Altri tempi, quando ce la si prendeva con il manifesto, tacciandolo di trotskismo, per i continui attacchi – tra le altre cose – all’Unione Sovietica, tanto alla sua storia passata, quanto alle cronache del cosiddetto “ristagno” brežneviano, per le quali si accodava semplicemente alle grida di orrore liberali sui “diritti umani violati”.
Sono passati quei tempi; e sono arrivate puntuali, ripetute nei vari anni, le spudorate risoluzioni europeiste sull’equiparazione tra URSS e Germania nazista, tra cui quella “europea” del 2019.
Sull’altro versante, sono arrivate anche le risoluzioni di condanna della eroicizzazione e propaganda di nazismo, neonazismo e altre forme di fascismo e xenofobia, presentate all’ONU a cadenza annuale dalla Russia post-sovietica e puntualmente osteggiate da USA, paesi NATO-UE e loro manutengoli – Ucraina nazi-golpista in testa – ma sempre approvate a larga maggioranza, (l’ultima è del 15 dicembre: 120 voti a favore, 10 astenuti e 50 contrari, tra cui Italia, Germania e Giappone) a testimonianza, se non altro, di quale sia in realtà “l’isolamento” della Russia su scala mondiale.
In questo clima, il manifesto, avvicinandosi il centenario della proclamazione dell’URSS (nei prossimi giorni, anche Contropiano avrà da dire la sua su un aspetto specifico della ricorrenza) e a corredo delle corrispondenze di guerra – rigorosamente dalla parte ucraina – non trova nulla di meglio che riproporre, presentandole come “nuove rivelazioni”, le più ritrite novene liberali sulla presunta «spartizione dell’Europa orientale» tra Hitler e Stalin nel 1939, sulle cui orme si muoverebbe oggi la Russia putiniana nei confronti dell’Ucraina nazi-golpista.
Seguendo lo stesso schema, poco più di un anno fa, da via Bargoni avevano già divulgato le consuete “novità” su le «ragioni geopolitiche di una alleanza fatale», anche allora giurando sulle «rivelazioni degli archivi sovietici» aperti negli anni ’90, “arricchite” dalla genuflessione ai piedi della strage «stalinista di Katyn’, uno dei più famigerati crimini di guerra dello stalinismo».
Altre volte si è scritto su Contropiano del valore più che dubbio dei documenti “scoperti” negli archivi sovietici, guarda caso proprio negli anni ’90.
Si è scritto di come nel 2011 fosse morto improvvisamente e misteriosamente l’ex Procuratore e ex deputato del KPRF, Viktor Iljukhin, dopo che, un anno prima, aveva rivelato che, nei primi anni ’90, il cosiddetto “architetto della perestrojka”, Aleksandr Jakovlev, aveva arruolato tecnici specializzati nella creazione di falsi documenti “storici”, con tanto di carta d’epoca e timbri sapientemente artefatti, intrufolati poi negli archivi del CC del PCUS, per essere “scoperti” di lì a poco.
Nel caso specifico del “Patto di non aggressione Germania-URSS”, è facile dire come la “scoperta” possa farsi risalire, per i più grandicelli che hanno frequentato l’Università negli anni ’70, almeno a cinquant’anni fa (per esempio: Walther Hofer, Lo scatenamento della Seconda guerra mondiale) e, per i più anziani, al famigerato libercolo del Dipartimento di stato Nazi-Soviet Relations 1939-1941, pubblicato nel 1948 e immediatamente rintuzzato da Falsificatori della storia, diffuso nello stesso anno dal SovInformBjuro, insieme alle varie edizioni in lingue estere curate da Mosca.
Nel saggio “I documenti sovietico-germanici dell’agosto 1939: i problemi delle fonti” (all’interno del volume Anti-gitlerovskaja koalitsija – Moskva, 2019), lo storico russo Mikhail Mel’tjukhov esprime dubbi anche sull’autenticità degli esemplari dei “protocolli segreti” la cui versione sovietica (finora si sarebbe conosciuta solo la versione tedesca) il Ministero degli esteri russo ha reso pubblica nell’estate 2019.
Il confronto tra le immagini delle versioni tedesca e russa, non solo dei presunti protocolli, ma dello stesso Patto di non aggressione, scrive Mel’tjukhov, solleva diversi interrogativi.
La compilazione stessa del Patto non sembra rispondere alla comune pratica diplomatica: nell’esemplare tedesco, ad esempio, sembra che le firme di Ribbentrop e Molotov siano apposte in una pagina diversa da quella del testo, addirittura sul retro della pagina.
Ancora più “curioso” il fatto che, nella versione tedesca, Molotov avesse firmato con caratteri latini, fatto del tutto inusuale per lui. Nel protocollo segreto, poi, la firma di Molotov sarebbe sopra a quella di Ribbentrop e non a fianco e nel testo tedesco si noterebbero alcune correzioni e discrepanze; e, comunque, nessuna ratifica si sarebbe avuta, né da parte tedesca, né sovietica, il che renderebbe il presunto accordo nulla più di un “protocollo d’intenti”.
Per non parlare infine del fatto che, nei presunti “documenti” tedeschi, diffusi nel 1948 dal Dipartimento di Stato e in cui viene “rivelata” per la prima volta l’esistenza di protocolli segreti, brillano curiosamente strani e inverosimili anglicismi linguistici e sintattici.
La storiografia liberale batte da decenni sul tasto del patto di non aggressione sovietico-tedesco, quale “via libera” a Hitler per l’attacco alla Polonia da ovest il 1 settembre 1939, mentre l’URSS ne approfittava per invadere la Polonia da est, tacendo sempre scrupolosamente sul fatto che il 17 settembre l’Esercito Rosso entrava nelle regioni occidentali di Ucraina e Bielorussia, occupate dalla Polonia fascista sin dal 1921.
Ora, il manifesto, recensendo il saggio di Antonella Salomoni Il patto Molotov-Ribbentrop e la falsificazione della storia, ripete la tiritera del «”protocollo aggiuntivo” – non divulgato – finalizzato a regolare la spartizione dell’Europa orientale».
A via Bargoni tengono a «sottolineare che la studiosa, fondando la propria analisi soprattutto sulla consultazione delle fonti ex sovietiche», prende in considerazione, per l’appunto, anche Falsificatori della storia che, ci assicurano dalle rive del Tevere, sarebbe stato «scritto in buona parte dallo stesso Stalin»; non si manca poi di evidenziare che il «ritrovamento, alla fine del 1992, di due plichi che contenevano l’originale dell’accordo segreto» sarebbe stato seguito in Russia da «un processo di restaurazione volto a contrastare il dibattito che si era sviluppato durante l’epoca gorbacioviana e a riscrivere la storia del Novecento riguardo soprattutto a una questione – la cosiddetta “complicità spartitoria”», così che la pubblicistica putiniana possa mettere in dubbio «la comune volontà – da parte del regime staliniano come di quello hitleriano – di definire delle sfere di influenza».
Insomma, ci raccontano, la storia si ripete: era accaduto allora ciò che si verifica anche oggi, così che, quando Vladimir Putin parla della «necessità di “denazificare” l’Ucraina, sembra una rivendicazione perfettamente in linea con la sua ricostruzione storiografica alla quale, nel febbraio di quest’anno, ha dato purtroppo tragica attuazione».
E dunque: nel 1939 la Polonia; nel 2022 l’Ucraina. Prima l’invasore era l’URSS, “d’accordo” con gli hitleriani; oggi è la Russia. In entrambe i casi, le vittime sarebbero «’libere democrazie europee’, fiori all’occhiello dei «valori occidentali», aggredite da dittature: una “democrazia nazigolpista” è proprio l’ultima geniale trovata della politologia atlantista.
Ora, per parte nostra, mentre tralasciamo qui ogni discussione sullo scontro interimperialistico mondiale, che al momento assume carattere cruento soprattutto (ma non solo) in Ucraina, riteniamo come minimo anti-storico e anti-politico ogni tentativo di paragone tra Unione Sovietica socialista, vincitrice della Wehrmacht e del nazismo, e Russia capitalista che, ufficialmente, dal 24 febbraio 2022 si è posta gli obiettivi della demilitarizzazione dell’Ucraina, punto nodale della propria sicurezza, e della liberazione di quel paese dalle bande nazigolpiste che vi imperversano dal 2014.
E, però, quei paragoni, quei rimandi “storici”, sono all’ordine del giorno nella propaganda occidentale e, in alcune occasioni, quando servono a mettere in risalto la potenza nazionale, passata e presente, sembrano non esser disdegnati nemmeno dall’altra parte del fronte. In ogni caso, quel che la fa da padrone, è non tanto la ricerca della verità, storica o attuale, quanto la propaganda più bieca.
Certamente, nel 1939, o nel 1948, mezzi e tecniche di distorsione dei fatti, per quanto sottili, erano quasi “primitivi”, se paragonati a oggi. Settant’anni fa, la parola stampata era pressoché l’unica strada attraverso cui si cercava di vomitare sull’Unione Sovietica anche i più beceri cliché goebbelsiani, tacendo su intrecci politico-affaristici, accordi militari, tra “democrazie liberali” e Germania hitleriana, prima, durante, e addirittura nelle fasi conclusive della guerra.
Settant’anni fa, però, nonostante la pochezza dei mezzi comunicativi, a contrastare e ribattere calunnie e mistificazioni degli “Alleati”, c’erano in Occidente forze politiche di massa che, nella resistenza clandestina al fascismo e al nazismo, e poi nella lotta armata, si erano guadagnate la fiducia di larghe masse e, per ciò stesso, erano in grado di contribuire a riequilibrare il peso della propaganda anti-sovietica e anti-comunista.
Oggi, a fronte di mezzi di comunicazione che, ventiquattrore al giorno, instillano le uniche “verità” ammesse dai centri di potere politico, economico e militare, che affama le masse per arricchire il complesso militare-industriale, narcotizzando la capacità critica delle persone, quel che pesa è la mancanza di forti aggregazioni politiche in grado di raggiungere, con l’azione e le parole, i più larghi strati popolari, per smentire la propaganda di guerra di USA, UE e NATO e dei loro tirapiedi europei.
Pesa, oggi, constatare l’enorme sproporzione tra le possibilità di martellamento “di falsità e silenzi” dei media al servizio del polo imperialista euroatlantico e le capacità dei comunisti di far sentire la propria voce. Oggi, come ottant’anni fa, la mistificazione non conosce limiti.
Così, il massacro nazista di Katyn’, attribuito nel 1943 al NKVD, lascia oggi il posto ai bombardamenti su Donetsk, contrabbandati per russi; le centinaia di Khatyn’ bielorusse ignorate, sono oggi la strage alla Casa dei sindacati a Odessa nel 2014, cancellata dai media ufficiali, al pari dei prigionieri russi assassinati pochi giorni fa a sangue freddo dai nazisti di Kiev.
Al posto dei volontari europei che nel 1941 si unirono alle SS naziste nell’attacco all’URSS, ecco oggi i mercenari da mezzo mondo che «non sono nazisti. Sono nazionalisti», anche se sventolano croce uncinata, dente di lupo e esternano il “Sieg heil”.
Ma, a dispetto di tutto, e per chiudere: perché meravigliarsi di certe “scoperte storiche” de il manifesto riguardo alla storia sovietica? A quelli di via Bargoni non manca la compagnia.
Lo scorso 8 dicembre, il portavoce presidenziale russo Dmitrij Peskov ha dichiarato che il 30 dicembre, per il centenario dell’URSS, «non festeggeremo. Si tratta di una parte importante della nostra storia, inscindibile dalla storia russa, ma se ricordiamo le parole del Presidente: solo una persona senza cuore può non dispiacersi del crollo dell’Unione Sovietica e solo una persona senza cervello può desiderare il ripristino di quella Unione»; come a dire: ci doliamo della fine dello Stato potente, temuto dai nemici, ma non rimpiangiamo certo la sua struttura politica e sociale.
Già, era stato proprio Vladimir Vladimirovič, ad esempio, a dichiarare nel 2012 che la Russia era stata sconfitta nella Prima guerra mondiale a causa del tradimento nazionale dei primi leader sovietici; nel 2016, aveva di nuovo esternato la sua “idea” originaria, paragonando le idee di Vladimir Lenin a una «bomba atomica sotto l’edificio chiamato Russia».
Sempre lui, in varie occasioni, ha detto che «il marxismo-leninismo è una favola bella e deleteria, la cui realizzazione ha causato un danno enorme al nostro Paese», oppure che «i protagonisti del 1917 posero una mina a scoppio ritardato sotto l’edificio dello Stato che si chiamava Russia» e che «i bolscevichi distrussero ciò che unisce e consolida i popoli dei paesi civili: il mercato in quanto tale, distrussero il nascente capitalismo».
C’è una strada a Roma che, per quanto disti appena un centinaio di metri dal Tevere, è spesso idealmente vicina alla Neglinnaja che, oggi tombata, scorre adiacente le mura del Cremlino post-sovietico.
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Eros Barone
Premesso che il sottotitolo più appropriato del “manifesto” dovrebbe essere quello di “quotidiano anticomunista”, la domanda su quale sia oggi la funzione che svolge questo giornale ammette una sola risposta: quella di trasformare diverse generazioni di compagni da comunisti potenziali in liberali estremi, andando ad infoltire i ranghi di quell’esercito d’opinione radical-borghese che aveva il suo nume tutelare in Scalfari, il suo organo di stampa nella «Repubblica» e i suoi vessilliferi, indipendentemente dal settore politico di appartenenza, in esponenti intellettuali e in giornalisti come Toni Negri, Mario Tronti, Massimo Cacciari, Paolo Mieli, Aldo Bonomi, Adriano Sofri, Paolo Liguori, Gad Lerner, Luigi Manconi, Erri De Luca, Enrico Deaglio, tanto per citarne alcuni. Altre domande sgorgano poi da quella prima domanda, e la riposta è sempre la stessa: non è forse il «manifesto» la scuola quadri che ha formato politicamente personaggi come Tiziana Maiolo, Lucia Annunziata, Gianni Riotta e Dario Di Vico, tutti pennivendoli al soldo del capitale, ben inseriti sia nel mondo di associazioni riservate come l’“Aspen Institute” o il “Council on Foreign Relation”, sia nei maggiori mezzi di comunicazione nazionali? Inoltre, come non ricordare che il maggiore intellettuale della destra populista, un certo Giulio Tremonti, oggi esponente di FdI, scriveva, sempre sul «manifesto» negli anni ottanta del secolo scorso, con lo pseudonimo di “Lombard”? Davvero è difficile riuscire a comprendere come si possa conciliare l’aggettivo ‘comunista’, scritto sulla testata di questo giornale, con i nomi di quei finanziatori, appartenenti ad importanti frazioni del capitalismo italiano, che a più riprese hanno contribuito a sostenere il giornale. Sorge perciò ancora una volta spontanea la domanda se sia possibile che simili finanziatori siano interessati all’espansione del comunismo oppure se il loro vero interesse sia quello, operando soprattutto in direzione di quella parte delle nuove generazioni che si potrebbe maggiormente radicalizzare, di frenarlo e di deviarlo, controllandolo, deformandolo e inquinandolo.
Mauro
…Da “quanto sono buoni i vaccini Yankees”a”quanto sono buoni gli ukronazi”è stato un attimo… è già da un bel po’ che non chiedono soldi x non chiudere…strano…e comunque anche oggi ci ha regalato un bel servizietto sui mostri russi..