese“.
I soldati che hanno insistito nel combattere si sono visti tagliare le linee di rifornimento e non hanno ricevuto il supporto necessario, ha detto Yarmand, aggiungendo che quando le forze afghane nella provincia settentrionale di Takhar hanno voluto resistere, hanno potuto scegliere se arrendersi ai talebani o dirigersi verso le montagne del Panjshir, dove erano rintanate le ultime forze che resistevano ai talebani.
Vicino a Kandahar, l’unità di Hayanuddin si imbatté in agenti di polizia che cercavano di fuggire. “Dicevano che il loro avamposto era stato catturato dai talebani“, ricorda. “Li abbiamo portati con noi e non c’erano talebani nel loro avamposto. Quando abbiamo chiesto il motivo, ci hanno risposto che il loro anziano tribale aveva detto loro di lasciare l’avamposto ai talebani. Questo è solo un esempio, ma è successo molte volte“.
Nel giugno del 2021, lo 03 fu schierato da una linea del fronte all’altra mentre un distretto dopo l’altro cadeva sotto i colpi degli insorti. Alla fine di quel mese, quasi la metà dei distretti dell’Afghanistan era sotto il controllo dei Talebani.
Mentre i combattimenti si intensificavano, le altre forze di sicurezza afghane riponevano le loro speranze nelle Unità Zero. Il 4 agosto 2021, mi trovavo con l’Unità di Resistenza della Polizia Nazionale Afghana fuori dalla prigione di Sarposa, una delle principali linee del fronte a Kandahar. I combattimenti si sono intensificati in una zona periferica della città proprio quando la mitragliatrice della polizia ha smesso di funzionare. Ho chiesto a Shafiqullah Kaliwal, un comandante dell’unità, cosa avrebbero fatto.
“Arriverà la 03“, mi ha detto, “e respingerà i talebani nei loro avamposti originari“.
Il giorno dopo, Kaliwal mi disse che lo 03 era effettivamente arrivato in loro soccorso e aveva costretto i talebani a ritirarsi. Ma quando l’Unità Zero si è spostata, i Talebani hanno rapidamente riconquistato il territorio.
Zia ha confermato che la pressione sulle Unità Zero era insostenibile. Negli ultimi quattro mesi di guerra a Kandahar, ha detto Zia, “le perdite delle Unità Zero sono state molto elevate. Non erano paragonabili a quelle degli ultimi 20 anni di guerra. Il motivo è che non sono state utilizzate in modo professionale“.
Un accordo segreto
Uno dei tanti misteri degli ultimi giorni di guerra è stato il modo in cui le Unità Zero sono riuscite a farsi strada attraverso il territorio controllato dai Talebani fino a Kabul, dove sono state evacuate negli Stati Uniti e in altri paesi. Un apparente accordo tra i Talebani e gli Stati Uniti aiuta a spiegare la loro improbabile fuga.
L’11 agosto 2021, una delle principali linee di difesa del governo a Kandahar City crollò a causa dei talebani. Hayanuddin era in licenza in quel momento, ma il giorno dopo, racconta, i suoi compagni dello 03 e altre forze di sicurezza si recarono al Kandahar Air Field, che a quel punto era in territorio talebano. Lì trascorsero due giorni in attesa di essere trasportati a Kabul.
Il 14 agosto, i talebani conquistarono la città di Jalalabad, capoluogo della provincia di Nangarhar, dove Hayanuddin stava trascorrendo la sua licenza con la famiglia. Terrorizzati, lui e suo fratello minore, che aveva prestato servizio anche lui nello 03, rimasero svegli tutta la notte, cercando di contattare il comandante di Hayanuddin per ricevere ordini.
Quando finalmente lo raggiunsero, il comandante disse loro di raggiungere Kabul. La mattina dopo salirono su un taxi e partirono per un viaggio ansioso di due ore attraverso il territorio ora controllato dai loro nemici. Se qualcuno li avesse identificati, pensavano, sarebbero stati uccisi.
Ma il viaggio è stato molto più facile del previsto: uno dopo l’altro, i combattenti talebani che presidiavano i posti di blocco li hanno lasciati passare.
“Non sapevamo cosa stesse succedendo“, mi ha detto Hayanuddin. “Erano il nostro nemico. Stavamo combattendo intensamente solo un giorno prima del crollo, ma ora stavamo rimanendo nel loro territorio o lo attraversavamo in auto. Pensavamo di correre un grosso rischio, ma ora che ci penso, sembra che i Talebani non volessero attaccarci come parte del loro accordo con gli Stati Uniti“.
Non sono stati solo alcuni ragazzi in taxi a riuscire ad attraversare i posti di blocco talebani con facilità. Il 15 agosto, il giorno in cui Kabul cadde in mano ai talebani, il medico di 02 mi ha raccontato di aver guidato da Jalalabad a Kabul con i suoi compagni di unità in un convoglio di centinaia di veicoli militari carichi di armi e attrezzature.
Il medico pensava che avrebbero dovuto combattere per superare i posti di blocco, ma ogni volta i soldati talebani chiamavano i loro comandanti e facevano passare lui e gli altri miliziani afghani.
I Talebani hanno permesso ai membri dell’Unità Zero di attraversare in sicurezza le loro linee del fronte negli ultimi giorni di guerra perché si erano accordati con il governo degli Stati Uniti per farlo, secondo il medico di 02 e due ex funzionari dell’intelligence afghana, che hanno chiesto di non essere nominati perché temevano ripercussioni da parte dei Talebani per aver parlato con un giornalista.
Il piano di evacuazione degli Stati Uniti dipendeva dai membri dell’Unità Zero che si occupavano della sicurezza all’aeroporto di Kabul e gli americani avevano detto a quei combattenti di procurarsi i passaporti poco prima del crollo della repubblica, ha detto Zia, l’ex funzionario senior della sicurezza.
La CIA ha rifiutato di commentare. I Talebani non hanno risposto alle ripetute richieste di commento.
Hayanuddin e suo fratello sono arrivati sani e salvi alla Base Eagle, la sede di Kabul della CIA e dello 01, dove hanno trascorso tre notti. Una dopo l’altra, le Unità Zero sono salite a bordo di elicotteri Chinook e hanno lasciato la base per l’aeroporto di Kabul: prima la 01, poi la 02 e infine l’unità di Hayanuddin, la 03.
Hayanuddin trascorse cinque notti all’aeroporto, garantendo la sicurezza per l’evacuazione di migliaia di afghani disperati. In quei giorni e in seguito, i membri dell’Unità Zero sono stati accusati di aver sparato sulla folla e di aver picchiato i civili afghani che cercavano di andarsene.
Hayanuddin ha negato di aver maltrattato le persone all’aeroporto, ma il mio incontro con un combattente dell’Unità Zero il 19 agosto suggerisce che le accuse sono vere.
Mentre mi facevo strada tra la folla davanti al terminal dell’aeroporto, cercando di raggiungere il mio collega americano e i Marines statunitensi, un membro delle Unità Zero mi ha fermato. Ho spiegato chi ero e dove stavo andando, ma il combattente mi ha ordinato di sedermi. Se non l’avessi fatto, disse, mi avrebbe sparato con decine di proiettili e nessuno l’avrebbe interrogato.
Finalmente fu il turno di Hayanuddin di chiamare la sua famiglia per raggiungerlo su un volo per gli Stati Uniti, via Abu Dhabi e Germania. Come molti afghani, Hayanuddin era sposato con due donne.
Una delle sue mogli, di cui mi ha chiesto di non fare il nome, si era trasferita a Nangarhar con i loro tre figli diversi mesi prima del crollo e uno dei suoi fratelli era riuscito ad accompagnarli a Kabul per incontrare Hayanuddin all’aeroporto. Ma l’altra moglie di Hayanuddin era ancora nella sua provincia natale di Kunar con i loro quattro figli quando la Repubblica è caduta.
“La mia prima moglie, che si trovava a Kunar, non è potuta arrivare a Kabul“, mi ha detto, “perché non c’era nessuno ad accompagnarla“.
Hayanuddin si è lasciato alle spalle anche i genitori e i fratelli, compreso il fratello che aveva prestato servizio al suo fianco nello 03. Gli americani si sono rifiutati di evacuarlo, ha detto Hayanuddin, perché aveva lasciato l’unità un anno prima che i talebani prendessero il controllo.
Riconoscenti, ma arrabbiati
A Pittsburgh, Hayanuddin e altri membri dell’Unità Zero trovarono lavoro in una drogheria halal. Uno di loro era Khan Wali Momand, un ex preside di scuola che ha iniziato a lavorare per 02 a Jalalabad come guardia di sicurezza nel 2017. Momand ora vive con la moglie e i figli in un alloggio della Sezione 8 a Duquesne, un sobborgo di Pittsburgh.
Quando l’ho incontrato, stava scaricando degli scatoloni; da allora ha trovato un altro lavoro in un altro negozio di alimentari locale, che preferisce perché non comporta il sollevamento di carichi pesanti.
Momand ha iniziato a lavorare con 02 grazie a suo fratello, Inayatullah, che secondo lui ha prestato servizio per 16 anni nell’unità, ma ha lasciato l’incarico pochi giorni prima del crollo del governo perché sua moglie era malata.
Come il fratello di Hayanuddin, Inayatullah è stato lasciato indietro quando i Talebani hanno preso il potere e lui e gli altri parenti di Momand sono diventati immediatamente bersagli di punizioni. Inayatullah si è nascosto e quando ho parlato con Momand questa primavera, era consumato dal dolore e dalla preoccupazione. “Ogni volta che ricevo una chiamata da casa“, mi ha detto Momand, “penso che ci saranno brutte notizie“.
Questa primavera, alcuni membri dei Talebani hanno rapito due nipoti adolescenti di Momand e li hanno trattenuti per cinque giorni nel tentativo di costringere la famiglia a consegnare Inayatullah. I nipoti sono stati rilasciati dopo che gli anziani tribali della zona hanno promesso di aiutare i talebani a trovare Inayatullah. Momand ha chiesto un visto speciale per immigrati per venire negli Stati Uniti, ma non ha ancora ricevuto risposta.
“Eravamo così fedeli agli americani che non avremmo lasciato le loro valigie sul campo di battaglia, ma ora stanno abbandonando mio fratello, che li ha aiutati per 16 anni“, mi ha detto Momand. “Durante le missioni con 02 è successo molte volte che un consigliere o un soldato americano venisse colpito e noi rischiassimo la vita per portarlo via dal campo di battaglia. Guarda il nostro livello di lealtà e il loro livello di lealtà“.
Momand è profondamente combattuto per il suo ruolo nella guerra. Quando cinque anni fa ha iniziato a lavorare con gli americani, si è attirato l’inimicizia dei talebani e di molti conoscenti. Nel suo villaggio conservatore, ha avuto difficoltà a difendere la sua decisione e a spiegare in che modo aiutare gli americani avrebbe giovato al suo Paese.
Ora si chiede se abbia fatto la scelta giusta e se ne sia valsa la pena, visto il prezzo che lui e la sua famiglia hanno pagato. A Duquesne è un estraneo e potrebbe non poter più tornare in Afghanistan. Si chiede se si sia unito alla 02 per le ragioni sbagliate o se sia stato usato? Ha tradito il suo paese, il suo popolo, dopo tutto?
Momand ha detto di essere grato a Biden. “Non ci ha abbandonato ai talebani. Se fossi stato abbandonato in Afghanistan, io e tutta la mia famiglia saremmo già stati uccisi“, ha detto. “Ma negli Stati Uniti non c’è nessuno che possa salvarmi dalla difficile situazione in cui mi trovo“.
Quando la nostra conversazione si è conclusa, la rabbia di Momand si è accesa. Ha raccontato la sua storia molte volte agli operatori delle agenzie di reinsediamento e di altre organizzazioni umanitarie. “Tutti vengono qui e chiedono dei miei problemi e di quelli della mia famiglia, ma non vedo alcun risultato nel raccontare queste storie“, ha detto. “Vi piace ascoltare la mia dolorosa storia di vita?“.
Solo nell’oscurità
A casa di Hayanuddin, in quella piovosa mattina di maggio, fu stesa una tovaglia sul tappeto del soggiorno e ci sedemmo attorno ad essa mentre sua moglie e sua figlia di 9 anni, Simina, portavano pagnotte di pane fresco caldo, uova, yogurt caldo e un thermos gigante di tè nero dolce e lattiginoso.
Mentre mangiavamo, Hayanuddin teneva d’occhio il suo telefono. Alle 9 del mattino suonò la sveglia e Simina gli portò un paio di calzini bianchi da ginnastica, una giacca e un ombrello. In Afghanistan, i suoi consiglieri americani avevano sottolineato la necessità di essere puntuali, arrivando spesso con 15 minuti di anticipo alle riunioni con le loro controparti afghane. Temeva che se fosse arrivato in ritardo al lavoro, sarebbe stato licenziato. E aveva bisogno di questo lavoro.
Mi ha detto che portava a casa circa 1.600 dollari al mese al netto delle tasse. L’agenzia di reinsediamento copriva i primi tre mesi di affitto del suo appartamento a Pittsburgh; dopo, avrebbe dovuto spendere 1.500 dollari al mese, quasi l’intero stipendio, per l’affitto e le utenze. Riceveva anche dei buoni pasto, ma il bilancio familiare era molto limitato.
La sua casa si trovava a circa cinque miglia dal negozio di alimentari halal, un tragitto facile di 15 minuti. Ma il viaggio in autobus, compreso il trasferimento in centro, poteva durare più di un’ora. In questo giorno avrebbe lavorato per nove ore, arrivando a casa tra le 21 e le 22. La famiglia, compresi i bambini, avrebbe cenato insieme fino a tardi. Poi chiamavano l’Afghanistan, in modo che Hayanuddin e sua moglie potessero parlare con i loro genitori e i genitori con i loro nipoti.
È stato suo padre, dice Hayanuddin, a convincerlo ad andare negli Stati Uniti l’anno scorso. “Se i talebani venissero e ti decapitassero davanti a noi o ti sparassero in testa davanti a noi, sarebbe un trauma molto grande per tutta la nostra vita“, gli ha detto suo padre lo scorso agosto. “Quindi, se vuoi risparmiarci questo dolore, dovresti andartene“.
A volte se ne pente. “Non siamo venuti qui volontariamente e non è facile“, mi ha detto. “È la lotta di tutti i giorni. E poi hai una famiglia che ti guarda e spera che tu sistemi tutto“.
Alle 9:20, Hayanuddin indossò una giacca nera e si diresse alla fermata dell’autobus, un palo di legno con un’insegna di metallo ai margini di una strada trafficata. Inarca le spalle contro la pioggia e tira una boccata di Marlboro Red. L’agenzia di reinsediamento gli aveva dato delle tessere di viaggio, ma quando queste si sarebbero esaurivite avrebbe dovuto spendere i suoi soldi per il biglietto dell’autobus.
In Afghanistan, guidava pesanti veicoli militari su terreni montuosi indossando occhiali per la visione notturna. Ma a Pittsburgh non poteva ottenere la patente di guida. Il test era offerto in urdu e arabo, ma non in persiano o pashto, le due lingue principali dell’Afghanistan, e all’epoca i traduttori non erano ammessi (alcuni mesi dopo, dopo le lamentele della comunità afghana locale, la motorizzazione ha aggiunto un test in persiano).
“Se mi fermavo alla fermata dell’autobus in Afghanistan, facevo un cenno a un taxi che si fermava e mi portava dove volevo andare“, ha detto. “Non c’è un paese bello come l’Afghanistan al mondo, se solo fosse abbastanza sicuro per viverci“.
Dopo 15 minuti, l’autobus arrivò. Hayanuddin, completamente bagnato, indossò una mascherina chirurgica, salì i gradini e si accomodò su un sedile vuoto. Mentre l’autobus procedeva a fatica lungo le strade tortuose, in direzione del centro, egli osservò gli altri passeggeri.
“Solo i poveri come me usano l’autobus“, notò.
Nel suo appartamento, mi aveva mostrato una pila di carte d’identità militari e di encomi degli americani con cui aveva lavorato, ognuno firmato da un soldato o da un ufficiale diverso, che lodava il suo servizio e faceva promesse che non potevano mantenere.
“Le sue azioni esemplari dimostrano il suo impegno generale non solo per salvaguardare il suo villaggio, il suo distretto e la sua provincia da coloro che infliggono danni agli innocenti, ma anche per garantire un futuro migliore a tutti i cittadini afghani attuali e futuri“, si leggeva in un certificato, firmato dal “Sergente Maggiore Scott” e dal “Comandante Josh” dell’unità delle Forze Speciali ODA 3115.
“La sua competenza, l’incrollabile dedizione al dovere e l’etica del lavoro hanno superato di gran lunga le mie aspettative e sono fonte di ispirazione per tutti coloro che lavorano con lui“, si legge in un altro certificato, firmato QSF – Qandahar Strike Force – National Security Unit 03 e datato marzo 2021.
“Negli ultimi 6 anni, ha dimostrato la sua totale lealtà alla sua unità. Il suo servizio al Paese è un esempio luminoso per tutti i suoi compagni di unità che lo circondano e dimostra un impegno costante per un Afghanistan libero e prospero“. Il documento è firmato da “Mac”, un consigliere statunitense.
“Il signor Ayanudin sarà una grande risorsa per la SRF-03“, si legge in un encomio del 2015, “e darà un contributo significativo a un Afghanistan libero e prospero“.
Cosa fare, ora, di quei documenti, di quelle parole?
Più di un’ora dopo essere uscito di casa, Hayanuddin è sbarcato all’angolo di una strada desolata e ha camminato per un isolato fino alla drogheria halal, un complesso di magazzini in mattoni con murales che parafrasano Martin Luther King Jr: “Solo nell’oscurità puoi vedere le stelle“.
All’interno, ha sostituito la giacca con un grembiule bianco ed è riapparso dietro il bancone della carne, dove usa una lama meccanizzata per affettare i petti di pollo.
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