Il deputato della Rada ucraina per “Piattaforma d’opposizione – per la vita” (considerata filo-russa), l’ex nazista di “Pravyj sektor” Il’ja Kiva, ha annunciato la data esatta delle dimissioni del Presidente Vladimir Zelenskij: «Dal 15-20 novembre prossimi, cominceranno movimenti di protesta a Kiev, che in un paio di mesi coinvolgeranno l’intero paese. Il 15 novembre Zelenskij rimetterà i propri poteri, scioglierà la Rada e indirrà elezioni presidenziali e parlamentari anticipate».
Alla luce degli ultimi avvenimenti ucraini, la previsione di Kiva potrebbe rivelarsi qualcosa più di una fantasia soggettiva.
Quali sono questi avvenimenti? Per quanto riguarda il Donbass, pare che Kiev si appresti a rigettare, anche ufficialmente, la “formula Steinmeier” e a buttare a mare gli accordi di Minsk, che, tra l’altro, dal momento della loro firma nel 2015, si è sempre guardata dall’applicare.
Ma l’episodio sul momento più appariscente, dietro cui si celano manovre ancora di non sicura definizione, ma di cui è possibile individuare la matrice, è rappresentato dalle dimissioni del sinora inamovibile Arsen Avakov, il Ministro degli interni del golpismo ucraino, in carica ininterrottamente dal febbraio 2014, sin dalla presidenza a interim di Aleksandr Turčinov e passato indenne da due governi Jatsenjuk e da quelli Grojsman, Gončaruk e Šmigal’ e che nel 2019 aveva assicurato la tranquilla vittoria di Zelenskij su Petro Porošenko.
Contro il “muro Avakov” si era rotto la testa persino un inossidabile truffatore come l’ex Presidente georgiano e ex governatore di Odessa, Mikhail Saakašvili.
In fatto di imbrogli, Avakov sa il fatto suo: lo scorso dicembre l’Ufficio anticorruzione aveva avviato un procedimento penale contro di lui e l’ex capo della Banca centrale, Valerija Gontareva, accusati di appropriazione indebita di 62 milioni di euro.
I lettori italiani lo ricordano, non foss’altro, per la presenza anche al processo d’appello con cui lo scorso novembre il tribunale di Milano aveva scarcerato Vitalij Markiv.
In quell’occasione, secondo PavlovskyNews, Avakov sembrava così sicuro del verdetto, da pagare “di tasca propria”(?!) 24.000 euro per il Falcon con cui lui e Markiv se ne volarono subito a Kiev, dove il nazista della Guardia nazionale ucraina, condannato in primo grado a 24 anni per corresponsabilità nella morte di Andrea Rocchelli e Andrej Mironov, veniva accolto da eroe da Zelenskij.
Opinione diffusa, a proposito della mossa di Avakov, è che presto tocchi a Zelenskij esser “majdanizzato” e, comunque, che il Presidente non riesca a mantenere la carica oltre fine anno.
Il politologo russo Marat Baširov rileva come Avakov abbia annunciato le dimissioni dopo essersi incontrato con rappresentanti yankee; sarebbe stato Zelenskij a chiedere ai consigliori USA la sostituzione di Avakov: quest’ultimo è da sempre un aperto padrino dei battaglioni nazionalisti e neonazisti, poi assorbiti nel Ministero degli interni e che oggi tengono sotto pressione Zelenskij. Dunque, il Presidente vorrebbe vedere a capo del Dicastero un proprio uomo, sostiene Baširov.
La tesi sembra zoppicare, dato che Denis Monastyrskij, designato dalla Rada in sostituzione di Avakov, è un suo uomo fidato, tanto da aver compilato a suo tempo una relazione positiva alla tesi magistrale del succitato Il’ja Kiva, prima che Avakov infiltrasse quest’ultimo nella filo-russa “Piattaforma d’opposizione”.
E in ogni caso, nel conflitto Avakov-Zelenskij, non poco influirebbero le lotte per interessi materiali, che ruotano attorno alla municipalità e alla provincia di Kharkov, la seconda più grande città ucraina, da cui Avakov aveva iniziato la propria ascesa politica nei primi anni duemila.
Anche l’osservatore di Rossija Segodnija, Vladimir Kornilov, evidenzia la coincidenza delle dimissioni di Avakov con il primo giorno della missione ucraina del vice assistente del Segretario di stato per Europa e Eurasia, George Kent, incontratosi immediatamente a Kiev proprio con Avakov, prima ancora che con il Presidente o il Primo ministro o lo speaker della Rada.
E gli sguardi più attenti hanno rilevato sorrisi di soddisfazione sulla faccia sia di Kent che di Avakov. Quest’ultimo, in vista delle annunciate manifestazioni del prossimo autunno, libero dal fardello della carica ministeriale, potrebbe manovrare a piacimento la massa dei battaglioni neonazisti che a lui fanno riferimento.
Ora, sulla eventualità che in autunno l’Ucraina sia attraversata da proteste di massa, ci sono in rete pareri opposti: da un lato, ci si dice convinti che tutto rimarrà calmo, perché «le majdan in Ucraina bisogna pagarle» e non ci sono soldi per pagare la piazza e mancano leaders; ma anche perché «Zelenskij si è assoggettato tutte le forze militari e di polizia».
Dall’altro, si prospettano invece grandi movimenti e un profondo rivolgimento nel paese, di cui potrebbero approfittare i paesi vicini, che «investiranno soldi e mezzi perché il progetto “Ucraina” abbia termine, dato che ciò è vantaggioso per tutti e specialmente per i vicini: la Polonia vuole i propri territori, li vuole l’Ungheria, li vogliono i romeni, i russi».
Comunque, che ci siano o meno proteste di massa, è opinione generale che sia altamente improbabile una lunga permanenza di Vladimir Zelenskij al vertice ucraino e che invece le dimissioni di Avakov preludano a un suo prossimo ritorno a qualcosa di più che non alla carica di primo cittadino di Kharkov; con “Corpo nazionale”, “Azov” & Co. a fare, anche ufficialmente, da pretoriani al nuovo “uomo forte” dell’Ucraina nazi-golpista.
Di per sé, infatti, a dispetto delle azioni terroristiche contro il Donbass e lo squadrismo interno, sia Porošenko, sia Zelenskij hanno teso a presentarsi come “moderati”.
Il tutto, avverrebbe nella direzione voluta da Washington, dove siedono quelli che Vladimir Putin, nell’articolo “Sull’unità storica di russi e ucraini”, ha definito gli «autori occidentali del progetto “anti-Russia” [che] regolano il sistema politico ucraino in modo tale che cambino presidenti, deputati, ministri, ma rimanga immutato l’impianto della separazione con la Russia, l’inimicizia con essa».
Si tratta di un testo, quello del Presidente russo, molto ampio, che merita un’analisi a sé, ma che, sintetizzando oltremisura, si può suddividere in tre diverse parti.
Una prima, volta a dipingere un quadro idilliaco della Russia zarista, in cui, a suo dire, non vi sarebbe stata alcuna oppressione delle nazionalità non russe appartenenti all’impero e nemmeno una russificazione forzata delle periferie nazionali della Russia zarista.
Putin parte dall’antica «Rus’, di cui sono eredi russi, ucraini e bielorussi», dalla dinastia dei Rjurikoviči, dal battesimo della Rus’ nella fede ortodossa, dal principe Vladimir, che governava sia su Novgorod che su Kiev, alla guerra del Gran principato di Lituania e Russia per liberarsi dalla dominazione della Rzeczpospolita polacca, fino ad arrivare alle guerre con l’impero ottomano, che guadagnarono alla Russia la Crimea e il litorale del mar Nero che venne chiamato “Novorossija”, passando per la comune lingua russa usata da scrittori e poeti ucraini quali Taras Ševčenko e Nikolaj Gogol.
E si arriva alla dominazione austro-ungarica su parte dell’Ucraina e al suo impiego in funzione anti-russa, fino alla rivoluzione di febbraio nel 1917 e alla formazione della Repubblica popolare ucraina, che poi (ma questo non lo dice Putin) svolgerà un ruolo anti-sovietico dopo l’Ottobre.
C’è una terza parte, che parla dei tempi più recenti e in particolare del dopo-2014, e su cui si possono sostanzialmente trovare spunti interessanti.
In mezzo a queste due parti, non poteva mancare l’ormai tradizionale ritornello della «mina a scoppio ritardato» che i bolscevichi, e in particolare Lenin, avrebbero posto «sotto l’edificio chiamato Russia».
Infatti, scrive Putin, nel 1922, «alla creazione dell’URSS, tra i cui fondatori vi fu la RSS d’Ucraina… venne realizzato il piano leniniano di uno Stato quale Federazione di Repubbliche con uguali diritti… e poi nella Costituzione dell’URSS del 1924, fu introdotto il diritto di libera uscita delle Repubbliche dall’Unione».
Ecco che quella “mina” sarebbe esplosa, guarda caso, proprio molti decenni dopo, a danno della Russia eltsiniano-putiniana, con il separarsi dalla Russia post-1991 di tutte le ex Repubbliche: proprio quelle che Boris Eltsin esortava a prendersi «tutta l’autonomia che potete».
Così, se durante la guerra civile scatenata nel 1918 contro i bolscevichi, vari «nazionalisti tendevano alla formazione di propri stati separati, e i capi dei Bianchi erano per una Russia indivisa» (sarà per questo che nella Russia putiniana vengono inaugurati così tanti monumenti ai generali bianchi), i “perfidi bolscevichi”, invece, «letteralmente espellevano dalla Russia sovietica» anche «molte repubbliche costituite da fautori dei bolscevichi».
Gli “infidi bolscevichi” che, volendo combattere l’oppressione nazionale grande-russa, che era stata a base dello zarismo, tendevano a favorire a ruoli dirigenti, nelle singole Repubbliche dell’URSS, esponenti nazionali, guarda un po’, non fecero che promuovere «una politica di “indigenizzazione”, che nella RSS d’Ucraina venne condotta come ucrainizzazione».
Così, si rammarica Putin, proprio «la politica nazionale sovietica, invece di una grande nazione russa, di un popolo trino, composto da grandi-russi, piccoli-russi e bielorussi, sancì a livello statale l’ordinamento di tre singoli popoli slavi: russo, ucraino e bielorusso».
Pertanto, l’Ucraina moderna è «interamente figlia dell’epoca sovietica. Sappiamo e ricordiamo che in larga misura essa è stata creata a spese della Russia storica. Basti confrontare quali terre furono riunite allo stato russo nel XVII secolo e con quali territori la RSS d’Ucraina lasciò l’Unione Sovietica».
Ancora, i “malvagi” «bolscevichi trattarono il popolo russo come un inesauribile materiale per esperimenti sociali. Fantasticavano di una rivoluzione mondiale che, secondo loro, avrebbe abolito del tutto gli stati nazionali. Per questo, i confini vennero arbitrariamente tagliati e furono elargiti generosi “doni” territoriali… Una cosa è evidente: la Russia venne di fatto derubata».
Al di là di varie omissioni storiche, è difficile sfuggire alla sensazione che Putin parli qui più come il Signore di un Grande Stato il quale, più che a “russi e ucraini uniti storicamente”, guarda dall’alto in basso a ucraini e bielorussi e che, come qualcuno scrive in rete, «ha deciso di diventare una specie di principe moscovita Jurij Dolgorukij: un collezionista di terre russe».
Se l’Ucraina nazi-golpista del dopo 2014 è oggi la punta di lancia dell’attacco yankee alla Russia, c’è da dubitare che il contrasto a tale aggressione sia rappresentato proprio dal disegno di una “Grande Russia”, più confacente ai profitti delle grandi imprese semi-statali e dei miliardari (con passaporto estero) russi che non ai popoli di Russia, Ucraina e Bielorussia.
Se l’Ucraina majdanista funge da grimaldello dell’ulteriore penetrazione yankee, le basi di tale “evoluzione” furono gettate non dai bolscevichi, bensì dai vari “Fronti nazionali” indipendentisti, spalleggiati da quanti, nei corridoi del PCUS, lavoravano al disfacimento dell’URSS; le radici affondano nelle dichiarazioni di “indipendenza” dall’URSS di tutte le Repubbliche, Russia compresa; le fondamenta furono gettate dal trio presidenziale russo-ucraino-bielorusso, Eltsin-Kravčuk-Šuškevič, l’8 dicembre 1991 nella Belovežskaja pušča.
Se oggi a farla da padrone in Ucraina sono gli Avakov e i battaglioni neonazisti, cui la linea viene dettata direttamente dal Dipartimento di stato, è difficile incolpare di questo i bolscevichi, quanto invece i loro affossatori, fautori del “libero mercato”.
Si raccoglie quanto seminato da cinquant’anni.
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