L’annuncio “a sorpresa” della ripresa delle relazioni tra Iran ed Arabia Saudita, il 10 marzo a Pechino, dopo due anni di colloqui segreti in Oman ed in Iraq, ha iniziato a cambiare – potremmo dire a stravolgere – le relazioni politiche in Medio-Oriente.
I due Stati – capifila della storica scissione del mondo islamico, tra Sciiti e Sunniti – acerrimi nemici dalla fine degli Anni Settanta, avevano rotto le relazioni diplomatiche nel 2016, dopo le violente proteste contro la rappresentanza diplomatica saudita a Teheran causate dall’esecuzione del noto leader sciita saudita Nimr Baquer Al-Nimr.
Iran e Arabia Saudita si stavano confrontando indirettamente su differenti fronti, dalla Siria al Libano fino allo Yemen, dove dal marzo del 2015 una coalizione a guida saudita è entrata in guerra – con l’appoggio degli Stati Uniti – contro i ribelli Houthi.
I quali, dopo avere cacciato con una vera e propria insurrezione il Presidente gradito ai sauditi Abd-Rabdu Mansour Hadi, controllavano circa l’80% del territorio.
Ma lo scontro aveva probabilmente superato la guerra per procura con l’attacco nel settembre 2019 a due dei siti petroliferi sauditi più strategici, dimostrando la vulnerabilità del Regno, e portando probabilmente a miglior consiglio il rampollo saudita, conscio del fatto che nell’inasprirsi dello scontro contro Teheran l’Arabia Saudita aveva tutto da perdere.
Il 6 aprile i ministri degli esteri di Iran e Arabia Saudita a Pechino hanno continuato questo processo di normalizzazione che porterà presto, tra l’altro, alla riapertura delle rappresentanze diplomatiche, ad una ripresa dei voli tra i due Paesi, al rilascio di Visa.
Una data che potrebbe diventare una giornata simbolo della “riunificazione” mediorientale potrebbe essere il 19 maggio, con il summit della Lega Araba a Ryad, con la possibile visita di Ebrahim Raisi, il presidente iraniano invitato del Principe Ereditario saudita, Mohammad bin Salman.
A dare maggior valore all’incontro potrebbe essere la presenza di Bashar Al-Assad, a cui si oppongono oramai solo il Qatar e il Kuwait.
Una presenza caldeggiata dal sapiente lavoro diplomatico anche dell’Algeria, ormai capofila del nuovo “Fronte del Rifiuto” e vero architetto della conciliazione tra le organizzazioni della Resistenza Palestinese. Ormai l’isolamento del leader siriano è “rotto” da tempo, anche se le Cancellerie occidentali fanno finta di non accorgersene.
Le dichiarazioni fatte il 6 aprile a Pechino lasciano intendere che si apre realmente una nuova fase nelle relazioni tra Iran ed Arabia Saudita: «le due parti hanno concordato di sviluppare la loro cooperazione in tutti i settori, al fine di assicurare la sicurezza e la stabilità della regione».
La Cina si conferma un attore diplomatico di primo piano, un vero game changer e non più solo una ragguardevole potenza economica nella regione a cui appoggiarsi.
A rimetterci sono gli USA – che vedono ulteriormente ridotto il loro ruolo e sempre più risicata la loro egemonia – ed Israele, la cui strategia di normalizzazione dei rapporti diplomatici con gli Stati Arabi subisce un importante colpo d’arresto.
I continui attacchi alla Moschea di Al-Aqsa – terzo luogo più sacro dell’Islam – durante il periodo di Ramadan, il pervicace tentativo di installare nuove colonie illegali con il supporto attivo di personalità di spicco dell’attuale governo, i continui attacchi alla Siria ed ora al Libano, non possono certo incontrare il favore delle opinioni pubbliche dei paesi arabi, specie di quelli che avevano dimostrato apertamente la contrarietà nei confronti delle scelte di “normalizzazione” dei propri governi, come in Marocco od in Sudan.
Uno dei frutti di questa distensione tra Iran ed Arabia Saudita è proprio l’avvio di un processo di pace in Yemen.
Se uno scambio di circa 900 prigionieri – 887 per la precisione – era già stato annunciato il 20 marzo grazie all’opera dell’ONU e della Croce Rossa Svizzera, si stanno ponendo le basi per una cessazione delle ostilità e l’avvio di un vero e proprio processo di pace, in un contesto in cui – nonostante non fosse stata rinnovata formalmente, l’ottobre scorso, la tregua precedentemente firmata nell’aprile del 2022 – di fatto stavano già tacendo le armi.
Sabato scorso l’incontro tra l’ambasciatore dell’Arabia Saudita in Yemen, Mohammed Al-Jaber, ed il leader del Consiglio degli Houthi, Mahi Al-Mashat, ha fatto fare un passo decisivo.
Secondo quanto riporta il quotidiano saudita in lingua inglese Arab News ciò che si sta discutendo è: «tregua di sei mesi garantita dall’Onu, la fine dei combattimenti su tutti i fronti, negoziati diretti sponsorizzati dall’ONU tra il governo yemenita e gli Houthi ed un periodo di transizione di due anni».
Tra il governo yemenita “riconosciuto internazionalmente” e gli Houthi stanno facendo da mediatori delegati dell’Arabia Saudita e dell’Oman giunti a Sanaa.
Le reazioni ai colloqui sono più che positive da parte dell’Iran, con il portavoce del Ministero degli Esteri Iraniano, Nasser Kanani, che ha espresso «sostegno alla tregua prolungata in Yemen e alla fine del conflitto».
Sembrano esserci, quindi, tutti i presupposti per un esito positivo.
L’agenzia Houthi SABA riferisce le parole del leader dei “ribelli” che auspica una «pace onorevole» che assicuri «libertà ed indipendenza agli yemeniti».
Nelle discussioni, secondo quanto riporta il sito in inglese del network Al Jazeera, si starebbe trattando per la fine del blocco aereo-navale delle aree controllate dagli Houthi e, contestualmente, la fine dell’assedio alla città di Taiz da parte dei “ribelli”.
Gli insorti offrirebbero garanzie ai sauditi, che in cambio si farebbero carico della ricostruzione.
Verrebbero riaperti il porto e l’areoporto di Sanaa, ora sotto controllo degli Houthi, assicurato il pagamento degli stipendi pubblici, e fissato un crono-programma affinché le forze straniere lascino il paese.
Un’ottima notizia per un Paese che ha conosciuto una delle più grandi catastrofi umanitarie della nostra epoca e per tutti coloro che, contro un assordante silenzio, hanno cercato di mettere in evidenza la complicità occidentali – dalla copertura politica alla vendita di armi – in questo conflitto.
Sia detto, a scanso di equivoci, riprendendo le parole di Alberto Negri: «Gli Accordi tra Teheran e Riad sono tra due stati che hanno in comune la difesa di un ordine sociale oscurantista e patriarcale: un orizzonte nero come il petrolio».
Ma allo stesso tempo aprono inedite prospettive di pace nella regione e aumentano l’isolamento dell’alleanza strategica tra USA e Israele, principali vettori dei maggiori disastri nella regione.
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