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Chi paga i prezzi dell’energia cresciuti con le sanzioni anti-russe?

Mentre a Roma il terrorista a capo del Governo israeliano concordava con la neofascista a capo del Governo italiano, che «L’Italia vuole essere un hub dell’energia verso l’Europa e noi la pensiamo allo stesso modo», alla corte di Washington uno degli argomenti principali dell’incontro tra Joe Biden e la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen riguardava il rafforzamento della “partnership energetica”.

Vale a dire, detto ipocritamente, la strada «per ridurre la dipendenza dell’Europa dai combustibili fossili russi e accelerare la transizione verde dell’Europa», che tradotto in termini concreti, significa che «il doppio del volume previsto di gas naturale liquefatto è stato fornito dagli Stati Uniti all’Europa».

In ogni caso, la RAND Corporation vede abbastanza grigia la situazione economica occidentale a causa del sostegno all’Ucraina, la cui ricostruzione, costerà 349 miliardi di dollari (alla situazione attuale, non considerando l’ulteriore aggravamento della guerra) e sarà quasi impossibile contare su “riparazioni” russe o sui fondi russi oggi congelati all’estero.

Nonostante tenti di evidenziare le criticità russe, la RAND non può tacere alcuni evidenti indicatori: la crescita economica mondiale, che era attesa del 5% nel 2022, è stata del 3,1% e sarà del 2,2% a fine anno.

Per l’Europa, tale indice, se non ci saranno brutte sorprese, sarà dello 0,3%. Cosicché è proprio l’Europa quella che esce più malconcia dalla crisi attuale; ne vien fuori che il peso dei circa 48 miliardi di dollari in aiuti, militari e non, forniti dagli USA all’Ucraina, ricade sull’Europa.

Non basta; la riduzione della dipendenza dal gas russo dà come risultato un freno dell’economia, e nonostante che il 68% del gas liquefatto americano abbia già preso la via dell’Europa, non è sufficiente a coprire il deficit energetico, considerando innanzitutto il suo prezzo molto più alto rispetto al gas russo.

Insomma, riassume la RAND, mentre la Cina cresce, l’Europa no, e la Russia non dà segni di afflizione, continuando a vendere idrocarburi all’Europa per vie indirette, che ovviamente comportano l’aumento del prezzo per il consumatore finale. Per ovviare al problema, dice l’agenzia di ricerche USA, si potrebbe puntare sulle centrali nucleari, sostituendo la russa Rosatom con Westinghouse Electric e Framatome; ma, ecco l’inghippo: nessuno, tranne i russi, è in grado di smaltire le scorie nucleari.

E, secondo il New York Times, il settore energetico UE dipende ancora in larga parte dal nucleare russo; ed è per questo che diversi paesi occidentali si oppongono alle sanzioni in questo settore, poiché, se è stato abbastanza semplice – scrive il NYT – trovare un sostituto del petrolio e del gas russi (ma: a che prezzo?), non è possibile al momento trovare alternative per l’energia nucleare.

Il NYT è costretto ad ammettere che l’abbandono dell’industria nucleare russa assesterà un serio colpo all’economia europea; mettendo così a segno un nuovo punto a favore degli USA, aggiungiamo.

Il quadro non è completo, se non si parla di altre risorse strategiche: la Russia rimane il maggior esportatore mondiale di grano, fertilizzanti e prodotti forestali, insieme a nichel, cobalto, platino, così che, conclude sconsolata la RAND, «Indipendentemente dall’esito della guerra, le imprese occidentali, pur riluttanti, alla fine torneranno in Russia o riprenderanno a investirvi».

Sull’altro versante, i pozzi del bacino Permiano, tra Texas e New Messico, dove si estrae la stragrande maggioranza del petrolio statunitense, danno sempre meno petrolio, così come accade nei giacimenti del Sud Dakota o Delaware: in quest’ultimo bacino, il 10% dei pozzi più ricchi produce in media il 15% in meno di 6 anni fa.

Durante il decennio del boom dello scisto, gli USA hanno quasi raddoppiato la produzione di petrolio: dai 7 milioni di barili al giorno del 2009 ai 13 milioni di prima della pandemia e ora si stenta a tornare ai livelli di tre anni fa.

Secondo il politologo russo Malek Dudakov, tra le cause della lenta crescita del mercato petrolifero USA si contano le «turbolenze politiche, con l’uscita di scena di Trump e l’emergere di Biden, che concede meno licenze d’estrazione, oltre alla riluttanza delle società a investire nel sviluppo di nuovi giacimenti, mentre coi passati superprofitti preferiscono pagare dividendi».

Il risultato è che, nel bacino Permiano, se l’estrazione continuerà ai livelli attuali, le riserve USA dovrebbero bastare ancora per 10-20 anni; se invece si tenterà di allargare lo sfruttamento, potrebbero esaurirsi in pochissimi anni.

Gli Stati Uniti sono ancora il primo produttore mondiale di petrolio; ma, dice ancora Dudakov, spinti dai timori di esaurimento delle riserve, gli investitori potrebbero iniziare a ritirarsi dal settore e alcuni operatori prevedono un ritorno agli anni ’70-’80, con un crescente predominio di OPEC e Russia.

E così un gruppo di senatori – democratici e repubblicani – hanno presentato un disegno di legge “Nopec”, volto a ridurre l’influenza dei paesi OPEC sul mercato mondiale: dovrebbe venir dichiarata “illegale” qualsiasi azione congiunta per regolare la produzione di petrolio e fissarne il prezzo.

Difficile dire se il progetto andrà in porto e cosa concretamente comporterà: di fatto, sembra giunta al capolinea la cosiddetta “amicizia” USA-Opec, con “l’affare petrolifero del secolo”, concluso a inizi anni ’80 tra Washington e Riyadh, con la seconda che si impegnava a vendere petrolio solo in dollari e a controllare il lavoro degli altri membri dell’OPEC, tenuti anch’essi a concludere in dollari gli accordi petroliferi.

In cambio, Washington si impegnava a garantire la sicurezza del regno e a non interferire nei suoi processi interni. Quest’ultimo punto, a giudizio di Riyadh, non è stato rispettato da Washington e così, durante la recente visita di Xi Jinping è stato annunciato che l’Arabia venderà petrolio non solo in dollari: prima di tutto alla Cina, uno dei maggiori importatori di petrolio saudita.

A questo proposito, sul portale Daily Reckoning, l‘ex consigliere della CIA James Rickards scrive che le sanzioni anti-russe porteranno all’abbandono dell’uso del dollaro nella circolazione mondiale tra vari stati.

L’unità di intenti tra gli «stati che vogliono continuare a commerciare con la Russia, nonostante l’enorme pressione di Washington, è stata una delle ragioni principali del fallimento delle sanzioni… Quanti più paesi neutrali commerciano con la Russia, tanti di meno avranno bisogno di dollari USA», afferma Rickards e aggiunge che tutto ciò porterà a un declino del dollaro come principale valuta di pagamento.

E l’Europa torna comunque ad acquistare gas russo: secondo la russa Ekspert.ru, che riporta dati dal Brueghel Institute di Bruxelles, gli acquisti di gas liquefatto russo da parte di paesi UE stanno battendo ogni record. Lo scorso agosto è entrato in vigore il divieto di acquisto di carbone russo, mentre a dicembre ha preso il via l’embargo sul petrolio russo trasportato via mare e, a febbraio 2023, anche sui prodotti petroliferi.

Ma, per ora, non ci sono sanzioni o divieti sul gas russo e se sono ridotti al minimo gli acquisti di gas portato da gasdotti, gli acquisti di gas naturale liquefatto (GNL) vanno al massimo: 19,2 miliardi di mc, ossia il 35% in più rispetto ai 14,2 mld del 2021. E, stando a Business Insider, anche per quest’anno non ci sono segnali di un calo della domanda di GNL russo; anche perché nessuno può prevedere se anche l’inverno 2023-’24 sarà caldo come quello 2022-’23 e il solo GNL americano non sarebbe sufficiente ad affrontare un inverno normale.

In ogni caso, l’energia continuerà a esser costosa per i paesi UE. Lo ha detto il capo dell’Agenzia internazionale per l’energia, Fatih Birol, intervenendo al Parlamento europeo.

L’esempio del petrolio è lampante; in presenza di un’altissima domanda, il prezzo non si orienta più sulla qualità russa “Urals”. Enormi quantità di petrolio russo vanno ai paesi orientali e la UE lo acquista da quelli, a prezzo, naturalmente, superiore.

Nel corso della International Energy Week, tenutasi a Londra pochi giorni fa, è stata presentata una valutazione dell’impatto delle sanzioni sulle esportazioni di petrolio russo. In sostanza, è stato detto a chiare lettere che «non si vedono grossi sconti sul greggio … dopo l’embargo, il prezzo medio all’esportazione del petrolio russo è di circa 74 dollari al barile, anche se il petrolio “Urals” ne costa 52». Gli sconti ci sono, ma vanno a vantaggio di India e Turchia, attraverso cui arrivano alla UE i prodotti petroliferi russi.

Ora, osservano alcuni analisti russi, pur se è difficile registrare esattamente quanto e a chi venda la Russia, si può dire però che volumi significativi di petrolio – “al nero”, si direbbe – arrivino dalla Russia a paesi UE, senza rientrare nelle statistiche ufficiali.

A Ovest si insiste dunque su un’urgente riduzione del prezzo di petrolio e prodotti petroliferi russi fino a 35 dollari, quale «potente strumento per contenere la Russia».

Curiosamente, proprio in questi giorni Bloomberg parlava di quattro grandi petroliere ancorate al largo di Ceuta, tre delle quali, cariche di 8 milioni di barili di petrolio, li riversavano nella quarta: proprio sotto il naso delle autorità UE, osservava Aleksej Bobrovskij, nonostante tutti sappiano che si tratta di petrolio russo.

Cosa ne vien fuori? Le sanzioni non funzionano e tutti ne sono stufi, tanto da aggirarle, senza nemmeno preoccuparsi di nascondersi. Sia il greggio che i prodotti petroliferi russi, come arrivavano prima alla UE, così continuano ad arrivare ora; solo che, per via dei nuovi prezzi, cresce il valore degli scambi.

Secondo l’Istituto statistico della UE, il tasso di crescita dei prezzi al consumo rispetto allo scorso anno è stato del 8,6%, superiore alle stime preliminari e il il tasso base di inflazione è stato rivisto ad un valore superiore del 5,3%.

Così, Balaam rispose all’asina: «Perché ti sei beffata di me! Se avessi una spada in mano, ti ammazzerei subito» (Numeri, 22-29).

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