L’autodeterminazione, l’Europa e la guerra. (parte prima)
A più di 5 anni dall’ottobre che vide la leadership catalana egemonizzata dai socialdemocratici di ERC e dai piccolo borghesi di Junts per Catalunya fermarsi davanti alla soglia della rivoluzione del sistema politico catalano e spagnolo, l’esquerra independentista e anticapitalista non ha ancora risposto ad alcune domande rimaste da allora in sospeso, un compito al quale si è aggiunta la sfida dell’opposizione alla guerra e alla NATO.
Il tutto in un contesto in cui il riformismo del PSOE, dispiegatosi prima con l’indulto concesso ai principali responsabili del primo ottobre, poi con il maquillage del delitto di sedizione, ha raggiunto l’obiettivo della provvisoria normalizzazione del paese, complici le direzioni di ERC e Junts, entrambe stordite dalla repressione inaugurata dai popolari e confermata dai socialisti.
Una normalizzazione politica che è calata su una società in cui le contraddizioni reali si aggravano: secondo l’ultima rilevazione dell’Istituto di Statistica della Catalunya (IDESCAT), più di un quarto della popolazione catalana si trova in una situazione a rischio di povertà ed esclusione sociale.
Un dato che non sorprende se si tengono in conto gli effetti delle ormai decennali politiche di austerità e della recente inflazione scatenata dalla guerra. Un dato che, una volta di più, dovrebbe contribuire a smontare il cliché dei catalani borghesi e benestanti caro alla sinistra spagnola.
Accanto a una riflessione sulle questioni aperte dal referendum d’autodeterminazione, in questo dossier si propone la traduzione di due tra le più significative analisi sulla guerra in Ucraina elaborate dall’esquerra independentista e anticapitalista.
La prospettiva non vuole essere quella dell’assunzione acritica di un modello sorto in un contesto esterno, bensì quella di offrire dei materiali che da un lato possano arricchire il dibattito contro la guerra e la NATO, dall’altro contribuiscano a stringere nuove alleanze tra i popoli e le classi subalterne del continente, nella prospettiva della rottura dell’architettura liberista della UE.
Un compito rispetto al quale non sembrano ancora emerse opzioni organizzative all’altezza della gravità della situazione e che perciò interpella tutta la sinistra di classe, il cui contributo teorico e pratico pare più che mai necessario.
Le domande irrisolte del referendum d’autodeterminazione del 2017
Il referendum rappresenta il punto più avanzato della lunga e altalenante lotta del popolo catalano, almeno nella fase che comincia a partire dal dopoguerra. Più avanzato sia della dichiarazione di indipendenza (rimasta sulla carta) che della maggioranza del 52% raggiunta nelle elezioni del febbraio 2021.
Il referendum rappresenta questo vertice perché per garantirne la celebrazione e per preservarne il carattere di rottura con lo stato e con gli equilibri esistenti, risultano decisivi i comitati popolari, come e più del contributo della Generalitat. Ha dunque un valore notevole per il suo esempio di auto-organizzazione popolare unico in Europa ma anche per le domande che ha posto all’ordine del giorno del movimento indipendentista e che finora sono rimaste senza risposta.
Il referendum ha reso evidente che lo stato spagnolo non lascerà le redini del potere solo perché i catalani lo hanno deciso in una consulta elettorale. Sia con un governo del PP, sia con un governo del PSOE, lo stato non è disposto a riconoscere il diritto all’autodeterminazione del catalani.
La repressione del referendum, i processi che hanno coinvolto oltre 4.000 persone negli ultimi cinque anni, lo spionaggio della cupola indipendentista, dei familiari e persino degli avvocati dei detenuti hanno reso evidente che lo stato è disposto a ricorrere a qualsiasi mezzo pur di impedire la nascita della repubblica catalana.
La prima domanda che il referendum rivolge implicitamente al movimento indipendentista è allora la seguente: con quali mezzi, con quali organismi di lotta, con quali istituti di partecipazione popolare è possibile strappare il potere dalle mani dello stato?
Si tratta di un interrogativo impegnativo, certo di non facile soluzione ma ineludibile se si vuole portare a termine la rivoluzione necessaria per fondare la repubblica catalana. Tuttavia il settore oggi maggioritario del movimento indipendentista sembra averlo rimosso completamente. Dal canto suo l’esquerra independentista e anticapitalista è consapevole dell’importanza del tema ma non è arrivata finora ad una elaborazione teorico-pratica adeguata.
Una prima indicazione per rispondere alla domanda è venuta proprio dal referendum e dai comitati sorti per difenderlo, i protagonisti indiscussi delle occupazioni dei collegi elettorali e della resistenza pacifica ma ferma davanti alla polizia, divenuti dopo il primo ottobre Comitati di Difesa della Repubblica.
I CDR sono stati uno strumento di partecipazione decisivo per proseguire la lotta negli anni seguenti al referendum ma insufficiente: pur continuando la mobilitazione, sono rimasti intrappolati tra l’incudine della svolta autonomista di ERC e di Junts, incantati dalle sirene riformiste del PSOE, e il martello della repressione dello stato.
Ciononostante i CDR hanno dimostrato di poter svolgere un’azione unitaria proprio nei momenti più conflittuali (a cominciare dal primo ottobre e dai differenti scioperi generali dei mesi successvi) portando tutto il movimento su posizioni più avanzate. Ciononostante la domanda rimane inevasa.
La seconda questione che il referendum lascia aperta è quella della cosiddetta internazionalizzazione del conflitto, da più parti evocata con insistenza. Ma qual’è la visione internazionale e la reale politica estera dell’indipendentismo? Al di là della retorica, come si concretizza la internazionalizzazione del conflitto?
Sia Junts che ERC coltivano un europeismo tanto ingenuo quanto incomprensibile: le due branche maggioritarie del movimento vedono nella Unione Europea una istituzione più democratica dello stato, considerato ancora intriso della cultura franchista. Perciò si illudono che prima o poi la UE sostenga la loro richiesta di votare la permanenza o meno della Catalunya nel regno di Spagna.
Questa illusione resiste nonostante la UE non abbia mosso un dito in favore del movimento indipendentista. Pur dietro alla Germania, alla Francia e all’Italia, la Spagna è un socio essenziale per la formazione di un polo europeo in grado di competere con i giganti che dominano lo scenario internazionale. Un polo europeo la cui stabilità interna vale ben più della radicale domanda di democrazia dei catalani.
Ciò nonostante ERC e Junts si ostinano a parlare della Catalunya come di un nuovo stato dell’Unione Europea e considerano la internazionalizzazione come la ricerca più o meno occasionale della solidarietà di questo o quel partito straniero rappresentato nel parlamento europeo.
Su questo terreno l’esquerra independentista e anticapitalista svolge una battaglia essenziale per ribaltare la politica estera dell’indipendentismo. Una battaglia per rendere consapevole la società catalana di una verità tanto semplice quanto densa di conseguenze: la repubblica catalana cozza non solo contro lo Stato ma anche contro il progetto e gli interessi dell’UE.
Nascondersi questo dato di fatto significa mettere la testa sotto la sabbia e ritornare alla gestione della misera autonomia concessa dal governo di Madrid. Perciò su questo terreno l’esquerra independentista e anticapitalista è impegnata per chiarire le prospettive e i compiti del movimento, essenziale per la sua crescita.
Internazionalizzare davvero il conflitto significa infatti contestualizzare la lotta dei catalani nel quadrante europeo, nell’ambito del polo imperialista in formazione. Significa seppellire una volta per tutte l’europeismo di ERC e Junts e caratterizzare il movimento per la ricerca di un nuovo assetto istituzionale europeo, all’insegna della pace e della cooperazione tra i popoli delle due sponde del Mediterraneo.
Significa cioè vedere la repubblica catalana come l’apertura di una crepa nella nascente architettura imperialista europea. Significa tornare alle origini dell’indipendentismo rivoluzionario degli anni ’70 e porre all’ordine del giorno non solo l’indipendenza ma anche il socialismo. Chiarire questo punto è oggi un compito essenziale dell’ esquerra independentista e anticapitalista, certamente arduo ma non più procrastinabile.
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