Qualcuno forse si ricorda di Marianna Vyšemirskaja, la “Madonna di Mariupol”, il cui volto un anno fa aveva fatto il giro del mondo, a testimonianza della malvagità di truppe che non avevano esitato, a Mariupol, a esporre a un pericolo terroristico la locale clinica ostetrica, mettendo a repentaglio la vita di partorienti e neonati.
Per la verità, il volto divenuto l’emblema del dramma, non era quello riprodotto sopra, che è molto più attuale, ma questo, coperto di schizzi di sangue, di una ragazza in attesa di partorire, ripresa fuori del nosocomio; un volto accompagnato da didascalie differenti, a seconda del grado di raccapriccio che le varie testate volevano trasmettere ai lettori, guidati per mano a maledire gli spietati colpevoli, senza dubbio alcuno.
Si era trattato effettivamente di un episodio terroristico; solo che gli autori non erano coloro contro cui tutti i media “rigorosamente veritieri” avevano lanciato sferzanti e disgustate j’accuse: la fake news era tutta dentro quella “rigorosa verità”.
Oggi, con Marianna si è incontrata la redazione di Komsomol’skaja pravda, cui la “Madonna di Mariupol” ha raccontato ancora una volta la propria verità su quanto accaduto nel marzo 2022 a Mariupol.
Lo ha fatto, udite!, in un appartamento di Mosca, dove ora risiede e dove certamente, ci diranno con accenti stentorei i portatori del verbo, era stata condotta contro la propria volontà, così come accade, ci raccontano in continuazione, con centinaia e centinaia di bambini, sottratti alla Patria del führer Andrej Biletskij, trafugati alle colonie estive di “Azov” e portati in Russia per essere lobotomizzati e trasformati in piccoli agenti del Cremlino.
E chi si azzarda a esprimere un dubbio, lo fa certamente perché obnubilato dalla propaganda di Mosca, e non merita che compassione per la propria inconsapevole assuefazione alle quotidiane fake news putiniane.
Ma torniamo a Marianna e alla “verità” della clinica ostetrica N° 3 di Mariupol, il cui bombardamento “da parte dei russi” non meritava altra risposta che l’inasprimento delle sanzioni, come richiesto allora dalla vice di Biden, Kamala Harris, in attesa delle inevitabili e meritate fiamme dell’inferno.
Allorché la vicenda aveva preso il via, quel 9 marzo di un anno fa, il prode Zelenskij si era precipitato a twittare «Mariupol. Colpo diretto delle truppe russe sulla clinica ostetrica. Persone sotto le macerie, bambini sotto le macerie. È un’atrocità. Per quanto ancora il mondo sarà complice e ignorerà il terrore? Chiudete immediatamente i cieli sopra l’Ucraina! Fermate subito gli assassinii!». L’orrore via cavo era assicurato.
In realtà, poco più tardi, Marianna aveva raccontato come fossero andate davvero le cose – lo aveva fatto anche di fronte a Giorgio Bianchi – e si era guadagnata il proprio posto tra i “nemici della patria”, messi all’indice dal solito “Mirotvorets”.
Marianna ricorda come, all’inizio, si volesse ricoverare alla clinica N° 1, ma i bravi del reggimento “Azov” avevano fatto sgombrare l’edificio, per servirsene quale base. Alla clinica N° 3, reparti di “Azov” occupavano uno stabile adiacente a quello di Marianna; successivamente, anche nell’edificio in cui era ricoverata si erano appostati uomini di “Azov”.
«Le finestre dove si erano sistemati, erano coperte da sacchi di sabbia», dice Marianna a Komsomol’skaja pravda, «mentre nelle nostre corsie, c’erano vetri normali: in sostanza, essi ci usavano come copertura».
Poi continua il racconto, ricordando come al mattino del 9 marzo tutto apparisse tranquillo, fino a quando non erano cominciate le esplosioni; non ci fu nessuna incursione aerea, ma a un certo punto un’onda d’urto divelse la finestra del reparto e i vetri volarono dappertutto.
Marianna non poteva nemmeno affermare con sicurezza se si fosse trattato di un proiettile d’artiglieria, o invece di un’esplosione; di sicuro, però, quasi immediatamente erano comparsi gli operatori che avevano cominciato a girare.
Alla domanda se avesse notato che la stavano fotografando, Marianna risponde che se ne era accorta non subito, perché il fotografo non indossava il giubbetto con la scritta “Pressa” ed era vestito di nero; lei gli aveva chiesto di non riprenderla, ma quello aveva continuato a scattare.
La ragazza ricorda che, prima dell’arrivo dei reparti russi, non era possibile abbandonare Mariupol: «non c’era alcuno corridoio umanitario. I soldati ucraini non lasciavano uscire nessuno dalla città». Aveva anche cominciato subito a raccontare la verità, prima ancora dell’arrivo dei russi, ma i giornalisti della Associated press avevano ovviamente riportato solo la “propria storia”.
Una volta tornata a Donetsk (Marianna è nativa della città, ma si era trasferita a Mariupol un paio d’anni prima, quando si era sposata), aveva di nuovo raccontato la storia, col risultato di finire subito sulla lista nera di “Mirotvorets”, da cui avevano augurato la morte a lei e alla figlia neonata.
Ma queste, ovviamente – ci assicurano da là “dove si puote ciò che si vuole” – non sono altro che fake news, messe in giro da quanti, rincorrendo la propaganda del Cremlino, gettano fango sulla «resistenza ucraina», che ha invece bisogno di quante più armi possibile.
Non bastano gli interi arsenali inviati sinora: The Economist afferma apertamente che il flusso di armi occidentali a Kiev si sta trasformando da torrente in un fiume, in vista della prossima controffensiva ucraina.
Finora, la coalizione occidentale ha inviato solo due battaglioni dei più moderni Leopard, scrive il settimanale londinese; ma anche Danimarca, Germania e Paesi Bassi stanno acquistando almeno 100 vecchi Leopard 1A5 ricondizionati da mandare in Ucraina, così da formare tre divisioni.
La Gran Bretagna invia una compagnia di 14 Challenger 2 e la Polonia, che ha già inviato circa 250 carri di concezione sovietica, invierà altri 60 T-72 rimodernati. Oltre a tutto ciò, Kiev sta ricevendo una varietà di veicoli da combattimento per fanteria: dai vecchi BMP-1 dell’era sovietica, ai veicoli americani Stryker e Bradley, mentre gli USA hanno promesso 31 M1A2 Abrams.
E tocca purtroppo riconoscere che, a giurare sulla “resistenza” ucraina, e come questa debba essere armata dall’Occidente, non siano solo certi affiliati, a intermittenza, a consorterie politico-affaristiche liberali, ma anche alcuni onesti adepti di benemerite compagnie (dominate però dagli affiliati di cui sopra) che, udita rimbalzare la parola “resistenza”, ne sono rimasti abbagliati, l’hanno eretta a monumento ubiquo e definitivo, ignorando da quale settore la parola fosse rimbalzata, di quali panni fosse rivestita e dove fosse diretta.
C’è un innocente gioco infantile in Russia, si chiama (tradotto grezzamente) “telefono sordo”: il primo bimbo dice una parola in un orecchio al compagno, in modo che gli altri non sentano, il secondo la ripete al terzo, il terzo al quarto e così via. Alla fine l’ultimo bambino dice ad alta voce la parola, che risulta del tutto diversa da quella detta dal primo bambino.
Ecco: con la “resistenza”, come la si intende in certe conventicole nostrane, sembra proprio di giocare a “telefono sordo”, quando purtroppo non si tratta di un gioco, ma di un dramma e quelli che lo recitano non sono affatto bambini.
E allora, «Verranno giorni nei quali, di quello che vedete, non sarà lasciata pietra su pietra che non sarà distrutta». Perché non sono altro che fake news: le loro.
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